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Quando avere un documento significa essere liberi

Il racconto della conquista di un agognato documento e i rapporti umani che aiutano a comprendere se stessi e chi ci sta intorno, dando una nuova misura al mondo

Il documento che sognavo di avere da quasi un anno è di colore grigio. È un libretto delle dimensioni della carta d’identità italiana, niente di eccezionale, solo una data che salta subito all’occhio perché in neretto. Ed evidenzia una data da ricordare: il titolare, e cioè io, può rimanere in suolo elvetico fino all’autunno del 2021. All’inizio mi sembrava un augurio poi una minaccia, riflettendoci con più calma penso che dopo la esperienza che sto vivendo da un anno quella data ora passa in secondo piano. Dalla mia partenza dall’Italia non mi sono mai prefissata alcun periodo – e ora come prima – non so neppure se domani sarò da un’altra parte. So invece che ora sono libera. Posso lavorare, posso prendermi un appartamento, posso avere la patente, posso, posso, posso. In parte mi sembra di provare lo stesso sentimento di quando ottenni la cittadinanza italiana. Solo che il “sapore” era un altro, per quello italiano ci vollero 25 anni, una vita. Come la mutazione da bruco in farfalla. E così è stato.

Scrivo queste righe da un kebabbaro, il proprietario parla un ottimo francese, il suo paese era una colonia francese. Mi guarda da dietro il suo bancone, è interessato al ticchettio della mia tastiera. In un villaggio di circa 9mila abitanti, una tipa mora, ancora giovane, con zaino in spalla e scarpe da ginnastica che passa quasi ogni giorno nel suo negozio, è la novità. Ed oggetto di varie chiacchiere. Ma come per loro anche per me questa è una novità non facile da gestire. Mi ci sono stabilita da quasi due mesi, si trova di fronte a un bel lago quasi paradisiaco. Qui ho fatto pace con il mio destino e con la Svizzera che agli inizi mi ha un po’ bistrattata. Troppo lungo da raccontare. E lo so, non vi ho tenuti molto aggiornati sulla nuova vita in territorio elvetico ma ci sono stati momenti degni dell’Odissea di Omero. E non volevo certo che questo blog diventasse la cronaca dei gironi danteschi in cui mi sono imbattuta. Invece vale la pena raccontare che è proprio in questi momenti in cui tocchi con piedi scalzi la vera realtà, trovi l’amicizia vera. Quella incondizionata che non si aspetta niente da te. Anche perché proprio non hai niente da condividere, se non la tua presenza.

Thinley è la prima persona ad avermi aperto le porte di casa sua. È tibetana, mamma di due bambini e ottima studentessa di francese. Ci siamo conosciute tra i banchi di scuola, a lei è bastato vedermi con gli occhi un po’ umidi per capire che avevo bisogno di respirare il profumo di casa. Con lei non è stato necessario parlare, è bastato un gesto. La domenica seguente ero a casa sua per un pranzo tibetano da gustare con le mani e parlare in un francese basico – diciamo pure da bambini dell’asilo dove sono sufficienti pochi suoni – tutto quello che ci passava per la testa. Ed è stata una liberazione. Poi la consolazione. Con parole semplici e franche. «Tu puoi prendere un treno e fra cinque ore essere a casa e vedere la tua famiglia. Io non posso più tornare in Tibet. Ci è proibito farlo. E mio padre non lo vedo da dieci anni. So solo che si trova in carcere ma non so se vivo o morto. Non possiamo comunicare al telefono né per posta. Nelle carceri esiste un traffico d’organi, i familiari dei detenuti non sanno mai se usciranno o come ne usciranno. Mia madre vive della sua coltivazione, ci è proibito inviare soldi. È stata lei a dirmi di partire ma mi chiedo sempre se ho fatto bene a lasciarla da sola». Di fronte a queste parole mi sento piccola come una formica. Sento che i miei problemi – quella di una migrante economica – sono passeggeri mentre quella dei rifugiati, che in molti non conosciamo bene, sono di dimensioni così grandi e complessi che non può essere né paragonabile né discutibile. Si scappa dalla morte, dalla guerra. Questo è chiaro.

Aysel arriva invece dalla Turchia. Quando le ho fatto leggere la lettera del comune nel quale mi si annunciava la buona novella, mi ha stretto forte al suo cuore. Ho festeggiato con lei e la sua famiglia, e di certo la nostra conversazione non è stata ricca di parole, per ovvio ragioni di lingue in quanto in turco non so dire neanche “ciao”, ma è stato uno sfogo emozionale. “La mia domanda è stata accettata dopo due mesi!”, è stato il mio sfogo. “Pensa che noi lo attendiamo da cinque anni. E non abbiamo ancora la certezza di ottenerlo”, me lo disse sorridendo, tra una pausa dalla sua precedente conversazione con i suoi familiari che riguardava la politica di repressione nel suo paese. Di fronte a questo ancora una volta mi rendo conto che tutto sommato questa avventura deve continuare a essere vissuta. E parafrasando García Márquez, “vivere per raccontarla”.

Doménica Canchano

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