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L’importanza delle parole oltre gli slogan

Di Valerio Cataldi, presidente Associazione Carta di Roma

Leggevo il tweet del giornalista Pape Diaw. Diceva che dopo quaranta anni che sei italiano, è deprimente essere chiamati ancora in televisione, ad interpretare una parte, un ruolo, quello dello straniero. Non so bene come ci si senta, per due ragioni: la prima è che io non rientro nella casistica degli “stranieri” e la seconda è che la televisione la frequento per lavoro, sì, ma non per interpretare ruoli.

Il gioco delle parti, si recita a soggetto. Ognuno ha il suo ruolo. La TV, il “dibattito” TV, pretende che sia così, c’è un copione da rispettare. È sbagliato, è la banalizzazione delle esistenze che per definizione, sono tutte diverse, ognuna è diversa dall’altra. Ma se si accetta di recitare una parte, beh, allora si diventa tutti uguali. Tutti riconducibili sotto una sola definizione.

Diciamo che ci sono casi in cui la responsabilità della “cattiva” comunicazione si può distribuire. Ci sono altri casi in cui la cattiva comunicazione dipende dagli autori che, in effetti, non fanno comunicazione. Se c’è una costante nei dati che il rapporto di Carta di Roma rileva, grazie alla preziosa analisi dell’Osservatorio di Pavia, è la propaganda. La politica determina il linguaggio, sceglie le parole.

Quest’anno sono legate alla pandemia, ma il significato che si determina con la scelta delle parole e con la costruzione delle frasi, ha sempre la stessa accezione negativa. Chi arriva dal mare prima era solo clandestino, adesso è un clandestino infetto, untore. Il Covid-19, nel linguaggio giornalistico, ha fagocitato il tema migrazioni e lo ha trasformato a sua immagine, senza alterarne il valore negativo. Ma anche i giornalisti possono scegliere se scrivere ciò che vedono o ciò che la politica gli chiede di mostrare.

La vita, quella vera, continua a restare sullo sfondo. L’accoglienza è ancora un tema che non interessa. Al centro, invece, restano gli sbarchi. I numeri, che sono insignificanti sotto il profilo reale e sotto il profilo statistico, non hanno alcuna importanza. Sono solo una occasione per far rimbalzare ancora la paura del clandestino-untore e rilanciare la leggenda dell’invasione. Naturalmente a beneficio della sola propaganda politica.

La narrazione distorta e distorcente che si fa delle migrazioni raggiunge il parossismo sui social. Le migrazioni qui si liquidano in quattro parole. Se in TV si recitano ruoli predefiniti, i social sembrano invece essere spazi dove tutto è consentito, dove non c’è controllo e non c’è sanzione. La riflessione ha ancora meno spazio. Costretta in 280 caratteri, buoni invece per i soliti slogan.

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