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Diversità in redazione: negli Stati Uniti i giornalisti musulmani sono in aumento

Con l’islamofobia in crescita e l’islam presto protagonista di notizie, il bisogno di una maggior presenza di giornalisti musulmani è sempre più forte

Di Lauren Markoe, per Religion News Service

Traduzione a cura di Associazione Carta di Roma

Rummana Hussain era una di quelle bambine immaginata dai genitori – musulmani – in camice bianco e con uno stetoscopio al collo.

È diventata, invece, redattore e reporter del Chicago Sun-Times, per il quale si occupa di cronaca giudiziaria e dove rimane l’unica musulmana nel personale editoriale. Conosce “un paio” di altri musulmani al Chicago Tribune, il maggiore giornale dello stato.

«Incolpate i genitori», scherza un illustre musulmano americano, quando gli viene chiesto di spiegare la scarsa presenza di musulmani nei media statunitensi. Molti americani musulmani sono immigrati che vedono nelle scuole di medicina – o di legge, ma non di giornalismo – la chiave per il successo dei propri figli, afferma Ibrahim Hooper, in passato news producer, oggi portavoce nazionale del Council on American-Islamic Relations.

Molto presenti nel campo della medicina, i musulmani rappresentano solo un frammento nei mainstream media americani. Molti reporter musulmani sono rincuorati da ciò che vedono – o almeno da ciò che si racconta – con il recente aumento del numero di colleghi musulmani: con l’islamofobia in crescita e le storie legate all’islam – in particolar modo all’estremismo islamico – che dominano i titoli, il bisogno di una maggiore presenza di giornalisti musulmani si fa sempre più forte tra loro.

Le organizzazioni di categoria dovrebbero battersi per la diversità, compresa quella religiosa, sostiene Richard Prince, ex giornalista del Washington Post che ora collabora con il Robert C. Maynard Institute for Journalism Education, nell’Oakland. «Quando vogliamo occuparci di alcune comunità in modo accurato, è d’aiuto avere in redazione persone che provengono da quelle stesse comunità, anche in posizioni dirigenziali», spiega Prince. Illustra ciò che dice con una imperfetta analogia sui giornalisti musulmani di oggi e i neri che iniziarono a intraprendere la carriera giornalistica durante il periodo di lotta per i diritti civili. «I media compresero che non sarebbero potuti entrare nella comunità nera senza di loro», afferma.

Al Sun-Times, Hussain non è mai stata esplicitamente incaricata di seguire le storie legate all’islam, ma ha valorizzato il racconto dei musulmani americani grazie alla sua conoscenza della fede e della comunità religiosa di Chicago, di cui lei stessa è parte.

I suoi colleghi sanno che è pronta a rispondere alle loro domande; «I musulmani mangiano la carne di manzo?», voleva sapere uno. Un musulmano le ha dato una dritta su un leader islamico accusato di abusi sessuali perché la conosceva personalmente. Quelli che temono di essere ritratti male dai giornalisti accettano di parlare con lei; «Grazie a Dio te ne occupi tu», le dicono. Inoltre ci sono i commenti che il Sun-Times la invita a scrivere sugli eventi di attualità legati all’islam; sull’esplosione della maratona di Boston, per esempio, o sugli islamofobi che deridono il secondo nome del presidente Barack Hussein Obama, così simile al suo cognome.

Nessuno sa esattamente quanti musulmani lavorino nei media americani. L’American Society of News Editors tiene sotto controllo il numero di persone appartenenti a minoranze che lavorano nei quotidiani – il 13% delle quali è nel settore editoriale – e in modo specifico del numero di neri, ispanici e nativi americani. Il censimento tuttavia non tiene conto dei musulmani o di altri gruppi religiosi. Alla domanda sull’intenzione di assumere più giornalisti musulmani, Paul Colford, portavoce dell’Associated Press, ha fornito una tipica risposta: l’agenzia si batte per la diversità e «la fede non è questione di selezione all’Ap».

Un segno del fatto che i musulmani nei media non abbiano raggiunto una massa critica: mentre asiatici, neri e altri gruppi di giornalisti hanno associazioni professionali nazionali vecchie decadi, con staff pagato, conferenze annuali e programmi di tutoraggio, i musulmani americani non hanno alcuna organizzazione a esse comparabile attraverso la quale fare rete. Tuttavia, in molti stanno notando un aumento di intestazioni e nomi musulmani nei crediti alla fine dei notiziari.

Maria Ebrahimji, giornalista che ha iniziato a lavorare alla Cnn a metà anni Novanta, racconta che allora a malapena conosceva altri giornalisti musulmani nel campo e che lei stessa non si identificava come musulmana a lavoro. «Per molti anni alla Cnn non ho rivelato la mia religione», dice.  Ma poi gli aerei hanno colpito le torri, l’America ha dichiarato la sua “guerra al terrorismo” – da tutti considerato un terrorismo di marchio islamico — e Ebrahimji ha deciso di mettere la sua religione sul tavolo: «Sono divenuta l’esperta interna una volta dichiarato di essere musulmana e ho incoraggiato la gente a farmi domande».

Oggi consulente in ambito editoriale, Ebrahimji ha creato un gruppo Facebook per le donne musulmane nei media nell’ottobre del 2014, che oggi include oltre 200 membri. «Ciò che mi emoziona e rassicura è vedere crescere il numero di giovani musulmani interessati al giornalismo come a una carriera o impegnati nel settore dei media anche se non necessariamente a livello professionale», aggiunge.

Mentre Hussain conosceva solo un altro giornalista musulmano quando iniziò come reporter venti anni fa, si raduna ora informalmente con circa 20 giornalisti musulmani nell’area di Chicago. E i suoi genitori, dice, sono arrivati a vedere il giornalismo come una buona scelta professionale per la figlia.

Un accademico che si occupa di musulmani in America sostiene che i pregiudizi radicati nella società americana e nei suoi media limitano l’entità dell’influenza che questi report possono avere su ciò che gli americani leggono sull’islam e su chi lo pratica. «Vi sono certe linee ideologiche che non sono commercialmente sostenibili per la vendita», dichiara il professor Edward Curtis, dell’Indiana University che, per esempio, si interroga sul perché gli americani siano così veloci nel definire la violenza commessa da musulmani come terrorismo e riluttanti ad applicare lo stesso termine alle azioni dell’esercito americano. Mentre può essere utile avere più musulmani in redazione, prosegue Curtis, «dubito che questo cambierà le condizioni fondamentali sotto cui le notizie sui musulmani sono realizzate negli Stati Uniti».

Ebrahimji dice di essere meno preoccupata riguardo al numero di musulmani nel giornalismo americano rispetto a quanto non lo sia per il loro “livello di influenza”. Ha spesso inviato un messaggio alle madri e ai padri musulmani turbati per la copertura mediatica sui fedeli della loro religione: «Se avete intenzione di continuare ad essere critici, un modo per essere di vero aiuto è quello di incoraggiare i vostri figli e le vostre figlie a essere coinvolti in modo attivo nei media, a raccontare le loro storie o, in definitiva, a intraprendere questa professione».

L’articolo originale è disponibile qui.

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