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Cresce il numero di hate speech in Giappone. L’analisi del The Economist

Il Giappone va verso una legge contro gli hate speech. Intanto, aumentano le manifestazioni xenofobe in tutto il paese

Traduciamo dal sito del The Economist un articolo sull’aumento di hate speech che si sta verificando in Giappone. Di seguito il link all’articolo originale: «Spin and Substance».

Interpretazione e sostanza

A Osaka, nel quartiere coreano Tsuruhashi, una quattordicenne giapponese l’anno scorso è uscita in strada  incitando attraverso un megafono al massacro dei coreani. A Tokyo, nel quartiere Shin-Okubo, dove vi è una delle maggiori concentrazioni di coreani in Giappone, molti affermano che il livello di livore contro gli stranieri – per strada e online – non ha precedenti moderni. I razzisti cantano slogan come: “Fuori dal nostro paese, fuori dal nostro paese” e “Uccidi, uccidi, uccidi i coreani”.

Forse per la prima volta, questo sta diventando un problema per i politici giapponesi. L’orologio fa il conto alla rovescia verso le Olimpiadi di Tokyo 2020 e i legislatori sono sotto pressione per tenere sotto controllo gli abusi verbali e gli evidenti hate speech diretti ai non-giapponesi, principalmente persone coreane.

Il Giappone ha circa 500mila coreani non naturalizzati, alcuni dei quali arrivati negli ultimi vent’anni; molte di queste famiglie, però, hanno preso parte alla diaspora che si è verificata durante l’era imperiale, nella prima metà del ventesimo secolo. A lungo sono stati obiettivo d’ostilità. Dopo il grande terremoto di Great Kanto, nel 1923, i residenti di Tokyo hanno dato inizio a un pogrom contro i coreani, accusandoli di aver avvelenato le scorte d’acqua.

Finora l’abuso si è trattenuto dallo sfociare nella violenza. Si sono tenute anche contro-dimostrazioni dei cittadini giapponesi, in difesa delle persone attaccate. Tuttavia la polizia è stata passiva nell’affrontare gli assalti verbali e vi è il pericolo che un giorno si trasformino in violenza.

Così il Governo è sotto pressione per agire. A luglio, le Nazioni Unite hanno chiesto al Giappone di inserire una legge sugli hate speech che mette al bando la discriminazione razziale. Il governatore di Tokyo, Yoichi Masuzoe, ha subito la pressione del primo ministro affinché facesse passare la legge prima dei giochi.

Anche le corti di giustizia iniziano a muoversi. A luglio l’Alta Corte di Osaka ha confermato una sentenza preliminare sulla discriminazione razziale con la quale si ordina al partito di estrema destra Zaitokukai, che guida raduni xenofobi nel paese, di pagare 12 milioni di yen (11mila dollari americani) per sue invettive contro una scuola elementare di Kyoto a favore dei nord-coreani. Un gruppo di destra, Issuikai, anti-americano e nostalgico del passato imperiale, aborra il razzismo anti-coreano. Il suo fondatore, Kunio Suzuki, afferma di non aver mai visto un tale sentimento xenofobo.

La causa di questo brusco incremento dei cortei xenofobi è la relazione giapponese con la Corea del Sud (durante la guerra le donne coreane furono costrette a prostituirsi per l’esercito giapponese) e del Nord (che rapì cittadini giapponesi negli anni Settanta e Ottanta). Anche il ritorno di Abe al gabinetto nel 2012, sostiene Suzuki, ha a che fare con questo fenomeno. Il primo ministro nazionalista e i suoi alleati sono stati evasivi nel condannare gli hate speech.

Molti sono preoccupati che la nuova legge sugli hate speech, buttata giù in modo improprio, possa mettere a repentaglio la libertà di espressione. Una politica revisionista, Sanae Takaichi, ha affermato, poco prima di entrare a far parte del gabinetto a settembre, che se è necessaria una legge sugli hate speech, dovrebbe essere usata per fermare le persone fastidiose che protestano contro il Governo: i legislatori, ha aggiunto, hanno bisogno di lavorare senza  temere le critiche. La Takaichi è stata obbligata a spiegare perché, insieme a Tomomi Inada, alleato stretto di Abe, è apparsa in alcune foto con un leader neo-nazista.

Alcuni dei discorsi d’odio, pare, potrebbero essere ispirati dall’alto.

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