Amnesty International ha sollecitato gli Stati europei a fermare immediatamente i trasferimenti di rifugiati e richiedenti asilo del Caucaso del Nord verso la Russia, a causa del rischio di subire maltrattamenti e torture e di essere costretti ad andare a combattere nella guerra di aggressione contro l’Ucraina.
In una ricerca pubblicata oggi, dal titolo “Europa: il punto di non ritorno”, Amnesty ha denunciato che alcuni stati europei – tra i quali Croazia, Francia, Germania, Polonia e Romania – hanno estradato o stanno cercando di estradare richiedenti asilo fuggiti dalla persecuzione nel Caucaso del Nord e in cerca di salvezza in Europa.
“È scandaloso che, nonostante abbiano dichiarato di aver sospeso ogni forma di cooperazione giudiziaria con la Russia, a seguito della sua invasione dell’Ucraina, diversi stati europei stiano minacciando di rimandare persone nel Caucaso del Nord, esattamente nei luoghi dai quali erano fuggite a causa della persecuzione. Gli stati europei devono riconoscere che molte di queste persone, in caso di rimpatrio, rischierebbero arresti, rapimenti, maltrattamenti e torture, nonché l’arruolamento forzato”, ha dichiarato Nils Muiznieks, direttore di Amnesty International per l’Europa.
“La situazione, per coloro che sono fuggiti dal Caucaso del Nord, è notevolmente peggiorata a causa del deterioramento della situazione dei diritti umani in Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Vanno incontro a torture, sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie senza che nessuno sia chiamato a risponderne. Storicamente, negli stati europei, queste persone sono stigmatizzate e prese di mira con provvedimenti di espulsione e rimpatrio”, ha aggiunto Muiznieks.
Nel Caucaso del Nord, soprattutto in Cecenia, la situazione dei diritti umani è pessima. Chiunque esprima critiche, prenda parte ad attività in favore dei diritti umani e appartenga o venga percepito come appartenente alla comunità Lgbtqia+, rischia di essere colpito e lo stesso accade ad amici e parenti.
“Ti catturano in strada e hai due opzioni: vai in galera per 10 anni o cerchi di fuggire. Nelle prigioni cecene, è come se non esistessi più. Ma almeno puoi uscirne dopo 10 anni. Sempre meglio che essere arruolati, combattere e morire”, ha dichiarato ad Amnesty International un richiedente asilo della Cecenia.
Il ritiro della Russia dalla Convenzione europea dei diritti umani e la repressione in atto contro gli osservatori indipendenti sulla situazione dei diritti umani hanno enormemente aumentato il rischio di violazioni e hanno privato le vittime di importanti possibilità di chiedere giustizia.
I rischi sono aumentati dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre contro il sud d’Israele e dopo i bombardamenti israeliani a Gaza e i sempre più violenti attacchi, con arresti e uccisioni, contro i palestinesi della Cisgiordania occupata.
Il presidente Macron ha inoltre autorizzato il suo ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, a negoziare con le autorità russe i possibili trasferimenti. Ne sono in programma almeno 11.
“Da anni i governi e le istituzioni europee ignorano o sminuiscono i gravi rischi cui va incontro chiunque venga rimpatriato nel Caucaso del Nord. Questi rischi sono ora ancora più acuti ed è incomprensibile usare il pretesto delle tensioni in Medio Oriente per giustificare il ritorno in Russia dei richiedenti asilo”, ha sottolineato Muiznieks.
“I governi europei devono fermare immediatamente tutti i trasferimenti in Russia di persone che rischiano di subire torture o altre violazioni dei diritti umani e riconoscere che tali rischi sono assai più alti per le persone del Caucaso del Nord. L’Europa deve valutare in modo corretto i loro bisogni di protezione, alla luce della pessima situazione dei diritti umani in Russia e della guerra in corso contro l’Ucraina”, ha concluso Muiznieks.
Plastic toy men, barbed wire and eu flag, migrants crossing the border concept
Mercoledì gli Stati membri e il Parlamento europeo hanno raggiunto un importante accordo per riformare la politica migratoria del blocco, coronando uno sforzo ambizioso durato tre anni che a volte sembrava destinato a fallire.
L’ambito accordo, che è preliminare e deve ancora essere sottoposto a ratifica formale, è stato siglato dopo una maratona di colloqui iniziata lunedì pomeriggio, proseguita per tutto martedì e conclusasi mercoledì mattina, con un’intensità che riflette l’alta posta in gioco sul tavolo.
I negoziati si sono concentrati su una vasta e complessa gamma di questioni aperte che hanno richiesto compromessi da entrambe le parti, come i periodi di detenzione, la profilazione razziale, i minori non accompagnati, le operazioni di ricerca e salvataggio e la sorveglianza delle frontiere.
Il Consiglio, guidato dalla presidenza spagnola, ha difeso una posizione rigida volta a dare agli Stati membri il più ampio margine di manovra per gestire la migrazione, anche estendendo la proposta di procedura di asilo accelerata al maggior numero possibile di richiedenti, mentre il Parlamento ha insistito su disposizioni più rigorose rispettare i diritti fondamentali. Anche la Commissione Europea ha preso parte fornendo assistenza e orientamento.
Member states and the European Parliament struck on Wednesday a major deal to reform the bloc’s migration policy, capping off a three-year-long ambitious effort that at times seemed doomed to fail.
The sought-after agreement, which is preliminary and still needs to undergo formal ratification, was sealed after marathon talks that began on Monday afternoon, continued throughout Tuesday and concluded on Wednesday morning, an intensity that reflects the high stakes on the table.
Negotiations focused on a vast and complex array of open questions that required compromises on both sides, such as detention periods, racial profiling, unaccompanied minors, search-and-rescue operations and border surveillance.
The Council, led by the Spanish presidency, defended a rigid position to give member states the widest margin of manoeuvre to handle migration, including by extending a proposed fast-tracked asylum procedure to as many claimants as possible, while the Parliament insisted on stricter provisions to respect fundamental rights. The European Commission also took part, providing assistance and guidance.
With the winter break looming ever closer, the co-legislators were under increasing pressure to patch up their differences, which in some cases were profound, and achieve the eagerly anticipated breakthrough. Thanks to Wednesday’s leap, the bloc will be able to push forward five interlinked pieces of legislation that redefine the rules to collectively receive, manage and relocate the irregular arrival of migrants.
The laws, known as the New Pact on Migration and Asylum, were first unveiled in September 2020 in an attempt to turn the page on decades of ad-hoc crisis management, which saw governments take unilateral and uncoordinated measures to cope with a steep rise in asylum seekers.
These go-it-alone policies severely undermined the EU’s collective decision-making and left Brussels looking like an inconsequential bystander in what is arguably the most politically explosive issue on the agenda.
At its core, the New Pact is meant to establish predictable, clear-cut norms that bind all member states, regardless of their geographic location and economic weight. The ultimate goal is to find a balance between the responsibility of frontline nations, like Italy, Greece and Spain, which receive the bulk of asylum seekers, and the principle of solidarity that other countries should uphold.
“Migration is a European challenge that requires European solutions,” said European Commission President Ursula von der Leyen, who had made the reform a top priority for her five-year term. The New Pact “means that Europeans will decide who comes to the EU and who can stay, not the smugglers. It means protecting those in need.”
Roberta Metsola, the president of the European Parliament, hailed the moment as a “truly historic day” and spoke of “probably the most important legislative deal of this mandate” that had been “10 years in the making.”
“It was not easy,” Metsola said on Wednesday morning. “We have defied the odds and proven that Europe can deliver on the issue that matters to citizens.”
Metsola admitted the New Pact was not a “perfect package” and some “complex issues” remained unaddressed. “But what we do have on the table” is far better for all of us than what we have had previously,” she added.
Wednesday’s preliminary deal will now be translated into amended legal texts, which will have to be first approved by the Parliament and, later, by the Council.
Both roads could prove perilous. In the hemicycle, the Greens and the Left have already expressed disapproval about the agreement, suggesting they will not endorse it. And in the Council, last-minute demands from governments cannot be ruled out, given the extreme sensitivity of the issue. Nevertheless, the approval in the Council will be done by a qualified majority vote, meaning individual countries will not be able to veto.
The New Pact on Migration and Asylum is a legislative project with an all-encompassing approach that intends to piece together all the aspects of migration management, from the very moment migrants reach the bloc’s territory until the resolution of their requests for international protection.
Crucially, it does not alter the so-called “Dublin principle,” which says the responsibility for an asylum application lies first and foremost with the first country of arrival.
Overall, it is meant to cover the “internal dimension” of migration while the “external dimension” is addressed through tailor-made deals with neighbouring countries, like Turkey, Tunisia and Egypt.
The five laws contained in the New Pact are:
The negotiations between the Council and the Parliament had been playing out for months, first in separate talks on each legislative file and, most recently, in the so-called “jumbo” format, where the five draft laws were considered all at once under the mantra “nothing is agreed until everything is agreed.”
The discussions became an intense, time-consuming back-and-forth, with each side trying to hold their ground against the other’s demands. Juan Fernando López Aguilar, a third-term Spanish MEP who acts as rapporteur for the Crisis Regulation, described the process as a “real tug of war” with round-the-clock negotiations.
“We have not slept a wink in the last couple of days,” López Aguilar said.
Member states were bent on preserving the hard-fought compromise they had struck among themselves after years of fruitless and bitter debates to reform the bloc’s migration policy. The compromise was particularly delicate on the system of “mandatory solidarity” envisioned under the AMMR: countries had agreed on an annual quota of 30,000 relocations and a €20,000 contribution for each asylum seeker they reject.
But lawmakers resented the Council’s unyielding position and urged flexibility to meet halfway. Some of the last remaining differences were the scope of the 12-week border procedure, the detention of irregular applicants, a mechanism to monitor fundamental rights and the concept of third safe countries.
Poland and the Baltic states pushed for special rules to cope with the instrumentalisation of migrants, a phenomenon which themselves suffered first-hand in 2021 when Belarus orchestrated an influx of asylum seekers in retaliation for international sanctions.
Meanwhile, as talks gathered pace, humanitarian organisations stepped up their public campaign to warn the New Pact risks normalising large-scale detention and sending migrants back to countries where they face violence and persecution. The concerns were echoed on Wednesday morning, as details of the agreement emerged.
“The Pact does not solve the EU’s asylum issues; it actually limits access to asylum and rights for those seeking protection,” Caritas Europe said in a statement, warning that “widespread detention and poor reception standards” and “rushed asylum procedures with restricted safeguards and appeals” are likely to happen.
In an equally scathing reaction, Amnesty International predicted a “surge in suffering on every step” of an asylum seeker’s journey and denounced the 12-week border procedure as “substandard.” The pact’s Crisis Regulation has the potential of “breaching international law” and setting a “dangerous precedent for the right to asylum globally,” the organisation said.
Reacting to the criticism, Ylva Johansson, the European Commissioner for Home Affairs, who participated in the marathon talks, said the deal included a “cap” on the number of asylum seekers who can go through the fast-tracked procedure to avoid “any overcrowding.” If the limit is reached, migrants will be redirected to the traditional asylum procedure, which allows free movement across national territory. Legal counselling will be provided free of charge for the “whole process,” Johansson said.
“Migration is something normal. Migration has always been there and will be there. Our task (is) to manage migration in an orderly way – together,” the Commissioner said.
Implementing the New Pact, which will take months after the final texts are approved, will be inevitably hamstrung by the question of deportations. For years, the EU has struggled to convince countries of origin to take back the asylum seekers whose claims are unsuccessful, leaving many trapped in a legal limbo. Brussels is now trying a mix of tools to correct the situation, such as appointing a Return Coordinator to coordinate national policies and threatening visa restrictions on nations who refuse to cooperate.
“Of course, more needs to be done, but we are actually making progress in this area,” Johansson said.
Wednesday’s deal comes mere days after Frontex, the bloc’s border and coast guard agency, said irregular border crossings had surpassed 355,000 incidents in the first 11 months of the year, the highest number for that period since 2016.
The continued rise in border-crossing incidents injected momentum into the negotiations and pulled the New Pact out of the political limbo it had been stuck in since 2020.
di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Nel maggio del 2021 il Parlamento europeo ha votato una risoluzione per chiedere una legislazione Ue sulla migrazione legale che “attirerebbe i lavoratori, indebolirebbe i trafficanti di esseri umani, faciliterebbe l’integrazione e incoraggerebbe una migrazione più ordinata”. Nel testo è lo stesso Parlamento a sottolineare che dal 2015 le forme di migrazione legale figurano a malapena nello sviluppo della politica europea. In particolare il Nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo non include alcuna proposta specifica in merito. Ma si concentra molto sul controllo esterno della frontiera, su come cioè fermare i flussi verso l’Europa nei paesi di origine e transito. Mentre quando parla di sponsorship lo fa solo in relazione ai rimpatri.
Eppure secondo il Parlamento attivare vie legali e sicure sarebbe un’opportunità soprattutto per gli stati membri. Innanzitutto tenendo presente l’invecchiamento della popolazione e la contrazione della forza lavoro: “Le politiche dell’Ue e nazionali in materia di migrazione legale dovrebbero concentrarsi sul fornire una risposta alle carenze dei mercati del lavoro e delle competenze”, spiega il Parlamento Europeo in una nota, dove chiede che la legislazione in vigore sia rivista e che il campo di applicazione sia più ampio. Nel testo viene anche sottolineato il ruolo importante delle rimesse e i benefici che una migrazione sicura, regolare e ordinata comporta sia per i paesi d’origine che per quelli di accoglienza.
Ma ad oggi la possibilità di arrivare in Europa da alcuni paesi in maniera regolare (con un visto d’ingresso e un passaporto) è pressoché impossibile. Non solo per chi vuole migrare per migliorare la propria situazione economica, ma anche per i tanti migranti forzati, in fuga da guerre, persecuzione, violenze e violazioni dei diritti umani. Secondo i dati della Fondazione Migrantes nel 2022, anno segnato da nuovi e vecchi conflitti, dalla pandemia di Covid-19 e dal cambiamento climatico, il numero di persone in fuga ha superato la soglia dei 100 milioni in tutto il mondo. Ma oltre il 70% di chi lascia il proprio Paese cerca rifugio in uno Stato confinante e solo una piccola parte arriva in Europa. “Il 2022 è stato l’anno in cui la guerra d’Ucraina ha prodotto nel cuore d’Europa, nel giro di poche settimane, rifugiati e sfollati a milioni, come non si vedevano dai tempi della Seconda guerra mondiale. L’anno in cui l’Europa ha saputo accogliere, di nuovo, milioni di profughi senza perdere un decimale in benessere e “sicurezza”(oltre 4.400.000 le persone registrate per la protezione temporanea solo nell’UE fino all’inizio di ottobre). Ma anche l’anno in cui la stessa Ue e i suoi Paesi membri hanno fatto di tutto per tenere fuori dai propri confini, direttamente o per procura, decine di migliaia di migranti e rifugiati altrettanto bisognosi di protezione”.
Anche i dati degli arrivi tramite i resettlemnt e corridoi umanitari restano bassi. Secondo il report la stima globale dei rifugiati con necessità di reinsediamento (resettlement) da precari Paesi di primo asilo nel 2021 era pari a 1.445.000 persone, ma nell’anno ne sono stati effettivamente reinsediati in tutto il mondo 57.500, il 4% scarso. Sono 32.289, invece, i rifugiati effettivamente partiti per un reinsediamento nel periodo gennaio-agosto 2022. Nel 2023 la stima del fabbisogno supera i due milioni di persone (+ 36% rispetto al 2022) ma il numero dei posti messi a disposizione dai paesi, in base a un sistema di quote è di 29 mila persone.
Il paese che ha messo a disposizione più quote è la Germania con 6.500 posti per i resettlment e 12mila per le ammissioni umanitarie. La Germania ad oggi è anche il paese che accoglie più rifugiati in Europa. Sui reinsediamenti per il prossimo anno seguono la Francia con 3000 posti, la Spagna con 1200, la Svezia con 900, l’Irlanda con 800, l’Olanda con 737, l’Italia con 500 (e 850 ammissioni umanitarie). Non hanno messo a disposizioni posti, invece, i cosiddetti paesi del cosiddetto gruppo di Visegrad.
Per quanto riguarda il progetto dei corridoi umanitari a fare meglio è l’Italia, che per prima ha lanciato il progetto nel 2015. Secondo un report della Comunità di Sant’Egidio su oltre 5.800 persone arrivate in sicurezza in questi anni, la stragrande maggioranza ha trovato accoglienza nel nostro paese. Negli ultimi anni hanno aderito al progetto la Francia che ha accolto 532 persone, di cui 530 dal Libano e 2 dalla Grecia; il Belgio che ha accolto 150 persone dal Libano e dalla Turchia e Andorra che ha accolto 16 persone dal Libano.
A fine novembre 2022 la Commissaria per gli affari interni, Ylva Johansson, ha ospitato un Forum ad alto livello per promuovere una più stretta cooperazione con i paesi e le organizzazioni partner al fine di ampliare le vie sicure e legali per le persone bisognose di protezione. “Gli Stati membri sono stati incoraggiati a sviluppare tali percorsi complementari. La Commissione fornirà nuovi finanziamenti per i progetti transnazionali legati a questa priorità – ha detto la Commissaria -. La Commissione continuerà a lavorare per sfruttare l’esperienza dei paesi partner internazionali e di altre parti interessate”. All’inizio del 2023 la Commissione pubblicherà un invito a presentare proposte per azioni transnazionali dell’Unione nell’ambito del Fondo Asilo, migrazione e integrazione per sostenere la condivisione delle migliori pratiche e la creazione di partenariati per l’integrazione. Ciò includerà il finanziamento di progetti incentrati sulla sponsorizzazione della comunità e percorsi complementari legati al lavoro. Tutti passi rilevanti che segnalano un primo cambio di attenzione. Ma il cammino per giungere ad una “via sicura” verso l’Europa è ancora tutto in salita.
UNA VIA SICURA è un reportage in dieci puntate realizzato e pubblicato da Redattore Sociale in collaborazione con Acri. Il lavoro giornalistico, curato da Eleonora Camilli con il supporto grafico di Diego Marsicano e la supervisione di Stefano Caredda, affronta da più punti di vista il tema delle migrazioni, raccontando alcune delle esperienze supportate da Acri nel suo Progetto Migranti.
Foto in evidenza di Agenzia DIRE
Di Alessandro Puglia su Vita
La criminalizzazione del soccorso in mare torna prepotentemente sulla scena dei salvataggi nel Mediterraneo centrale nel 2022. In Italia al 23 dicembre secondo i dati del Ministero dell’Interno sono stati 101.127 i migranti sbarcati, numeri superiori rispetto al 2021 quando gli arrivi in Italia erano stati 64.612, soltanto 33.863 nel 2020. Dati che vanno contestualizzati davanti al costante evolversi dello scenario migratorio e alla pandemia Covid-19 che negli anni scorsi ha rallentato il numero delle partenze.
Sono invece 1.998 i migranti morti o dispersi nel Mediterraneo centrale secondo i dati del progetto Missing Migrants dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni, non considerando i naufragi che non è stato possibile documentare. Ai quasi 2mila morti tra cui almeno 88 minori si aggiunge il numero delle persone che vengono intercettate dalla guardia costiera libica e riportate nei centri di detenzione: oltre 23 mila nel 2022.
Al numero dei morti, vicino a quello del 2021 quando erano 2.062, al numero sempre crescente delle intercettazioni da parte delle autorità libiche, bisogna affiancare la percentuale dei soccorsi da parte delle Ong: soltanto il 14% secondo l’Ispi sul totale dei migranti arrivati in Italia (pari a più di 14mila persone tratte in salvo).
Ma in Italia c’è ancora chi parla di “pull-factor” e la criminalizzazione del soccorso in mare si ripresenta. Il nuovo governo Meloni dopo aver esordito con il criterio dello “sbarco selettivo” e l’espressione infelice di “carico residuale” dirotta ora le navi della società civile nei porti del Nord Italia, come accaduto negli ultimi sbarchi di Livorno nei confronti di 108 persone soccorse dalla nave Sea-Eye4 della Ong United4Rescue e precedentemente con la nave LifeSupport di Emergency che ha portato in salvo 142 naufraghi. Nelle prossime ore poi l’Esecutivo si appresta col decreto Sicurezza ha varare la tanto annuciata stretta sulle navi umanitarie.
«Le recenti operazioni delle navi di soccorso dimostrano che l’assegnazione veloce di un porto lontano ha un prezzo. I porti sicuri devono essere assegnati subito, ma con i porti molto a nord la volontà politica è di tenere le navi lontane dai soccorsi il più a lungo possibile», scrive Sea-Watch, Ong che dal 2014 ha portato in salvo oltre 35 mila persone e che oltre alle navi possiede due arei da ricognizione (Seabird 1 & 2) che permettono di monitorare le violazioni che avvengono nel MedIterraneo al pari di Pilotes Volontaires con i velivoli Colibrì.
L’impostazione del nuovo governo è ora anche quella di vietare alle navi Ong i soccorsi multipli: «Lo scopo di questi nuovi decreti è chiaro. Queste nuove regole hanno come obiettivo quello di diminuire le capacità di soccorso, mentre le persone, fuggendo, combattono per la propria vita. L’interruzione delle nostre missioni dopo ogni soccorso, anche se numericamente piccolo, e l’immediato ritorno a terra si tradurrà inevitabilmente in un aumento dei costi del carburante e in molto tempo perso», ha spiegato Hermine Poschmann di Mission Lifeline impegnata a dicembre nel Mediterraneo con la Sea Eye 4 e la Rise Above.
La flotta della società civile resiste. Nel 2022 la Geo Barents di Medici Senza Frontiere ha portato a termine 14 missioni nel 2022 salvando 3.742 persone, tra cui 1071 minori, 927 non accompagnati. Ad agosto è salpata per la sua prima missione la Sos Humanity che ha portato in salvo 855 persone e ancora altre navi come l’Astral e la Open Arms della omonima Ong spagnola che nel 2022 ha concluso 97 operazioni di soccorso o la Louise Michel che ha portato a termine quattro difficili operazioni di salvataggio e tornerà insieme alle altre sulla scena dei salvataggi nel 2023.
Marittimi, medici, soccorritori, psicologi, ostetriche, mediatori culturali: equipaggi di professionisti che ogni giorno in mare cercano di salvare vite umane.
Immagine in evidenza su Vita
Di Maurizio Ambrosini su Avvenire
Si scorgono spiragli di novità nelle politiche dell’immigrazione dei grandi Paesi della Ue. Per circa cinquant’anni, dal primo choc petrolifero degli anni 70 del secolo scorso, la nuova immigrazione per lavoro era stata ufficialmente bandita. Rimanevano aperte le porte agli immigrati qualificati, per esempio in ambito sanitario, a un certo numero d’immigrati stagionali, e poco altro. Nel nuovo secolo, l’immigrazione dai nuovi Paesi entrati nella Ue, come Polonia, Romania, Bulgaria – cittadini ammessi nel giro di qualche anno alla piena libertà di movimento – per un certo periodo ha soddisfatto le richieste dei mercati del lavoro dei Paesi della vecchia Ue bisognosi di manodopera, tra cui l’Italia. Altri canali, come i ricongiungimenti familiari (Francia) e l’accoglienza di rifugiati (Germania, Svezia), assumevano in modo indiretto anche il compito di rifornire di manodopera il sistema economico. Ora però, nel contesto post-pandemico, le vecchie ricette stanno mostrando la corda. I datori di lavoro un po’ ovunque lamentano di non trovare i lavoratori di cui hanno bisogno, e dall’Est europeo, a quanto pare, non arrivano più candidati in numero sufficiente. Così Germania, Francia e Spagna stanno correndo ai ripari.
La Germania, con la sua robusta economia, è stata la prima a imboccare, sebbene con prudenza, la strada di una nuova politica degli ingressi. Una nuova legge, varata nel 2022, punta ad attrarre lavoratori in possesso di competenze utili al sistema economico tedesco.
Persone dotate di diplomi che attestino la loro qualificazione, conoscano sufficientemente la lingua tedesca, dispongano di un alloggio, siano in grado di mantenersi durante il periodo di ricerca di un’occupazione. La legge viene ritenuta ancora timida da molti esperti, irta di complicazioni burocratiche. D’altronde la previsione governativa di ammettere 25mila lavoratori all’anno rimane lontana dalle stime dei fabbisogni, che superano il milione di posti vacanti. È importante però il segnale, in una materia in cui messaggi e narrazioni hanno più che mai il potere di plasmare le visioni e quindi le decisioni politiche. La Germania, peraltro, in modo più discreto, si è già dotata di un meccanismo per integrare nel sistema occupazionale i richiedenti asilo diniegati, mediante corsi di formazione e accordi con le imprese. Il governo francese ha recentemente assunto un’iniziativa che va nella medesima direzione.
A fronte di un sistema d’ingressi legali per lavoro restrittivo e inefficiente, i ministri dell’Interno e del Lavoro hanno anticipato una proposta, che verrà discussa nel 2023: l’introduzione di un permesso di soggiorno per i “mestieri sotto tensione”, destinato agli immigrati irregolari già presenti, che troverebbero impiego, o l’hanno già trovato informalmente, laddove manca manodopera. Si rafforzerebbe così la corsia già in vigore delle regolarizzazioni caso per caso. Forse un nuovo strumento normativo neppure servirebbe, ma la proposta ha un significato culturale: mostrare che la Francia è di nuovo pronta ad accettare l’immigrazione per lavoro.
La Spagna conferma a sua volta una maggiore apertura a soluzioni pragmatiche e liberali in materia di politiche migratorie. Nell’agosto 2022 ha introdotto nuove norme per agevolare l’ingresso di lavoratori da Paesi terzi richiesti dal sistema produttivo. Le complesse procedure fin qui previste sono state parecchio alleggerite, soprattutto per il settore edile. Anche per chi è entrato nel Paese per motivi di studio o per un tirocinio formativo è ora più facile lavorare legalmente. La Spagna dispone inoltre di procedure piuttosto generose per regolarizzare chi non dispone di un permesso di soggiorno idoneo, e per evitare che gli immigrati che perdono il lavoro cadano nell’irregolarità. I maggiori paesi della Ue si stanno quindi riaprendo all’immigrazione per lavoro.
Il governo italiano ha annunciato di voler alzare le quote d’ingresso previste con il decreto flussi in gestazione, portandole sopra le 80mila unità. Dopo alcuni tentennamenti, sta per confermare però i vincoli che voleva introdurre: verifica della disponibilità di disoccupati percettori di reddito di cittadinanza, addirittura allargata a tutto il territorio nazionale, e scambio tra quote d’ingresso e accettazione dei rimpatri degli immigrati espulsi. Sono due mosse sbagliate, che non rispondono alle crescenti esigenze delle imprese, dei servizi pubblici e delle famiglie e tendono a mantenere una sorta di riserva dal sapore xenofobo. Soprattutto, rivelano la mancanza di una visione lungimirante e inclusiva, in grado di manifestare l’interesse del nostro Paese ad accogliere e valorizzare nuove energie. Una necessità destinata a farsi sempre più urgente.
Di Maurizio Ambrosini su Avvenire.it
Italia e Francia si rinfacciano, dunque, accuse di disumanità e di irresponsabilità sul dossier sbarchi e rifugiati, offrendo un deprimente spettacolo di discordia e di contrapposizione in un momento in cui l’Europa dei diritti e dei valori universali dovrebbe essere più che mai unita.Ma che cosa c’è di vero nell’idea dell’Italia «lasciata sola» a fronteggiare gli afflussi di profughi? Non molto, in verità, se si allarga lo sguardo dagli approdi via mare (e dalla parte minima di essi derivanti dai salvataggi in mare operati da Ong internazionali) all’accoglienza delle persone in cerca di protezione internazionale: quelle in definitiva che comportano oneri di ospitalità e presa in carico da parte degli Stati riceventi.
Secondo Eurostat, nel 2021, sono arrivate ai governi della Ue 537mila prime richieste di asilo, aumentate del 28% rispetto al 2020, anno della pandemia. E ad accoglierne di più è stata come sempre la Germania (148.000), seguita proprio dalla Francia (104.000), poi dalla Spagna (62.000). L’Italia si è collocata al quarto posto, con 45.000 richieste di asilo: meno della metà dei cugini transalpini. Se guardiamo al rapporto con la numerosità della popolazione, la Svezia (25 richiedenti asilo ogni 1.000 abitanti), l’Austria (15), o la stessa Francia (6), sono più ospitali dell’Italia (3,5), collocata sotto la media dell’Europa Occidentale.Ci sono poi i cosiddetti “movimenti secondari” dei rifugiati che, arrivati sul territorio di uno Stato, si spostano in un altro e ripresentano una domanda di asilo: la Francia nel 2021 ne ha ricevuti 30.000, molti dei quali passati attraverso l’Italia. Il punto è che i profughi non arrivano solo dal mare, ma anche via terra, a piedi, in auto, con trasporti pubblici, oppure in aereo, come i venezuelani che sbarcano in Spagna. Gli sbarchi sono più drammatici e visibili, ma non prevalenti. È uno sguardo ristretto, disinformato o volutamente distorto, quello che vede soltanto i profughi che approdano sotto casa sua.
Parigi ha poi accettato volontariamente la ricollocazione di 3.500 persone sbarcate in Italia: impegno appunto volontario, attuato con lentezza e presumibile riluttanza, ma pur sempre gesto di buona volontà. La provocazione italiana, che ha rivendicato come una vittoria l’accoglienza della Ocean Viking in un porto francese («L’aria è cambiata»: il ministro Salvini su facebook), ha scatenato la contro-provocazione francese: niente più accoglienza volontaria. Chiedere solidarietà ai vicini per storia e geografia e poi bastonarli o irriderli non è mai una buona mossa, così come far finta di non vedere le frontiere ermeticamente chiuse e la solidarietà sistematicamente negata dai vicini ideologici (i Paesi con governi nazional-sovranisti).
Dove la Francia si muove su un terreno discusso e discutibile è il controllo dei confini terrestri: qui la libera circolazione attraverso le frontiere interne della Ue è stata di fatto ristretta, sono state introdotte forme di profilazione razziale, sono stati perseguitati gli attivisti, è stata messa a repentaglio la vita dei profughi in transito per un principio di difesa dei confini non meno assolutizzato, e disumano, di quello che l’Italia si è tornati a inalberare. Nessuno in Europa d’altronde ha la coscienza pulita, se si pensa alle discusse imprese di Frontex ai confini esterni, o agli accordi con Paesi di transito come Libia, Turchia, Marocco.Viviamo un tempo fosco in cui le persone in fuga diventano «armi di una guerra ibrida», ai confini della Polonia, «carico residuale» sulle coste italiane, «animali» nel linguaggio di Donald Trump. Si cercano e ottengono voti respingendo le persone, oppure deportandole da un’altra parte. Basti pensare al tentativo di Danimarca e Regno Unito di trasferire i richiedenti asilo in altri continenti.
Ma anche Ron DeSantis è diventato una celebrità trasportando sull’isola di Martha’s Vineyard 50 migranti senza documenti validi, perlopiù venezuelani, convinti di andare a Boston. Gli esseri umani bisognosi di protezione diventano strumento cinico e crudele di cattura del consenso politico. Vogliamo tenacemente sperare in un Occidente e in un’Europa migliori, di cui l’accoglienza ai profughi ucraini ha dato un esempio: non sia un’eccezione, ma un’anticipazione profetica di un mondo migliore e più umano.
Di Luca Rondi su Altreconomia
“Le violenze al confine sono nuovamente tornate a crescere. L’utilizzo di spray urticante, pallini di gomma sparati su persone inermi, giovani obbligati a mangiare le sigarette che avevano nello zaino, bambini divisi dai loro genitori. È il solito copione”. Giulia Moretto, attivista di No Name Kitchen (Nnk), descrive così quanto accade sul confine serbo-ungherese: da quella piccola porzione di confine, in cui un’alta rete metallica e un filo spinato separa i due Paesi, migliaia di persone, uomini, donne e bambini, ancora oggi tentano di entrare nell’Unione europea. La “rotta balcanica” -tante vie che collegano la Turchia al sogno europeo- vede il consueto cambiamento nelle traiettorie percorse dalle persone che tentano il game, come viene chiamato il tentativo di attraversamento della frontiera, in base a dove il confine sembra più permeabile. Quello che non cambia, però, sono la violenza e le chiusure realizzate dalle politiche di governi locali ed europei. Sabato 24 settembre la rete RiVolti ai Balcani ha fatto il “punto” su quanto accade nella regione dei Balcani. E non solo.
La “strategia” europea che vuole trasformare il diritto di asilo in un privilegio per chi è abbastanza forte da resistere ai soprusi non è attuata solamente dai Paesi autocratici dell’Est Europa. Così, quanto succede in Turchia, Grecia, Bosnia ed Erzegovina e Ungheria è collegato alle politiche di esclusione che troviamo anche nel nostro Paese. La “democratica” Italia oggi ostacola infatti sistematicamente l’accesso all’asilo su tutto il territorio. Come ricostruito anche su Altreconomia, chiedere oggi asilo per chi arriva in Italia via terra è un miraggio. “È come se ci fosse una sorta di colpa nel fatto di non essere stati soccorsi in mare o rintracciati nei pressi della frontiera – ha spiegato Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà di Trieste (Ics)-. Per chi incontra le forze dell’ordine al suo arrivo l’amministrazione provvede a collocarlo in un centro e permettergli di chiedere asilo, tutti gli altri, invece, si scontrano contro un muro di gomma che è difficile da bucare”.
Da Trieste a Torino, passando per Milano, Piacenza, Roma: il copione si ripete. “È una strategia di deterrenza evidente, non possiamo parlare di inefficienza. Non si fa presentare la richiesta d’asilo alla persona di modo che questa non abbia diritto all’accoglienza nonostante questo sia un diritto previsto dal nostro ordinamento. Tanto che i tribunali amministrativi stanno condannando per inadempienza le questure e le prefetture. In certi casi si va anche oltre: si chiede ai richiedenti asilo di presentare il proprio domicilio. In un paradosso per cui chi dovrebbe darti un tetto su cui stare, te lo chiede”. È la frontiera burocratica, che oggi lascia all’addiaccio migliaia di persone. “Attualmente abbiamo 275 persone in strada che sono richiedenti asilo ma non vengono accolti – racconta Maddalena Avòn, operatrice legale di Ics-. Dov’è lo stato di diritto? Che tutela stiamo offrendo a queste persone? Vivo in prima persona la sensazione di frustrazione per chi, dopo anni di cammino, pensa di aver concluso il viaggio e si ritrova senza nulla”.
Quel che è certo è che non sono i “numeri” a giustificare la difficoltà delle amministrazioni nel disbrigo delle procedure burocratiche. Sono stati circa duemila gli arrivi a Trieste in agosto. Un numero più elevato rispetto ai mesi precedenti che diventa problematico per chi lavora nell’emergenza ma che in termini assoluti resta una briciola per un Paese, l’Italia, che ha tra le percentuali più basse di richiedenti asilo per abitante. Che l’Italia non sia Paese di arrivo ma di transito lo sa bene anche Martina Cociglio, operatrice legale di Diaconia Valdese che opera nell’alta Val Susa, a Oulx. Qui, a meno di venti chilometri dal confine, il rifugio Massi fornisce sostegno e un pasto caldo a circa 70 persone a notte. Ad agosto sono transitate circa 800 persone, in prevalenza provenienti da Afghanistan, Iran e Marocco e con un’elevata percentuale di minori stranieri non accompagnati. La polizia francese presidia i confini e respinge chi tenta di attraversare.
“Privazione della libertà personale, mancanza di assistenza legale, impossibilità di mediazione, nessun esame individuale della domanda d’asilo: queste sono le principali violazioni dei diritti di chi vuole raggiungere parenti, amici in un altro Paese dell’Ue -racconta Cociglio-. Chi arriva qui è convinto che non esistano più i confini militarizzati e le barriere che ha incontrato fino al giorno prima di quando non era nel nostro Paese. E invece non è così”. I controlli sono stati ripristinati nel 2015 con la giustificazione delle minacce legate al terrorismo: oggi vengono rinnovati ogni sei mesi da parte del Consiglio di Stato francese, senza motivazioni attuali e in contrasto con quanto previsto dal Codice frontiere Schengen. “Il paradosso è che ha più tutele chi arriva in Francia da un Paese terzo, via aereo, rispetto a chi arriva da un altro Paese dell’Ue. In aeroporto vengono riconosciuti molti più diritti che in frontiera. Il tutto con una base pretestuosa: l’Austria nell’aprile 2022 è stata condannata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea per aver ripristinato per un periodo di tempo troppo lungo i controlli ai confini interni”.
Anche chi si vuole fermare e sceglie di tornare a Torino da Oulx, si scontra contro il “muro di gomma” dell’impossibilità di presentare richiesta d’asilo. Un’impossibilità che si riscontra anche nei porti italiani di Ancona, Venezia e Brindisi. Un altro “tassello” di una strategia di negazione del diritto d’asilo messa in atto dal nostro Paese. “Vengono respinti senza neanche aver messo i piedi sul territorio italiano -dice Anna Clementi, operatrice sociale dell’associazione Lungo la rotta balcanica-. Una volta intercettati sono riconsegnati al comandante della nave che li riporta al punto di partenza. Senza alcuna garanzia”.
Ed ecco il collegamento con quanto succede nei Balcani. Il punto di partenza è a Patrasso, in Grecia, dove le persone vivono la violenza della polizia sistematica verso chi vuole imbarcarsi tentando la traversata in container caricati su navi merci. “Vengono spessi chiusi in celle, a volte anche all’aperto, sotto il sole, e lasciati per ore senza un documento che giustifichi il loro trattenimento. Un ‘segnale’ che la polizia vuole mandare a tutti coloro che sono pronti a imbarcarsi”. Più in generale la Grecia continua a essere un “laboratorio per le politiche securitarie messe in atto dall’Ue”, spiega Andrea Contenta, ricercatore indipendente attivo nel Paese. “Il governo porta avanti una politica di apartheid nei confronti dei migranti. C’è una forte criminalizzazione della solidarietà e il tentativo di cambiare l’ordinamento giuridico per poter utilizzare i fondi dell’Ue per realizzare politiche illegali”.
Risalendo dalla Grecia verso i Balcani occidentali, le rotte percorse da chi è in transito sono cambiate. In Bosnia ed Erzegovina la situazione sembra più “tranquilla” rispetto al passato. Meno respingimenti al confine anche connessi a un cambio di approccio della polizia croata che permetterebbe alle persone di presentarsi nelle stazioni di polizia e ricevere un “foglio di via” con cui poter viaggiare e lasciare il Paese entro sette giorni. “È difficile capire il perché di questo repentino cambio di atteggiamento dal marzo 2022. Sicuramente la vicinanza delle elezioni nel Paese ha un’influenza su tutto questo”, racconta Tamara Cetkovic di Iscos Emilia-Romagna. In Bosnia ed Erzegovina le associazioni incontrano soprattutto famiglie provenienti dal Burundi, che scappano da una situazione molto violenta nel loro Paese, come ricostruito anche da Human rights watch, e che raggiungono in aereo la Serbia e poi tentano di entrare in Ue da diversi confini, oltre che minorenni provenienti da Afghanistan e Pakistan.
Lipa, il campo di confinamento “all’avanguardia” costruito anche dall’Ue, a cui RiVolti ai Balcani ha dedicato uno specifico dossier di approfondimento, oggi conta poche centinaia di presenze e probabilmente verrà sempre più utilizzato come hub per poter aumentare i rimpatri dei migranti verso i Paesi d’origine. Nonostante questo la criminalizzazione della solidarietà continua a colpire. “Il 22 settembre il Service for foreigners affairs del ministro degli Esteri bosniaco ha notificato alla nostra organizzazione uno sfratto per sgomberare una casa entro 48 ore che usiamo come appoggio per immagazzinare il materiale che arriva dalle donazioni -racconta Matilda Zacco di Nnk-. Un atto di intimidazione accompagnato da convocazioni presso le stazioni di polizia per essere interrogati. Sono venuti per trovare un motivo ‘illecito’ per giustificare lo sgombero: non hanno trovato nulla, ma l’obiettivo è stato comunque raggiunto”.
No Name Kitchen è attiva anche in Serbia dove nelle ultime settimane, come detto, si registra un aumento delle violenze. Al confine con l’Ungheria, da un lato, e con la Romania, dall’altro, le persone vengono brutalmente respinte dalla polizia. “È una violenza sistematica -racconta ancora Zacco-. Oltre alla polizia ungherese è presente anche quella austriaca, registriamo infatti moltissimi respingimenti a catena con le persone ‘riportate’ indietro dall’Austria. Abbiamo testimonianze di persone che hanno ricevuto la ‘benedizione’ cristiana e a cui sono state disegnate le croci sulla testa. È una situazione tremenda”. No Name Kitchen stima la presenza di circa 3mila persone nel Nord della Serbia: la difficoltà dell’attraversamento di quel confine, militarizzato e con la presenza di un’alta rete metallica, aumenta anche i profitti per chi contrabbanda i migranti. Il prezzo del confine sale, soprattutto per le famiglie.
Dalla Serbia o dalla Croazia, per chi arriva a Trieste dopo aver attraversato la Slovenia, comincia l’incubo italiano. Le riammissioni, la pagina buia del nostro Paese che ha visto nel 2020 oltre 1.200 persone respinte dal confine orientale verso le violenze della rotta balcanica, sembrano essere interrotte ma permangono gravi violazioni dei diritti. “Sì, è una frontiera in cui l’esercizio dei diritti fondamentali non è garantito -riprende Avòn di Ics- Si verificano situazioni gravi: minorenni registrati come maggiorenni nonostante la presenza di Ong al confine. E poi anche chi viene identificato come minorenne viene lasciato in strada”. Proprio in strada, in piazza della Libertà, continua il lavoro di Linea d’Ombra. “L’aumento degli arrivi e delle richieste degli ultimi mesi ci mette in difficoltà -spiegano Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir-. Questa piazza, la piazza del mondo, resta però il simbolo della resistenza. Di chi vuole cambiare le cose. È un patrimonio che resta di tutti e tutte”.
Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Un blocco navale per fermare gli arrivi di migranti verso l’Italia. E’ il piano proposto da Giorgia Meloni in vista delle elezioni politiche del prossimo 25 settembre. “Il blocco navale che propone Fratelli d’Italia è una missione militare europea, realizzata in accordo con le autorità libiche, per impedire ai barconi di immigrati di partire in direzione dell’Italia. Non si tratta di respingimenti, perché questi avvengono in mare aperto” si legge sul sito del partito di destra. Ma la proposta di un blocco navale è realizzabile davvero?
Stando all’articolo 42 dello Statuto delle Nazioni Unite il blocco navale non può essere attivato unilateralmente da uno Stato se non nei casi di legittima difesa, e cioè in caso di aggressione o guerra. Il contrasto all’immigrazione non rientra in nessuna delle fattispecie previste e dunque sarebbe illegale. Anzi, potrebbe essere equiparato a un atto di guerra da parte del nostro paese.
“Il blocco navale è un istituto preciso, regolato dal diritto di guerra e in questo momento c’è una guerra interna in Libia ma non c’è una guerra internazionale né contro l’Italia né contro l’Unione europea, quindi non ci sono i presupposti per evocare questa misura – spiega a Redattore Sociale Irini Papanicolopulu, professoressa associata di diritto internazionale all’università di Milano Bicocca – . Inoltre, non esiste un blocco navale concordato con il paese contro cui si fa. Ci sono casi specifici in cui può essere attuato, come nel caso di un conflitto armato, ma questo presuppone la perdita di neutralità da parte di chi lo opera. E’ a tutti gli effetti un atto ostile contro lo Stato verso cui si fa. E’, dunque, attualmente irrealizzabile”.
Secondo Papanicolopulu c’è probabilmente una confusione terminologica, si parla di “blocco navale” intendendo però “un’operazione di interdizione”. Che, però, allo stesso modo è possibile attuare solo ad alcune condizioni. “Nello specifico – spiega la docente – un’operazione di interdizione per fermare i migranti sarebbe contraria agli obblighi internazionali sia relativamente al diritto del mare che ai diritti umani”.
Nel 1997 l’allora governo Prodi mise in atto un’operazione per bloccare il flusso di profughi dall’Albania. L’operazione, chiamata impropriamente blocco navale, era realizzata di concerto con le autorità albanesi. Ma il 28 marzo dello stesso anno un’imbarcazione, la Kater I Rades, venne speronata dalla nave Sibilla della marina militare italiana nel tentativo di ostacolarne il passaggio. A bordo c’erano circa 150 persone, 83 persero la vita in mare. La tragedia, che rappresenta una delle pagine più buie della storia recente italiana, contribuì ad aprire un dibattito sui limiti del controllo delle frontiere da parte degli Stati. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati parlò di un blocco illegale da parte dell’Italia. E la misura venne sospesa.
“Anche l’operazione di interdizione navale è un istituto particolare che, proprio per il suo contenuto, può andare contro il diritto internazionale. In particolare va contro la libertà dei mari, cioè di navigazione, un principio secolare sancito dal diritto internazionale moderno – aggiunge la docente -. Solo in casi ben specifici e disciplinati dagli Stati si può fare. Tra le criticità c’è anche il diritto di passaggio inoffensivo nelle acque territoriali e la concreta liceità delle misure. In secondo luogo bisogna considerare la questione del rispetto dei diritti umani: c’è un trattato internazionale di cui fa parte perfino la Libia, il patto internazionale dei diritti civili e politici, che sancisce il principio per cui chiunque può lasciare un paese incluso il proprio”.
Non solo, ma ricorda Papanicolopulu, rispetto al 1997 la situazione è cambiata: “In questi vent’anni c’è stato uno sviluppo delle norme, diverse sentenze e trattati internazionali hanno offerto dei chiarimenti e ora il quadro è molto più definito, oltre ai principi generali abbiamo anche norme attuative che stabiliscono specifiche condizioni e limiti”.
E poi quali navi potrebbero passare e quali no? Cosa si fa con le navi mercantili? Inoltre, si potrebbe creare anche una situazione paradossale per il centrodestra: qualsiasi nave, anche da difesa, se incontra un’imbarcazione in distress ha l’obbligo di soccorso. E, dunque, se le navi chiamate a difendere i confini incontrassero un barchino carico di migranti in difficoltà sarebbero obbligate a prestare aiuto e a portare le persone nel porto più sicuro di sbarco. L’ipotesi di blocco navale o interdizione navale potrebbe così trasformarsi in una novella missione Mare nostrum. In caso contrario il nostro paese andrebbe incontro a nuove condanne: solo un mese fa la Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato la Grecia per un respingimento (e mancato soccorso) in mare.
Proprio per le polemiche nate dall’evocazione del “blocco navale” (su cui non si è detta d’accordo neanche la Lega) la stessa Giorgia Meloni in questi giorni ha cercato di spiegare la sua proposta, aggiustando il tiro: “Il tema degli sbarchi si deve affrontare col blocco navale, che altro non è che una missione europea, da concordare con le istituzioni europee, per trattare insieme alla Libia la possibilità che si fermino i barconi in partenza, l’apertura in Africa degli hotspot, la valutazione in Africa di chi ha diritto a essere rifugiato e di chi è irregolare, la distribuzione dei veri profughi e rispedire indietro gli altri. Occorre smetterla di considerare profughi e irregolari la stessa cosa: è una falsità costruita in questi anni dalla sinistra”, ha spiegato in una recente intervista a Studio Aperto.
L’obiettivo sembra dunque quello di rafforzare il Memorandum tra Italia e Libia, realizzato nel 2017 dall’allora governo Gentiloni, con l’aggiunta di hotspot per selezionare i richiedenti asilo nei paesi di transito extra europei. Una proposta che però contiene anch’essa dei limiti. “Questo tipo di proposte hanno tutte un retropensiero non espresso ma evidente: che si possa impedire il diritto di asilo come diritto di accesso individuale al territorio, selezionando i ‘veri rifugiati’ e bloccando le frontiere – spiega Gianfranco Schiavone, membro Asgi -. L’ipotesi è quello di un blocco navale realizzato sotto altre forme più o meno legali, ma tra l’ipotesi iniziale e quella apparentemente più ragionevole c’è una continuità di pensiero. Invece il diritto d’asilo prevede sempre il diritto di accesso al territorio dello Stato in cui si vuole chiedere protezione”.
Secondo Schiavone l’unica cosa che si può realmente fare è mettere in pratica procedure per facilitare l’ingresso dei richiedenti protezione internazionale, rilasciando visti umanitari. “Va esclusa la possibilità di un esame delle domande di asilo al di fuori del territorio in cui uno stato esercita la propria giurisdizione perché in tale contesto la domanda non può essere esaminata con tutte le garanzie necessarie, si pensi al diritto ad un ricorso effettivo – spiega -. Ciò che si può e si deve fare è riformare l’attuale normativa in modo da prevedere la presentazione di una domanda di asilo all’estero, si pensi a situazioni di chiaro pericolo, e il rilascio di visti di ingresso umanitari per il successivo pieno esame delle domande in Italia. Questa riforma ridurrebbe il numero di coloro che sono costretti ad affidarsi ai trafficanti per giungere in Italia e chiedere protezione. I paesi di transito però sono paesi dove ci sono scarse garanzie di rispetto dei diritti- aggiunge -. In Libia, poi, sarebbe impensabile un’ipotesi del genere”.
Superare il sistema binario tra la gestione dello Stato e quella degli enti locali, bloccare la proliferazione dei centri di accoglienza straordinaria, garantire standard adeguati e uniformi, valorizzare il ruolo delle famiglie, attuare una progettazione condivisa, istituire una modalità permanente di consultazione del terzo settore. Sono sei le proposte per riformare il sistema di accoglienza italiano, presentate oggi (22/06/2022) dal Tavolo Asilo in una conferenza stampa a Roma.
“La nostra proposta nasce da un’indagine che abbiamo realizzato interrogando gli operatori e le operatrici che lavorano nei progetti territoriali – spiega Filippo Miraglia di Arci e coordinatore del Tavolo Asilo e immigrazione -. Quest’anno ricorrono i vent’anni della legge Bossi-Fini, una delle riforme legislative peggiori della storia dell’immigrazione in materia di asilo. In quella riforma, che puntava a ridurre lo spazio dei diritti degli stranieri, legandone la presenza a un contratto di lavoro, gli ultimi due articoli introducevano il sistema di accoglienza unico per richiedenti asilo e rifugiati. Eppure in tutti questi anni non si è riusciti ad abbandonare un approccio emergenziale per strutturare un sistema che risponda realmente alle esigenze del nostro paese e delle persone che arrivano qui a chiedere protezione – aggiunge Miraglia -. Le recenti vicende legate alla crisi ucraina hanno dimostrato che il sistema non è in grado di rispondere adeguatamente, il Governo ha affidato la gestione alla Protezione civile e a distanza di 4 mesi la risposta è stata marginale. La stragrande maggioranza delle persone è accolta da privati, amici e parenti”.
La proposta dettagliata di riforma dell’accoglienza parte da un punto fondamentale: superare il sistema binario. Come spiega Gianfranco Schiavone presidente dell’Ics di Trieste e membro di Asgi, “oggi c’è una chiara distinzione di competenza tra stato e autonomie locali. Ma nella prassi vige una confusione totale su chi deve fare cosa”. Per questo il Tavolo Asilo chiede un trasferimento delle funzioni amministrative ai Comuni per la gestione ordinaria dell’accoglienza territoriale e trasformare il Sai (Sitema di accoglienza e integrazione) da programma a sistema unico. Inoltre, secondo le organizzazioni che compongono il Tavolo bisogna superare la volontarietà da parte degli enti locali nell’assumere la scelta su se e quando aderire nonché uscire dal sistema di accoglienza. “Questo ha impedito negli anni che il sistema si sviluppasse, diventando un programma nazionale di accoglienza diffusa e integrata – aggiunge Schiavone -. E’ altresì difficile per un amministratore locale coscienzioso aderire a un progetto di accoglienza se è in un territorio in cui altri non lo fanno anche per ragioni elettorali e di propaganda. Tutti, invece, devono essere chiamati a fare la loro parte”.
In secondo luogo si chiede di fermare l’infinita proliferazione dei cas, i centri prefettizzi per l’accoglienza straordinaria ed attuare un programma nazionale per il loro progressivo superamento. Per farlo sarà necessario investire le regioni della responsabilità di attuare il trasferimento delle competenze, anche attraverso l’istituzione di una cabina di regia regionale che coinvolga le prefetture, Anci e una rappresentanza del terzo settore. Si chiede anche di adottare subito alcune concrete misure di incentivo agli enti locali che intendono aderire al Sai, prevedendo in particolare l’assegnazione di un contributo economico periodico pluriennale.
Il terzo punto della riforma riguarda la modifica dei capitolati di gestione dei cas per garantire standard adeguati ed uniformi su tutto il territorio. Si chiede poi di superare la logica dello scambio utilitaristico nella gestione dei servizi di accoglienza e attuare una progettazione condivisa tra enti locali e il terzo settore. Il quinto punto riguarda il riconoscimento del valore e la promozione dell’accoglienza in famiglia all’interno del sistema istituzionale. “Dai primi anni 2000 si sono sviluppate esperienze indipendenti all’interno delle famiglie italiane ma ad oggi tutto questo rimane a livello di sperimentazione – sottolinea Fabiana Musicco, direttrice di Refugees Welcome -. Vogliamo invece che siano considerate all’interno di un piano accoglienza”. Infine, la riforma pensata dal Tavolo asilo si chiude con la richiesta dell’istituzione in modalità permanente di consultazione degli enti di terzo settore.
Immagine in evidenza di Redattore Sociale
Di Alessandro Luparello su Voci Globali
“In molti Paesi europei, negli ultimi anni i difensori dei diritti umani e le organizzazioni della società civile che hanno aiutato rifugiati e migranti sono stati sottoposti a procedimenti penali infondati, limitazioni indebite alle loro attività, intimidazioni, vessazioni e campagne denigratorie. Le loro azioni di assistenza e solidarietà li hanno messi in rotta di collisione con le politiche europee sulla migrazione, che hanno l’obiettivo di impedire a rifugiati e migranti di raggiungere l’Unione Europea, di trattenere quelli che riescono a entrare in Europa nel Paese di primo arrivo e di espellerne quanti più possibile verso i loro Paesi d’origine.”
“Soccorrendo rifugiati e migranti in pericolo in mare o sulle montagne, offrendo loro riparo e cibo, documentando gli abusi della polizia e delle guardie di frontiera e opponendosi alle espulsioni illegali, i difensori dei diritti umani hanno svelato la crudeltà delle politiche sull’immigrazione e sono diventati essi stessi bersagli delle autorità. I leader politici e le forze di sicurezza hanno trattato atti di umanità come minacce all’ordine pubblico, ostacolando ulteriormente il loro lavoro e costringendoli a impiegare le loro scarse risorse e le loro energie per difendersi in tribunale.”
Ecco l’inizio, inequivocabile nelle affermazioni e nei termini, della sintesi del rapporto “Punire la compassione: solidarietà sotto processo nella Fortezza Europa”, pubblicato a marzo 2020 da Amnesty International.
Queste frasi riassumono la prepotente e pervasiva deriva xenofoba e di chiusura asfittica (e violenta) dei confini cui assistiamo in Europa, e in Italia. Il tutto, osserviamo, passa attraverso una narrativa d’odio verso l’altro, il diverso, lo straniero e, per riflesso, verso chiunque si muova in suo aiuto per il rispetto dei diritti universali e per umano senso di fratellanza e sorellanza.
Ma è sempre stato così? In Italia, almeno, è indubbio un cambio di passo, una modifica del linguaggio che ha seguito il deciso indirizzo politico e ha comportato un significativo impatto sull’opinione pubblica. Ricordiamo bene come la narrativa mediatica, politica e informativa, sia scivolata velocissimamente dalla retorica degli “angeli del mare” a quella -delirante e falsa ma strumentale- dei “taxi del mare” (rimanendo nel campo delle operazioni di salvataggio nel Mediterraneo delle persone migranti).
Proviamo a capirne di più parlando con Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato che opera attivamente nella difesa dei migranti e dei richiedenti asilo, in collaborazione con diverse ONG, e con Luca Casarini, capomissione di Mediterranea Saving Humans e che è stato direttamente oggetto di inchieste legate alla sua attività di salvataggio di persone in mare.
Partiamo proprio dal linguaggio. Quanto è stato importante, nel cambio della percezione generale dei cittadini, la modifica del linguaggio usato dalla politica e veicolato/amplificato attraverso i canali di comunicazione?
Luca Casarini afferma senza esitazioni che è stato fondamentale.“Pensiamo appunto alla formula, introdotta da Di Maio, dei ‘taxi del mare’. È quello il momento – cristallizzato in uno slogan per i media- nel quale l’umanitario diventa un campo di conflitto e non più un ‘contradditorio ma tollerabile’ terreno di relazione tra istituzioni e società civile. Si rende esplicito e radicale, da parte dello Stato, il tentativo di ‘dividere’ il lavoro e l’impegno umanitario in ‘sussidiario’, e dunque buono, e ‘sovversivo’, e quindi cattivo.
I danni di un’operazione del genere, alimentata dalla grancassa dei media, sono incalcolabili sul piano culturale e sociale. Ovviamente, per legittimare il processo di criminalizzazione dell’umanitario, c’è bisogno di ‘spersonalizzare’ le vittime delle violazioni dei diritti umani: devono essere solo numeri, non persone con volti, storie, nomi, parenti e famiglie.”
La spersonalizzazione e disumanizzazione delle persone è appunto un passaggio cruciale e fondante di quella narrativa che ci consente di attaccare l’altro, finalmente scevri da dubbi etici e dal controllo delle coscienze, autoassolvendoci da ogni disumanità e crudeltà che altrimenti -riconoscendola- non saremmo in grado di tollerare in noi stessi.
Fulvio Vassallo Paleologo precisa che “purtroppo il linguaggio discriminatorio non si è limitato ai media ma è entrato nel corpo di provvedimenti delle procure siciliane che hanno indagato e chiesto il rinvio a giudizio delle ONG accusate di facilitare l’ingresso ‘clandestino’ dei naufraghi soccorsi in mare. Molte persone che avrebbero potuto trovare salvezza in Europa continuano ancora oggi ad essere internate nei centri di detenzione in Libia, o abbandonate in mare”.
E aggiunge che “utilizzare espressioni come ‘migranti sottratti alla guardia costiera libica’ – nel corpo di importanti provvedimenti di richiesta di rinvio a giudizio di operatori umanitari (come nel caso Iuventa) che hanno soccorso in mare migliaia di vite – equivale a dare una valenza sanzionatoria all’espressione ‘taxi del mare’, in assenza di qualsiasi base legale e dopo che questa vergognosa definizione è stata ampiamente smentita dai fatti documentati nei numerosi processi nei quali le indagini contro le ONG sono state archiviate”.
Ma se dovessimo individuare -semplificando – un momento specifico in cui maggiormente si è costruito e manifestato un cambio di approccio delle Istituzioni italiane ed europee al fenomeno migratorio e alla comunicazione dello stesso verso i cittadini, quale potremmo identificare?
Una dettagliata risposta arriva da Fulvio Vassallo Paleologo: “L’anno della svolta è il 2017. Dal 2014 in poi gli arrivi via mare in Italia si erano moltiplicati, soprattutto per effetto della crisi siriana, con 170.000 persone arrivate nel 2014 e 153.000 persone arrivate nel 2015 (secondo dati dell’UNHCR e del Ministero dell’interno); nel 2016, dopo gli accordi stipulati dai Paesi dell’Unione Europea con la Turchia e la chiusura quasi completa delle rotte sull’Egeo, erano stati soccorsi nel Mediterraneo centrale oltre 180.000 profughi, poi sbarcati in Italia e provenienti in gran parte dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Pakistan e dall’Iraq, numero che nel 2017 era destinato a crollare, soprattutto dopo la stipula del Memorandum d’intesa tra Italia e Governo di Tripoli del 2 febbraio 2017.
La criminalizzazione di persone e organizzazioni che prestano assistenza agli immigrati in Europa è espressione della chiusura delle vie di ingresso legale, anche per ragioni umanitarie, e della crescente difficoltà di accedere alla procedura di asilo in frontiera e di soggiornare legalmente. I processi di criminalizzazione, soprattutto a livello mediatico, hanno riguardato prima i cosiddetti ‘clandestini’, poi coloro che gli prestavano soccorso, infine i cittadini solidali, le associazioni di volontariato e i singoli amministratori locali, che prestavano assistenza a terra, fino ad intaccare il principio di separazione dei poteri, la libertà di informazione ed i diritti di difesa. È finito compromesso lo stesso esercizio della giurisdizione sotto una pressione politica e mediatica senza precedenti.
A partire dal 2017, anno della stipula del Memorandum d’intesa tra Italia e Governo di Tripoli si è sviluppata una forte attività di indagine nei confronti dei rappresentanti delle ONG che operavano attività di monitoraggio e soccorso nel Mediterraneo centrale con diversi sequestri preventivi e con procedimenti penali che sono stati archiviati o che rimangono ancora nella fase delle indagini preliminari”.
Anche Luca Casarini individua lo stesso momento storico: “Mi sembra che uno dei momenti ‘topici’ degli ultimi anni, che può rappresentare bene un ‘cambio di narrazione’ da parte delle istituzioni in merito al fenomeno migratorio, si possa ascrivere alla famosa intervista su Repubblica del 29 agosto del 2017 dell’allora ministro degli interni Marco Minniti nella quale affermava ‘sui migranti ho temuto per la tenuta democratica del Paese’”.
Proprio a questo proposito, quanto peso hanno avuto l’aumento del numero degli arrivi, sulle nostre coste, di persone in percorso migratorio e – appunto – la ‘paura per la tenuta democratica’ e quanto invece la progressiva chiusura degli Stati europei?
Ancora Luca Casarini: “Ci voleva la guerra in Ucraina per far capire che la questione dei ‘numeri’ è tutta una montatura. Siamo un Paese di 60 milioni di abitanti in un continente di 500 milioni. Stiamo parlando di arrivi alle frontiere, anche negli anni di punta che non sono gli ultimi dieci, di numeri gestibilissimi. Non vi sono invasioni, non vi sono esodi di popolazioni intere, niente come ciò che abbiamo gestito in una settimana per l’Ucraina. E comunque, il fenomeno dello spostamento di esseri umani nel mondo riguarda poco meno di 100 milioni di persone. In un pianeta di 7 miliardi.
È un fenomeno strutturale, permanente e incentivato solo e solamente dalle scelte politiche, economiche ed energetiche della parte che si mangia l’80% delle risorse disponibili e che è il 20% della popolazione mondiale, concentrata nel Nord del pianeta. Di fronte a questo abbiamo anche il coraggio di meravigliarci? Di fare le ‘povere vittime’ dell’immigrazione incontrollata? Inondiamo il mondo di armi e di guerre, devastiamo interi Paesi per succhiargli petrolio, gas, diamanti, minerali e li riduciamo a dei luoghi invivibili, dove non si può nemmeno piantare una patata, e poi ci lamentiamo?
Produciamo tanta CO2 da alzare la temperatura globale fino a desertificare, ogni giorno, centinaia di chilometri quadrati di terre. Disboschiamo le grandi foreste al ritmo di una Lombardia al giorno, ma siamo davvero senza vergogna a tal punto da proferire ancora parola su questo?”.
“Adempiere gli obblighi di soccorso sanciti da un Regolamento europeo” – aggiunge Fulvio Vassallo Paleologo – “non può comportare rischi per la tenuta democratica di un Paese. Sono comunque molto più gravi i rischi, che spesso comprendono il sacrificio della vita umana in mare, per le persone abbandonate in acque internazionali senza che gli Stati inviino mezzi di soccorso o assumano i compiti di coordinamento delle operazioni di salvataggio previsti dalle Convenzioni internazionali”.
La criminalizzazione, giocata su più tavoli, ha riguardato e continua a riguardare attiviste e attivisti, associazioni, organizzazioni (peraltro altrimenti molto stimate, come Medici Senza Frontiere) impegnate nella solidarietà, nel soccorso, nell’aiuto alle persone in percorso migratorio.
E questo nonostante alcune palesi evidenze, più volte dimostrate, come il fatto che – senza il soccorso operato da ONG e attivisti (in supplenza degli Stati assenti) – le persone sarebbero probabilmente morte (il Mediterraneo è la rotta migratoria più mortale al mondo). O come il fatto che il numero di persone che tenta di attraversare il Mediterraneo verso l’Europa non dipende dall’eventuale presenza di navi SaR al largo (cfr. ricerche ISPI sul non-pull-factor delle navi delle ONG) . O come il fatto che, nel complesso delle persone che mettono piede sul territorio italiano all’interno di un percorso migratorio, il numero di persone che sbarcano da una nave SaR di una ONG è sostanzialmente marginale.
Perchè, nonostante queste palesi evidenze e nonostante finora tutte le (tante) accuse si siano rivelate infondate e strumentali, la retorica diffusa, la propaganda politica e l’attenzione mediatica continuano ad attaccare – anche attraverso fake news e hate speech – le ONG o comunque chiunque (professionista, attivista, associazione, ecc) operi nel campo della solidarietà?
Risponde Fulvio Vassallo Paleologo: “Le politiche di contrasto della libertà di emigrazione e del diritto di chiedere asilo in un Paese sicuro, in tempi in cui le guerre permanenti e le devastazioni ambientali privano i popoli di qualsiasi speranza di futuro, sono il terreno sul quale Governi di segno diverso hanno progressivamente eroso il principio di eguaglianza tra le persone e la portata effettiva dei diritti umani. Le frontiere sbarrate non hanno solo precluso l’ingresso ai migranti in fuga, ma hanno anticipato, o riprodotto, nuovi muri su scala internazionale riportando in auge la corsa agli armamenti e la divisione del mondo in blocchi contrapposti. Queste politiche hanno utilizzato la falsificazione come strumento di attacco contro le persone in movimento e poi contro quanti prestavano loro assistenza.
E alla fine hanno portato ad accordi con Stati nei quali non vi era alcuna garanzia per i diritti umani, accordi che oggi pesano anche per la loro forza di ricatto sulla soluzione delle crisi belliche più virulente. Le politiche di sicurezza nazionale, o di difesa dei confini hanno di fatto cancellato il diritto di chiedere asilo (sancito dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati come diritto di accedere ad un territorio sicuro) e hanno creato le premesse per la discriminazione e la marginalizzazione degli ultimi arrivati, fino alla criminalizzazione dei sopravvissuti e dei soccorritori”.
Le libertà movimento e di richiedere asilo, adesso richiamate dall’avvocato Paleologo e presenti (articoli 13 e 14) nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, sono anche oggetto dell’appello “Passaporti, basta privilegi” promosso proprio da Voci Globali per rivedere la politica dei visti e garantire libertà di movimento a tutti i cittadini del mondo.
In conclusione chiediamo, ancora a Fulvio Vassallo Paleologo, quale sia la sua personale visione sulle reali cause del fenomeno di criminalizzazione della solidarietà.
“In questa fase storica sembrano destinate ad aumentare le diseguaglianze tra i migranti forzati a seconda del Paese di origine, e addirittura del colore della pelle, pure se provenienti dall’Ucraina. Ma sarebbe davvero impossibile garantire a tutti i migranti forzati in arrivo in Italia un trattamento equo ed un’accoglienza sul territorio nazionale coerenti con il riconoscimento dei loro diritti fondamentali sanciti dalle Convenzioni internazionali?
Invece si alimenta la retorica dell’invasione, adesso anche con un’allarme sulla crisi alimentare globale derivante dal blocco dei porti ucraini.Come se la devastazione ambientale prodotta da decenni di sfruttamento da parte dei Paesi più ricchi non avesse già prodotto la migrazione forzata di milioni di persone, private del loro ambiente vitale. E molto spesso la maggior parte delle persone che fuggono dalle aree di crisi rimane nei Paesi limitrofi e non trova risorse e canali di accesso verso l’Europa.
Non esistono canali legali di ingresso e il rafforzamento dei trafficanti internazionali è una conseguenza diretta delle politiche migratorie dei paesi di destinazione che puntano tutto sul ‘contrasto dell’immigrazione clandestina’, senza consentire visti di ingresso e vie di fuga per i potenziali richiedenti asilo”.
L’avvocato Paleologo ha fatto riferimento alle diseguaglianze tra i migranti. Dato che Mediterranea è stata protagonista anche di un altro tipo di azione solidale dal basso, quella dei #SafePassage di sostegno alla popolazione Ucraina, chiediamo a Luca Casarini se ha notato, dal punto di vista politico e mediatico, un diverso atteggiamento verso Mediterranea rispetto a quello “subito” per via delle missioni in mare.
“Sì”, risponde Casarini. “Loro sono bianchi di pelle. Sono profughi di una guerra dove siamo alleati con lo Stato del loro Paese di origine. Loro sono strumentalizzati al contrario: quanto è brava l’Europa, l’Italia. Invece a Sud ci sono neri, africani, il simbolo razzista per antonomasia. Eppure sono tutti e tutte profughi. Noi siamo anche in Ucraina, perché la lotta a fianco della popolazione civile di un Paese aggredito da un esercito è la nostra bussola, la nostra resistenza. Ma proprio per questo lottiamo contro la disparità di trattamento delle persone. Tutti devono essere trattati come trattiamo i profughi ucraini”.
Concludendo, chiediamo a Luca Casarini di consegnarci un messaggio per contrastare la rassegnazione alle ingiustizie anche quando la loro forza e pervasività sono (o sembrano) soverchianti.
“La ‘Cospirazione del Bene’: è questo il messaggio. Creare un mondo diverso, non avere paura di opporsi ai potenti, alle loro leggi sbagliate, ai loro criminali modi di violare quelle giuste. Disobbedire a questo orrore, e obbedire a qualcosa di più grande, l’amore per i nostri fratelli e sorelle che soffrono. Noi di Mediterranea diciamo: ‘Noi li soccorriamo, loro ci salvano’. È così. Per salvarci tutti e tutte, dobbiamo lottare, combattere con negli occhi il sorriso di un bambino che ti abbraccia dopo che l’hai tirato su dall’acqua. Niente è più importante”.
Niente è più importante.
Foto in evidenza di Alessandro Luparello
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