The European Parliament today adopted with an overwhelming majority (546 in favour, 47 against, 31 abstentions) the Anti-SLAPP Directive, intended to protect journalists and media outlets from abusive litigations. The European Federation of Journalists (EFJ) joined the organisations of the Coalition Against SLAPPs in Europe (CASE) in welcoming an important step in the fight against SLAPPs, but regrets the considerable room for manoeuvre left to the Member States on several crucial points.
“Some refer to this law as Daphne’s law (Daphne Caruana Galizia) and I think it’s important to mention it, here in this room, named after Daphne. We achieved an additional layer of protection for journalists. There was no definition of SLAPPs in Europe, we now have one: this is important to help the courts better understand SLAPPs,” said the rapporteur Tiemo Wölken (S&D, Germany) during the press conference following the adoption in the plenary session of the European Parliament, on 27 February 2024.
The adopted Directive provides safeguards for journalists targeted by manifestly unfounded claims or abusive court proceedings, in civil matters, and with cross-border implications. These include an accelerated procedure to dismiss cases at the earliest stage, third-party support to targets during court proceedings, penalties for claimants and compensatory damages for victims.
This directive is only applicable to SLAPP cases (see factsheet ‘What is a SLAPP’) with a cross-border dimension, i.e. when both parties are domiciled in different Member States. However, the definition of “cross-border” was broadened during the final phases of the negotiations to also include “other elements relevant to the situation”, irrespective of the means of communication used. For example, information of public interest published in one country could be considered as a “cross-border” element in another country under this directive. It will be up to the national courts and Member States to implement this definition broadly to cases.
Such an addition, however incomplete, was a key demand of the CASE coalition which mapped SLAPP cases across Europe from 2011 until today. According to the research, only less than 10% of the cases identified and vetted are classical cross-border cases. A strict definition, whereby the directive would only apply to SLAPP targets sued in a purely domestic context, would have failed to counteract the growing problem of SLAPPs in the EU.
“The responsibility now lies with Member States to build on the foundation set by the Anti-SLAPP Directive and draft effective national legislation which includes a broad scope to cover also domestic SLAPP cases, robust guarantees in terms of the early dismissal mechanism to filter out SLAPPs, safeguards in national legislation on damage compensation, as well as a number of non-legal instruments detailed in the Commission’s Recommendations,” said CASE in a press release containing analyses of three key articles.
Lo“The Member States will have two years to comply with the directive and we hope to see anti-SLAPP legislations transposed on-time in all countries and going beyond the minimum guarantees provided by this text. The seriousness of the problem requires European governments to be more ambitious as SLAPPs mushroom across the European Union. We also expect the forthcoming Council of Europe Recommendation to provide further guidance,” said EFJ Director Renate Schroeder.
Il suicidio di un ragazzo della Guinea di 22 anni, Ousmane Sylla, avvenuto oggi nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Ponte Galeria a Roma, è l’ennesima morte causata da un sistema di detenzione illegittimo ed inumano. Un sistema che non solo priva le persone della propria libertà personale senza aver commesso alcun reato ma che consente, anche, di fare profitto sulla loro pelle”. Questo il commento della Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD), che prosegue:
“I CPR sono dei buchi neri dove i diritti, anche quelli più elementari – alla salute, alla difesa legale, alla comunicazione – sono negati. Dove le persone sono detenute, per mesi, in condizioni indegne, invisibili alla società civile che per entrare in questi Centri ha bisogno di autorizzazioni specifiche di Prefetture sempre più restie a concederle. Rendendo quindi questi luoghi completamente opachi.
Di più, questi Centri sono anche affidati alla gestione di privati, che fanno profitti sulla privazione della libertà di esseri umani: a Ponte Galeria l’ente gestore è la multinazionale elvetica Ors, l’unica ad avere anche – almeno fino al giugno scorso – una società di lobbying che ne tuteli gli interessi in Parlamento.
Nonostante le denunce della società civile, le indagini della Procura che stanno riguardando il CPR di Milano, il Governo ha aumentato i tempi di permanenza fino a 18 mesi, affidato la gestione di nuovi Centri al genio militare e stretto un accordo con l’Albania per la costruzione di un CPR nel paese balcanico, ancor più lontano dagli occhi.Riteniamo, invece, che questi luoghi vadano immediatamente chiusi e pretendiamo che si faccia chiarezza sul suicidio di Ousmane Sylla. Dopo questa ennesima morte, si stanno verificando delle proteste da parte dei detenuti nel CPR di Ponte Galeria che si sommano a quelle già verificatesi in altri Centri per le condizioni di detenzione: da Trapani a Gradisca d’Isonzo. Sappiamo bene che vi è il rischio di violente repressioni di queste proteste e di repentini rimpatri dei detenuti che hanno assistito alla morte di Sylla e che ora stanno denunciando l’accaduto. Continueremo a vigilare su quanto sta accadendo nel CPR di Roma e a batterci per porre definitivamente fine a questa ignobile forma di detenzione.
Invitiamo anche il Comune di Roma a farsi carico di quanto sta accadendo nel CPR presente sul proprio territorio, richiedendone la immediata chiusura e avviando una “Commissione di indagine conoscitiva”, sul modello di quanto fatto a Bologna nel 2006. Una Commissione permanente che veda la partecipazione dei Garanti locali e delle associazioni attive sul territorio, per verificare le condizioni di detenzione nel Centro di Ponte Galeria”.
Amnesty International ha sollecitato gli Stati europei a fermare immediatamente i trasferimenti di rifugiati e richiedenti asilo del Caucaso del Nord verso la Russia, a causa del rischio di subire maltrattamenti e torture e di essere costretti ad andare a combattere nella guerra di aggressione contro l’Ucraina.
In una ricerca pubblicata oggi, dal titolo “Europa: il punto di non ritorno”, Amnesty ha denunciato che alcuni stati europei – tra i quali Croazia, Francia, Germania, Polonia e Romania – hanno estradato o stanno cercando di estradare richiedenti asilo fuggiti dalla persecuzione nel Caucaso del Nord e in cerca di salvezza in Europa.
“È scandaloso che, nonostante abbiano dichiarato di aver sospeso ogni forma di cooperazione giudiziaria con la Russia, a seguito della sua invasione dell’Ucraina, diversi stati europei stiano minacciando di rimandare persone nel Caucaso del Nord, esattamente nei luoghi dai quali erano fuggite a causa della persecuzione. Gli stati europei devono riconoscere che molte di queste persone, in caso di rimpatrio, rischierebbero arresti, rapimenti, maltrattamenti e torture, nonché l’arruolamento forzato”, ha dichiarato Nils Muiznieks, direttore di Amnesty International per l’Europa.
“La situazione, per coloro che sono fuggiti dal Caucaso del Nord, è notevolmente peggiorata a causa del deterioramento della situazione dei diritti umani in Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Vanno incontro a torture, sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie senza che nessuno sia chiamato a risponderne. Storicamente, negli stati europei, queste persone sono stigmatizzate e prese di mira con provvedimenti di espulsione e rimpatrio”, ha aggiunto Muiznieks.
Nel Caucaso del Nord, soprattutto in Cecenia, la situazione dei diritti umani è pessima. Chiunque esprima critiche, prenda parte ad attività in favore dei diritti umani e appartenga o venga percepito come appartenente alla comunità Lgbtqia+, rischia di essere colpito e lo stesso accade ad amici e parenti.
“Ti catturano in strada e hai due opzioni: vai in galera per 10 anni o cerchi di fuggire. Nelle prigioni cecene, è come se non esistessi più. Ma almeno puoi uscirne dopo 10 anni. Sempre meglio che essere arruolati, combattere e morire”, ha dichiarato ad Amnesty International un richiedente asilo della Cecenia.
Il ritiro della Russia dalla Convenzione europea dei diritti umani e la repressione in atto contro gli osservatori indipendenti sulla situazione dei diritti umani hanno enormemente aumentato il rischio di violazioni e hanno privato le vittime di importanti possibilità di chiedere giustizia.
I rischi sono aumentati dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre contro il sud d’Israele e dopo i bombardamenti israeliani a Gaza e i sempre più violenti attacchi, con arresti e uccisioni, contro i palestinesi della Cisgiordania occupata.
Il presidente Macron ha inoltre autorizzato il suo ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, a negoziare con le autorità russe i possibili trasferimenti. Ne sono in programma almeno 11.
“Da anni i governi e le istituzioni europee ignorano o sminuiscono i gravi rischi cui va incontro chiunque venga rimpatriato nel Caucaso del Nord. Questi rischi sono ora ancora più acuti ed è incomprensibile usare il pretesto delle tensioni in Medio Oriente per giustificare il ritorno in Russia dei richiedenti asilo”, ha sottolineato Muiznieks.
“I governi europei devono fermare immediatamente tutti i trasferimenti in Russia di persone che rischiano di subire torture o altre violazioni dei diritti umani e riconoscere che tali rischi sono assai più alti per le persone del Caucaso del Nord. L’Europa deve valutare in modo corretto i loro bisogni di protezione, alla luce della pessima situazione dei diritti umani in Russia e della guerra in corso contro l’Ucraina”, ha concluso Muiznieks.
L’intervento di apertura di Carlo Bartoli alla conferenza stampa annuale, appuntamento con la Presidente del Consiglio organizzato dall’Ordine dei giornalisti e dalla Associazione Stampa Parlamentare
“In questa sala ci sono alcuni banchi vuoti: per la prima volta nella storia decennale di questo tradizionale appuntamento la Federazione nazionale della stampa ha inteso disertare per protesta la conferenza stampa. Una protesta che nella sostanza condivido. Ci allarma, infatti, l’approvazione avvenuta nei giorni scorsi di un emendamento che rischia di far calare il sipario sull’informazione in materia giudiziaria. Ci preoccupano, a questo proposito, certe espressioni ingiuste e calunniose di alcuni parlamentari.
L’Italia da anni è sotto osservazione delle istituzioni europee per l’elevata mole di azioni giudiziarie intimidatorie contro i giornalisti. Per questo chiediamo di ripensare a fondo la riforma della diffamazione in discussione al Senato; una proposta che non disincentiva in maniera seria le liti temerarie e comprime invece, a nostro avviso in maniera ingiustificata, il diritto dei cittadini a un’informazione libera e approfondita. Speriamo che il Parlamento non ripeta l’errore commesso nella scorsa legislatura, quando ha approvato le norme sulla cosiddetta presunzione di innocenza: un principio sacrosanto che la legge non ha saputo difendere, ma la cui applicazione ha prodotto l’oscuramento di tantissime notizie di cronaca.
Per fortuna, recentemente la Corte di Cassazione in una chiarissima sentenza ha difeso e valorizzato il giornalismo di inchiesta. Siamo anche soddisfatti delle recenti modifiche apportate dall’Europa al Media Freedom Act a tutela dei giornalisti che non possono e non devono essere intercettati mentre svolgono il loro lavoro come purtroppo è accaduto in Italia e come è stato rivelato pubblicamente nei giorni scorsi.
Guardiamo all’Europa, alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, alla Corte Costituzionale, alla Cassazione, ma dobbiamo prendere atto di essere descritti, da alcuni esponenti del ceto politico, come speculatori che lucrano sulle disavventure giudiziarie.
Quest’anno abbiamo ricordato i 60 anni dell’Ordine. Non una autocelebrazione, ma un momento di riflessione sulla storia del giornalismo italiano, sul suo presente e sul suo futuro. Una riflessione che ci porta a chiedere ancora una volta che il Parlamento approvi una riforma della professione che attendiamo da diversi decenni. Nell’epoca dell’Intelligenza artificiale siamo ancora inchiodati a norme pensate e approvate il secolo scorso. Abbiamo presentato la nostra proposta, unanime, speriamo di avere l’ascolto delle istituzioni.
Questo governo si è mosso in maniera efficace nel sostegno all’editoria, in particolare nel comparto delle agenzie di stampa; un’azione importante, ma occorre fare ancora di più. È indispensabile un grande progetto di rilancio dell’industria dell’informazione. E agli editori diciamo che la strada del progresso e quella della precarietà si muovono in direzioni opposte; c’è troppo lavoro povero. Troppi compensi assomigliano più a un’elemosina che a una retribuzione. Esprimo solidarietà alle colleghe e ai colleghi dell’Agenzia DIRE per la difficile situazione in cui si trovano tra licenziamenti e sospensioni.
Con l’avvento dell’Intelligenza artificiale, l’Italia deve scegliere se accettare di essere tagliata fuori dal grande mercato internazionale della cultura e dell’informazione o cercare di riguadagnare un ruolo in quell’ambito nel quale si produrrà e distribuirà una fetta rilevante della ricchezza planetaria. Per farlo, occorre un’alleanza di tutti i soggetti in campo: Governo, Parlamento, autorità regolatorie, editori, nuove professionalità, giornalisti. Noi ci siamo, ma occorre fare prestissimo.
Del resto, anche editori e giornalisti sono chiamati in causa in una vicenda che, come ha ricordato il Presidente della Repubblica, mette in gioco il futuro della democrazia. Dobbiamo adottare una seria autoregolamentazione, a partire dalla trasparenza in materia di Intelligenza artificiale. I nostri lettori e ascoltatori devono sapere se e in quale proporzione i nostri contenuti sono costruiti con l’ausilio dell’Intelligenza artificiale. Trasparenza e tracciabilità dei contenuti, oltre a responsabilità e deontologia, devono rappresentare i caratteri che ci distinguono rispetto quanto viene immesso in rete sotto forma di sedicente informazione.
Gentile presidente, in questi decenni, i giornalisti non hanno esitato a rischiare la vita, e talvolta a perderla, per raccontare i delitti della mafia, i soprusi e le violenze, i crimini di guerra, gli stermini. Testimoni scomodi e poco amati, spesso divenuti bersaglio nei momenti di forte tensione sociale e negli scenari di guerra. Anche se qualcuno oggi cerca di dimenticarlo o sottovalutarlo.
Questa è la nostra storia, storia di cui siamo orgogliosi; queste sono le nostre radici innervate nei valori della Costituzione ed ispirate ai principi internazionali che ci richiamano, come cittadini e come giornalisti, ad operare in difesa della libertà e del rispetto dei diritti umani, contro ogni discriminazione”.
Per la prima volta, la Segretaria e il Presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana hanno deciso di non partecipare alla conferenza stampa, in segno di protesta per l’emendamento Costa – approvato dal Senato con parere favorevole del governo – che restringe il diritto di cronaca.
La presidente Giorgia Meloni ha affermato che la norma Costa farebbe tornare la disciplina dell’articolo 114 del Codice di procedura penale a prima della riforma Orlando. Così dicendo, però, al di là dei giochi di parole, la premier non ha potuto non riconoscere che il disegno di legge presentato dal deputato di Azione e votato dalla Camera rappresenta una involuzione rispetto alla riforma del 2017 che ha espressamente consentito la pubblicazione delle ordinanze cautelari, che sono atti necessariamente conosciuti dalle parti.
Per la Fnsi, «la norma bavaglio, su cui sarà chiamato a pronunciarsi il Senato, rappresenta un passo indietro non solo per il diritto di cronaca, ma anche nella tutela dell’indagato. Si obbligano infatti i giornalisti a riportare solo sintesi e notizie de relato, senza potersi affidare alla precisione degli atti giudiziari. La strumentale distorsione del garantismo penale non può certo costituire l’alibi per una inaccettabile involuzione democratica».
La Fnsi chiede al governo e al Parlamento di non procedere all’approvazione definitiva.È una norma in contrasto con sentenze Cedu, e imbavaglia il diritto dei cittadini a sapere.
L’Asgi ha scritto in un documento diffuso nei giorni scorsi che sarebbe incostituzionale non sottoporre al Parlamento il Protocollo italo-albanese: i contenuti rientrano tra i casi in cui l’art. 80 Cost. prescrive che sia preventivamente approvata dal Parlamento una legge di autorizzazione alla loro ratifica.
Il 21 novembre 2023, contrariamente con quanto inizialmente dichiarato alla stampa, il Governo ha annunciato che intende sottoporre in tempi rapidi alle Camere un disegno di legge di ratifica che contenga anche le norme e gli stanziamenti necessari all’attuazione del protocollo.
In contemporanea alle comunicazioni in Aula da parte del ministro degli Esteri, con il Tavolo Asilo e Immigrazione, in una conferenza stampa, abbiamo presentato le ragioni per le quali il Parlamento debba votare contro il disegno di legge di ratifica.
L’Asgi ha analizzato il testo del Protocollo Italia-Albania, evidenziandone illegittimità costituzionali e violazioni delle normative vigenti e concludendo :”Le numerose ambiguità e illegittimità che caratterizzano il Protocollo fanno concludere che non possa essere ratificato in Parlamento. Qualora lo fosse molte delle relative norme italiane potranno essere dichiarate in tutto o in parte costituzionalmente illegittime“.
Appello della società civile europea e le organizzazioni nazionali
Il Regolamento Screening è una delle principali proposte di riforma introdotte con il Patto Europeo e i negoziati per l’adozione del regolamento sono attualmente in corso. Uno degli articoli del nuovo regolamento (l’articolo 5) consentirà agli Stati di svolgere accertamenti nei confronti di persone sospettate di essere prive di documenti in qualsiasi occasione all’interno del territorio.
Il rischio è creare un ambiente ostile in cui le minoranze – siano esse cittadini dell’UE o individui con uno status di residenza regolare o irregolare – si troverebbero ad affrontare un rischio maggiore di essere oggetto di controlli discriminatori e potenzialmente detenuti senza adeguate garanzie.
Come già segnalato al Comitato per l’Eliminazione delle Discriminazioni Razziali (CERD), gli episodi di discriminazione basati sulla profilazione etnica non costituiscono incidenti isolati, ma delineano un quadro di razzismo sistemico che viola il principio di non-discriminazione sancito dall’art.3 della Costituzione e vari obblighi internazionali.
ASGI e le principali reti della società civile europea e le organizzazioni nazionali:
Corte di Cassazione: “Chi entra in Italia ha diritto all’informativa completa ed effettiva sull’asilo dal primo contatto con la polizia”
Non bastano le informazioni contenute nel cd. foglio notizie sbarco né la clausola di stile abitualmente inserita nei decreti di respingimento.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione, Sezione 1 civile, con la sentenza n. 32070 del 20 novembre 2023. La Corte ha stabilito principi di estrema importanza in tema di diritto all’informativa in materia di protezione internazionale, collocandone l’adempimento sin dal primo contatto con le forze di polizia di frontiera e ponendo, conseguentemente, tale diritto all’interno del più ampio quadro normativo relativo anche al diritto all’accoglienza dei richiedenti asilo.
La pronuncia, con estrema chiarezza e linearità, corona un ragionamento sviluppato da tempo anche dalla nostra associazione.
È stato firmato oggi dal Comune di Milano e da UNHCR, Agenzia ONU per i rifugiati, nell’ambito della City to city visit presso WeMi inclusione a Milano, un protocollo di intesa volto a promuovere e favorire l’integrazione delle persone rifugiate sul territorio. Con la firma di Chiara Cardoletti, Rappresentante di UNHCR per l’Italia, la Santa Sede e San Marino, alla presenza dell’assessore al Welfare e Salute Lamberto Bertolé, si rende ufficialmente attivo il documento siglato precedentemente dal Sindaco di Milano Giuseppe Sala.
“Siamo estremamente soddisfatti della risposta del Comune di Milano all’appello di UNHCR per la costruzione una rete di città che si impegnano a fare la differenza nell’integrazione sociale, culturale ed economica delle persone rifugiate nella società italiana. – Dichiara Chiara Cardoletti, Rappresentante di UNHCR per l’Italia, la Santa Sede e San Marino – Crediamo fermamente che la città di Milano possa sostenere politiche e programmi che abbiano un impatto concreto sulla vita delle persone rifugiate e sulle comunità che le accolgono, valorizzando il contributo delle prime, come risultato di un processo dinamico fondato sulla partecipazione.”
Il Comune di Milano si allinea quindi ai Comuni di Bari e Napoli che hanno già siglato simili Protocolli di intesa con l’UNHCR che prevedono azioni coordinate volte a favorire l’integrazione delle persone rifugiate, promuovendo un accesso più semplice ed efficiente ai servizi disponibili sul territorio.
“Siamo convinti – dichiara l’assessore al Welfare e Salute del Comune di Milano Lamberto Bertolé – che, per affrontare al meglio i processi migratori e coniugare le esigenze dei territori con i bisogni dei rifugiati, gli enti locali debbano essere protagonisti di processi d’integrazione costruiti in maniera non più emergenziale, ma strutturale. Per questo abbiamo costruito un luogo fisico dove chi arriva in città possa trovare in un unico punto ascolto, orientamento e una risposta il più completa possibile. Avere l’occasione di condividere i risultati del nostro lavoro con le altre città è per noi uno strumento prezioso di miglioramento e crescita che UNHCR ci mette a disposizione”.
Il protocollo contempla il potenziamento e lo sviluppo dei servizi attivi a WeMi inclusione per l’accoglienza, l’integrazione e la promozione della partecipazione nel Comune di Milano, puntando sulla cooperazione tra sistema d’accoglienza, servizi territoriali e attori istituzionali e privati coinvolti nei processi d’integrazione.
Tre gli approcci d’intervento privilegiati: il coinvolgimento di tutta la società (whole-of-society), la costruzione di reti di fiducia attraverso il programma di Community Matching, e lo sviluppo del modello di Spazio Comune, programma sviluppato dall’UNHCR nel 2022 che prevede centri multiservizi e polifunzionali dove sono concentrati i servizi fondamentali per l’integrazione delle persone rifugiate, spazi aperti e facilmente accessibili dove i rifugiati possono trovare risposte ai propri bisogni di integrazione nelle comunità che li accolgono.
Milano, insieme a Bari, Napoli, Palermo Roma e Torino ha sottoscritto la Carta per l’Integrazione delle persone rifugiate, documento che mira a potenziare la collaborazione fra le città sull’integrazione delle persone titolari di protezione internazionale, favorendo lo scambio di pratiche, esperienze, strumenti e sviluppando i servizi già disponibili sui territori.
L’Agenzia ONU per i rifugiati è al fianco dei Comuni italiani, il cui ruolo centrale nei processi di integrazione vuole essere riaffermato e supportato tramite eventi come City to City e la costante e quotidiana collaborazione con l’UNHCR.
Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Un blocco navale per fermare gli arrivi di migranti verso l’Italia. E’ il piano proposto da Giorgia Meloni in vista delle elezioni politiche del prossimo 25 settembre. “Il blocco navale che propone Fratelli d’Italia è una missione militare europea, realizzata in accordo con le autorità libiche, per impedire ai barconi di immigrati di partire in direzione dell’Italia. Non si tratta di respingimenti, perché questi avvengono in mare aperto” si legge sul sito del partito di destra. Ma la proposta di un blocco navale è realizzabile davvero?
Stando all’articolo 42 dello Statuto delle Nazioni Unite il blocco navale non può essere attivato unilateralmente da uno Stato se non nei casi di legittima difesa, e cioè in caso di aggressione o guerra. Il contrasto all’immigrazione non rientra in nessuna delle fattispecie previste e dunque sarebbe illegale. Anzi, potrebbe essere equiparato a un atto di guerra da parte del nostro paese.
“Il blocco navale è un istituto preciso, regolato dal diritto di guerra e in questo momento c’è una guerra interna in Libia ma non c’è una guerra internazionale né contro l’Italia né contro l’Unione europea, quindi non ci sono i presupposti per evocare questa misura – spiega a Redattore Sociale Irini Papanicolopulu, professoressa associata di diritto internazionale all’università di Milano Bicocca – . Inoltre, non esiste un blocco navale concordato con il paese contro cui si fa. Ci sono casi specifici in cui può essere attuato, come nel caso di un conflitto armato, ma questo presuppone la perdita di neutralità da parte di chi lo opera. E’ a tutti gli effetti un atto ostile contro lo Stato verso cui si fa. E’, dunque, attualmente irrealizzabile”.
Secondo Papanicolopulu c’è probabilmente una confusione terminologica, si parla di “blocco navale” intendendo però “un’operazione di interdizione”. Che, però, allo stesso modo è possibile attuare solo ad alcune condizioni. “Nello specifico – spiega la docente – un’operazione di interdizione per fermare i migranti sarebbe contraria agli obblighi internazionali sia relativamente al diritto del mare che ai diritti umani”.
Nel 1997 l’allora governo Prodi mise in atto un’operazione per bloccare il flusso di profughi dall’Albania. L’operazione, chiamata impropriamente blocco navale, era realizzata di concerto con le autorità albanesi. Ma il 28 marzo dello stesso anno un’imbarcazione, la Kater I Rades, venne speronata dalla nave Sibilla della marina militare italiana nel tentativo di ostacolarne il passaggio. A bordo c’erano circa 150 persone, 83 persero la vita in mare. La tragedia, che rappresenta una delle pagine più buie della storia recente italiana, contribuì ad aprire un dibattito sui limiti del controllo delle frontiere da parte degli Stati. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati parlò di un blocco illegale da parte dell’Italia. E la misura venne sospesa.
“Anche l’operazione di interdizione navale è un istituto particolare che, proprio per il suo contenuto, può andare contro il diritto internazionale. In particolare va contro la libertà dei mari, cioè di navigazione, un principio secolare sancito dal diritto internazionale moderno – aggiunge la docente -. Solo in casi ben specifici e disciplinati dagli Stati si può fare. Tra le criticità c’è anche il diritto di passaggio inoffensivo nelle acque territoriali e la concreta liceità delle misure. In secondo luogo bisogna considerare la questione del rispetto dei diritti umani: c’è un trattato internazionale di cui fa parte perfino la Libia, il patto internazionale dei diritti civili e politici, che sancisce il principio per cui chiunque può lasciare un paese incluso il proprio”.
Non solo, ma ricorda Papanicolopulu, rispetto al 1997 la situazione è cambiata: “In questi vent’anni c’è stato uno sviluppo delle norme, diverse sentenze e trattati internazionali hanno offerto dei chiarimenti e ora il quadro è molto più definito, oltre ai principi generali abbiamo anche norme attuative che stabiliscono specifiche condizioni e limiti”.
E poi quali navi potrebbero passare e quali no? Cosa si fa con le navi mercantili? Inoltre, si potrebbe creare anche una situazione paradossale per il centrodestra: qualsiasi nave, anche da difesa, se incontra un’imbarcazione in distress ha l’obbligo di soccorso. E, dunque, se le navi chiamate a difendere i confini incontrassero un barchino carico di migranti in difficoltà sarebbero obbligate a prestare aiuto e a portare le persone nel porto più sicuro di sbarco. L’ipotesi di blocco navale o interdizione navale potrebbe così trasformarsi in una novella missione Mare nostrum. In caso contrario il nostro paese andrebbe incontro a nuove condanne: solo un mese fa la Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato la Grecia per un respingimento (e mancato soccorso) in mare.
Proprio per le polemiche nate dall’evocazione del “blocco navale” (su cui non si è detta d’accordo neanche la Lega) la stessa Giorgia Meloni in questi giorni ha cercato di spiegare la sua proposta, aggiustando il tiro: “Il tema degli sbarchi si deve affrontare col blocco navale, che altro non è che una missione europea, da concordare con le istituzioni europee, per trattare insieme alla Libia la possibilità che si fermino i barconi in partenza, l’apertura in Africa degli hotspot, la valutazione in Africa di chi ha diritto a essere rifugiato e di chi è irregolare, la distribuzione dei veri profughi e rispedire indietro gli altri. Occorre smetterla di considerare profughi e irregolari la stessa cosa: è una falsità costruita in questi anni dalla sinistra”, ha spiegato in una recente intervista a Studio Aperto.
L’obiettivo sembra dunque quello di rafforzare il Memorandum tra Italia e Libia, realizzato nel 2017 dall’allora governo Gentiloni, con l’aggiunta di hotspot per selezionare i richiedenti asilo nei paesi di transito extra europei. Una proposta che però contiene anch’essa dei limiti. “Questo tipo di proposte hanno tutte un retropensiero non espresso ma evidente: che si possa impedire il diritto di asilo come diritto di accesso individuale al territorio, selezionando i ‘veri rifugiati’ e bloccando le frontiere – spiega Gianfranco Schiavone, membro Asgi -. L’ipotesi è quello di un blocco navale realizzato sotto altre forme più o meno legali, ma tra l’ipotesi iniziale e quella apparentemente più ragionevole c’è una continuità di pensiero. Invece il diritto d’asilo prevede sempre il diritto di accesso al territorio dello Stato in cui si vuole chiedere protezione”.
Secondo Schiavone l’unica cosa che si può realmente fare è mettere in pratica procedure per facilitare l’ingresso dei richiedenti protezione internazionale, rilasciando visti umanitari. “Va esclusa la possibilità di un esame delle domande di asilo al di fuori del territorio in cui uno stato esercita la propria giurisdizione perché in tale contesto la domanda non può essere esaminata con tutte le garanzie necessarie, si pensi al diritto ad un ricorso effettivo – spiega -. Ciò che si può e si deve fare è riformare l’attuale normativa in modo da prevedere la presentazione di una domanda di asilo all’estero, si pensi a situazioni di chiaro pericolo, e il rilascio di visti di ingresso umanitari per il successivo pieno esame delle domande in Italia. Questa riforma ridurrebbe il numero di coloro che sono costretti ad affidarsi ai trafficanti per giungere in Italia e chiedere protezione. I paesi di transito però sono paesi dove ci sono scarse garanzie di rispetto dei diritti- aggiunge -. In Libia, poi, sarebbe impensabile un’ipotesi del genere”.
Di Laura Zanfrini su Avvenire
Nell’edizione di ieri della Gazzetta ufficiale è stato pubblicato il Decreto Flussi 2021, firmato sul filo di lana a fine anno dal presidente del Consiglio Draghi, che fissa in 69.700 gli ingressi di lavoratori stranieri: un numero inferiore alla bozza circolata, ma più che raddoppiato rispetto alle quote degli ultimi anni e con una timida apertura verso il lavoro non stagionale con riferimento ai settori (trasporto, edilizia, turistico-alberghiero) che denunciano difficoltà nel reclutamento di personale. Peraltro, le 27.700 quote non stagionali andranno ripartite tra gli oltre 30 Paesi sottoscrittori di accordi elencati nel decreto e saranno in parte assorbite dalle conversioni di permessi già rilasciati per altri motivi. Questo – insieme alla “promessa” di possibili ulteriori decreti nei prossimi mesi – è probabilmente il massimo che si poteva fare con un governo composito come l’attuale e in un quadro ancora molto compromesso dalla pandemia.
Ancora una volta, il provvedimento ha visto la luce secondo la logica della “programmazione transitoria” e in assenza del documento programmatico cui il testo unico sull’immigrazione affidava, tra le altre finalità, quella di individuare i criteri generali per la definizione dei flussi in ingresso. L’ultimo documento di cui si ha notizia è relativo al triennio 2007-2009, rimasto eternamente “in fase di elaborazione”. Da allora, nessuno dei governi che si sono succeduti ha voluto cimentarsi nel compito, politicamente audace, del governo delle migrazioni economiche, e tutti hanno finito col ridurre la questione al contrasto dell’immigrazione irregolare.
I limiti delle procedure in vigore (a partire dalla loro rigidità, distante da un mercato del lavoro sempre più flessibile); quelli che derivano dalle scelte – o non scelte – nella loro applicazione; quelli, infine, relativi al contesto in cui gli schemi migratori si trovano a operare (dalla diffusione del lavoro irregolare ai deficit nella intermediazione istituzionale tra domanda e offerta di lavoro) hanno concorso al fallimento del sistema di programmazione dei flussi, facendo dell’Italia un caso “esemplare” del disallineamento tra il piano delle politiche e quello dei concreti processi migratori e di inclusione.
Mentre le più importanti agenzie internazionali non cessano di ricordare come le migrazioni, se adeguatamente gestite, possano rappresentare un vantaggio per tutti gli attori coinvolti, tale disallineamento risalta come dato comune perfino ai Paesi tradizionalmente considerati dei punti di riferimento in materia. In particolare, milioni di posti di lavoro essenziali sono occupati, in Canada come negli Stati Uniti e nella stessa Europa, da immigrati undocumented titolari di permessi temporanei, studenti e tirocinanti stranieri, richiedenti asilo diniegati. La necessità di politiche innovative, sostenibili nel lungo periodo, capaci di rispondere anche al consistente fabbisogno di lavoro a bassa qualificazione garantendo i diritti dei lavoratori è dunque auto-evidente. Tanto più in Italia, dove i modelli di inclusione prevalenti sono decisamente inadeguati ad agganciare una ripresa la cui cifra dovrà essere la qualità in senso lato del lavoro.
Governare le migrazioni economiche implica gestire una serie di bilanciamenti: si tratta di far convivere la dimensione economica della programmazione con la dimensione politica (in particolare, l’esigenza di offrire canali legali che scoraggino i flussi irregolari); la richiesta di rispondere a fabbisogni contingenti e spesso appiattiti sui lavori a bassa qualificazione con quella di promuovere modelli d’integrazione sostenibili nel lungo periodo; la necessità di dotarsi di regimi migratori coerenti col ruolo dell’Italia nello scenario internazionale (in particolare euro-africano) con quella di incoraggiare la partecipazione al mercato del lavoro delle ampie componenti della popolazione residente (inclusa quella immigrata) che ne sono escluse; e, ancora, la dimensione tecnico-procedurale della programmazione – che richiede schemi migratori flessibili, che rispondano rapidamente alle richieste di persone e mercato – con il carattere politico, nel senso nobile del termine, del governo dell’immigrazione, che come tale incorpora una visione sul futuro.L’auspicato ridisegno delle politiche migratorie non può allora essere disgiunto dal compito di ripensare i regimi di accumulazione, le reti di produzione e distribuzione del valore e i modelli di riproduzione sociale cogliendone, proprio attraverso la “lente” dell’immigrazione, tutte le criticità. Basterebbe citare l’esempio del lavoro per le famiglie – da sempre il comparto più etnicizzato del mercato del lavoro italiano – per comprendere come la gestione delle migrazioni va integrata con l’insieme di interventi, a vari livelli, necessari per affrontare quella che l’Ilo (l’Organizzazione internazionale del lavoro) ha definito la «crisi globale della cura». Il governo e la governance delle migrazioni devono dunque diventare parte integrante di quel grande cantiere di innovazione economica e sociale che si sta aprendo nella scia del Pnrr, secondo le indicazioni contenute nella stessa Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
Immagine in evidenza di Agenzia Ansa
Di Alessandra Vescio su Valigia Blu
Il 28 novembre 2021 sulla versione online di Il Giornale è stato pubblicato un articolo dal titolo “In Europa vietato dire “Natale” e perfino chiamarsi Maria”. Con toni allarmistici e strabiliati, il pezzo descriveva un documento della Commissione Europea sulla comunicazione inclusiva di cui la testata diceva di essere entrata “in possesso in esclusiva”. Il documento in questione è una raccolta di linee guida destinata allo staff della Commissione, pubblicato il 26 ottobre 2021 e promosso dalla Commissaria all’Uguaglianza dell’Unione Europea Helena Dalli.
Diffusa con licenza Creative Commons, e dunque non un’esclusiva di una testata ma disponibile a essere riutilizzata e condivisa da chiunque, questa raccolta di linee guida è nata con lo scopo di fornire delle indicazioni a chi lavora nella Commissione Europea e stabilire degli standard comuni e condivisi per utilizzare un metodo e un linguaggio inclusivi. Nell’introduzione a questo documento, infatti, si legge: “Tutte le persone all’interno dell’Unione Europea hanno il diritto intrinseco di essere trattate alla pari, e dunque di essere incluse e rappresentate, a prescindere dal genere, dalle origini o dall’etnia, dalla religione o dal credo, dalla disabilità, età o orientamento sessuale”, per cui è fondamentale che proprio l’Unione “dia il buon esempio” anche con il linguaggio, che è una delle componenti attraverso cui passa e si manifesta il rispetto delle identità.
Diviso per argomenti e con tanto di checklist a cui fare riferimento per assicurarsi di aver utilizzato un approccio realmente inclusivo, il documento offre suggerimenti e indicazioni allo staff della Commissione per la preparazione di comunicazioni interne o di cartelle stampa, per l’organizzazione di eventi o per la creazione di contenuti da pubblicare sui social media. Gli aspetti trattati sono il genere, la comunità LGBTIQ, l’etnia, la cultura e il credo, le disabilità, l’età e l’accessibilità online. Per ogni argomento, sono forniti consigli su pratiche da evitare, esempi alternativi e le motivazioni per cui sarebbe importante superare certi modi di porsi e di dire. Tra le indicazioni si legge, ad esempio, che si dovrebbe evitare di rivolgersi alla propria audience di default al maschile (quello che nella lingua italiana è conosciuto come “maschile sovraesteso”) e provare a trovare dunque delle soluzioni che siano più comprensive, così come si propone di non sminuire o ignorare il contributo delle donne, rappresentandole per esempio sempre e prima di tutto come madri. Nel capitolo sulla comunità LGBTIQ, le linee guida suggeriscono di non presumere né dare per scontato l’orientamento sessuale di una persona, di rivolgersi alle persone transgender e non binarie con i pronomi e il genere con cui si identificano, di non utilizzare un linguaggio che svaluti o non riconosca relazioni che non siano eterosessuali. È importante, si legge sempre nel documento, non distinguere poi le persone solo in sposate e single, ma offrire rappresentazioni di nuclei familiari diversi, come i genitori single, le coppie senza figli/figlie, le famiglie adottive.
Suggerimenti importanti si trovano anche nel capitolo sull’etnia. Qui infatti si legge dell’importanza di fare caso alla diversity durante gli eventi, sia tra le persone speaker di un panel sia nella formazione del proprio team di comunicazione, ma anche della necessità di non rappresentare in maniera pietistica persone provenienti da diversi background etnici e culturali. Evitare un approccio vittimista è consigliato anche nella rappresentazione delle persone con disabilità e in più si invitano le persone destinatarie del documento a non concepire e descrivere la disabilità come unico tratto distintivo dell’individuo. Per quanto riguarda gli eventi invece si consiglia di assicurarsi di poter fornire il servizio della lingua dei segni e scegliere location che siano accessibili a chi è in sedia a rotelle o ha altre disabilità. Nella comunicazione online invece è raccomandato, tra le altre cose, di ricorrere a un linguaggio semplice e accessibile, a font leggibili e, quando necessario, anche a sottotitoli, così da poter raggiungere chiunque con i propri contenuti.
A scatenare però principalmente la polemica sui media italiani, oltre alla proposta di superare la caratterizzazione di genere al maschile e dare voce e rappresentazione a chi non si riconosce nel binarismo di genere, è un fatto piccolissimo, anzi un paio di esempi che le linee guida citano al loro interno. Nel capitolo su culture, stili di vita e credi, infatti, si trova un invito a rispettare religioni e credi differenti ed evitare di presumere che tutte le persone siano cristiane o che tutte le persone cristiane celebrino le festività nelle stesse date. In Europa infatti il cattolicesimo, il protestantesimo e la fede ortodossa, tutte appartenenti alla religione cristiana, sono presenti in maniera sostanziale. Così, invece di dire “Il periodo di Natale può essere stressante”, il documento sulla comunicazione inclusiva della Commissione Europea suggerisce che si potrebbe dire “Il periodo delle feste può essere stressante”, o ancora “per chi celebra il Natale o Hannukkah”. Per le stesse ragioni, le linee guida suggeriscono anche di non ricorrere al nome di battesimo quando si nomina qualcuno ma di chiamarlo per “nome” e di usare nomi di diverse religioni quando si fanno degli esempi o si raccontano delle storie, per cui invece di usare i nomi di “Maria” o “Giovanni” si potrebbe iniziare a usare “Malika” o “Julio”. D’altro canto, stando ai numeri, l’Europa è a tutti gli effetti un territorio multiculturale e multireligioso. Se è vero, infatti, che il 76% della popolazione è cristiana, solo il 33% circa si dice cattolico. Il 7% poi è di fede musulmana e il 15% nel 2020 si è definito non religioso. Inoltre, sempre meno persone sono cristiane, soprattutto in Europa occidentale.
Presentate tutte sotto forma di invito o suggerimento, le proposte del documento europeo hanno dunque lo scopo di dare spazio a quante più voci e identità possibili già presenti in Europa, mentre, secondo Il Giornale, “hanno dell’incredibile” e rappresentano l’ennesimo tentativo di cancellare le radici cristiane. Secondo Il Foglio, invece, che si è più volte espresso contro la cosiddetta cancel culture e la presunta dittatura del politicamente corretto, quella che viene presentata come “inclusione” in realtà è “insipienza”.
In un paio di giorni, i media italiani (dalle testate di destra al telegiornale del servizio pubblico) hanno montato ad arte un caso su queste linee guida e su come la Commissione Europea volesse cancellare il Natale, spalleggiati anche da esponenti della politica come Giorgia Meloni, che su Twitter ha posto il focus sul rischio di cancellazione della storia e dell’identità del nostro paese, e Matteo Salvini, che, esaltando il Natale, ha ironizzato sulle motivazioni alla base del documento europeo. Anche il Vaticano, tramite le parole del segretario di Stato Pariolin, ha espresso preoccupazione: se è giusto l’interesse verso l’azzeramento delle discriminazioni, dice il cardinale, questo non può passare attraverso l’annullamento delle radici e dell’omologazione.
Come abbiamo visto precedentemente, però, le linee guida europee non propongono in nessuno dei capitoli di cancellare le differenze, anzi l’intento è proprio il suo opposto: dare sempre più spazio e riconoscimento alle diversità, “illustrare la diversità della cultura europea e mostrare la natura inclusiva della Commissione verso tutti i percorsi di vita e i credi delle persone europee”, come ha detto la Commissaria all’Uguaglianza Helena Dalli. Rispettare e riconoscere che oltre alle persone cattoliche, ad esempio, esistano anche coloro che professano altre religioni o che si dichiarano atee, non vuol dire cancellare il cattolicesimo e le sue tradizioni, ma più semplicemente non imporre un credo su un altro e fare in modo che quante più persone possibili si sentano viste e rappresentate. Lo stesso discorso vale per le questioni di genere: ricorrere a un linguaggio che non sia sempre declinato al maschile restituisce dignità alle varie identità.
Il 30 novembre 2021, però, a circa due giorni dalla pubblicazione del primo articolo su Il Giornale, Dalli ha affidato a un comunicato stampa la decisione di ritirare il documento sul linguaggio inclusivo: “Sono state sollevate preoccupazioni in relazione ad alcuni esempi forniti nelle Linee Guida sulla comunicazione inclusiva, che come è solito succedere con linee guida simili, è un work in progress”, si legge in un tweet di accompagnamento alla nota.
Un documento per favorire un approccio quanto più possibile scrupoloso, attento, rispettoso e inclusivo sia nelle attività interne della Commissione Europea sia in quelle rivolte all’esterno, e redatto in maniera moderata e con un atteggiamento propositivo, è stato dunque affossato da tendenze conservatrici e provocazioni politiche che, in maniera consapevole, hanno scelto di ingigantire, inventare e manipolare fatti al solo scopo di scatenare una polemica. E la ragione alla base di ciò è sempre la stessa: mantenere uno stato delle cose che dia spazio solo a pochi.
Stupisce dunque che un’istituzione europea, in seguito all’insorgere di polemiche strumentali provenienti oltretutto da un solo paese, abbia messo in qualche modo in discussione quelli che definisce come propri valori fondamentali. Secondo Luca Misculin, giornalista de Il Post ed esperto di questioni europee, però “le ragioni che hanno portato la Commissione a ritirare il documento sono state soprattutto due. La prima ha a che fare con la paura atavica delle istituzioni europee di dare fiato alla propaganda euroscettica e sovranista: soprattutto in Italia, un paese dove secondo gli ultimi Eurobarometri soltanto nell’ultimo anno l’UE ha riguadagnato consensi e fiducia. La seconda si intreccia con la prima. Ursula von der Leyen è espressione di un partito che si chiama, letteralmente, Unione Cristiano-Democratica. E in un paese dal retaggio cattolico-conservatore, in cui i due partiti più popolari secondo i sondaggi sono tradizionalisti e di estrema destra, la Commissione ha preso la scelta verosimilmente più popolare e condivisa con la maggioranza degli italiani (oltre che coerente con la storia personale della Presidente). Lo dimostra fra l’altro anche la presa di posizione dei principali quotidiani, e non solo quelli di destra: assai compatti contro il documento”. Che ci siano delle contraddizioni all’interno dell’Unione Europea, tra paesi che ne fanno parte, valori promulgati e pratiche seguite, è evidente: lo dimostrano ad esempio i recenti fatti e le posizioni sull’immigrazione, ma anche le critiche più volte mosse alle stesse istituzioni europee per la mancanza di diversity nei loro team.
Contraddizioni e strategie politiche che però non fanno altro che generare contraccolpi pericolosi. Per quanto fossero destinate a un uso interno di uno staff e dunque circoscritte a un caso specifico, le linee guida per una comunicazione inclusiva proposte dalla Commissione Europea in qualche modo rappresentavano una posizione ufficiale che promuoveva il rispetto delle diversità. Anche se non volontariamente, la scelta di ritirarle ha portato da un lato ad avallare posizioni ostili a una società inclusiva e dall’altro ad assecondare un giornalismo che contribuisce alla creazione di un clima disinformato e intollerante. Il risultato, come spesso accade in situazioni simili, è un dibattito inquinato e la perdita del focus principale: ovvero che quando parliamo di inclusività, di rispetto delle identità e di spazi da condividere, si sta pur sempre parlando di persone.
Su Rete Nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio
Con una lettera inviata direttamente alla Presidente del Senato, abbiamo espresso ieri tutta la nostra preoccupazione per la possibilità che la votazione odierna di “non passaggio agli articoli” potesse avvenire a scrutinio segreto. E che questa possibilità determinasse lo stop all’esame degli articoli e degli emendamenti del ddl, ovvero lo stop all’iter parlamentare del testo.
La preoccupazione era purtroppo fondata. Con 154 voti favorevoli e 131 contrari (con un rovesciamento di fronti rispetto alle previsioni di chi, ottimisticamente, presagiva un passaggio in aula senza sorprese), il Senato si è infatti espresso per il “non passaggio” agli articoli, decretando così – di fatto – l’affossamento del ddl.
Vista l’importanza sociale del provvedimento in discussione, fino all’ultimo abbiamo chiesto un voto palese per la seduta di oggi in Senato, e auspicato un esito positivo del confronto in aula, che portasse a una rapida approvazione del ddl per dotare anche il nostro Paese di una norma di civiltà e per garantire il rispetto della Costituzione.
Così non è stato, e chi ha voluto questo esito – anche nascondendosi dietro al voto segreto – dovrà in qualche modo risponderne di fronte al Paese, alla società civile, ai propri elettori, e soprattutto di fronte alle persone che, a seguito di questa votazione, non potranno avvalersi di un equo trattamento sul piano giuridico e di una piena cittadinanza sul piano dei diritti civili.
Inutile nasconderlo: si tratta certamente di una sconfitta bruciante per chi subisce discriminazioni per motivi di sesso, genere, identità di genere e abilismo. E quindi è una sconfitta bruciante per la società e la politica tutta, che a causa delle posizioni più retrive di molti sue/suoi esponenti, invece che estendere diritti e tutele – come sarebbe normale che fosse in un paese ‘normale’ – sancisce la liceità di discriminazioni, e quindi di discorsi d’odio e violenze, verso determinate persone e gruppi di persone.
È una sconfitta che lascia amarezza, sconcerto, rabbia. E non potrebbe essere altrimenti, visto il nostro costante e continuo sostegno al ddl Zan, e vista la grande battaglia civile e culturale portata avanti insieme a tante persone, con convinzione e determinazione.
Ma è anche – proprio per questo – una sconfitta che ci chiede, oggi più che mai, di non arretrare di un passo nella difesa dei diritti umani e nel contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio. Perché se la maggioranza dei senatori e delle senatrici ha scelto oggi di seguire le istanze più conservatrici di una parte del Paese, noi continueremo a batterci insieme alla società civile contro le discriminazioni e le diseguaglianze formali e sostanziali. E per i diritti di tutte le persone.
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