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Elezioni a parole

Nel giorno del silenzio elettorale risuona più forte l’eco delle parole pronunciate, urlate, affisse sulle porte di casa in questi ultimi due mesi. Parole che lasciano il segno, condizionano gli umori e sollecitano paure. Per questa ragione, nel giorno in cui le parole si fermano, scegliamo di uscire con l’analisi del linguaggio di questi primi 60 giorni dell’anno che hanno preceduto il voto

di Paola Barretta e Valerio Cataldi

In questa campagna elettorale abbiamo scelto di lanciare un appello contro le parole di odio che possono trasformarsi in proiettili. Nel giorno del silenzio ribadiamo la necessità di quell’appello fondato sul rispetto dei principi della Carta di Roma, sul rispetto della verità sostanziale dei fatti, sul rispetto dei principi antifascisti e antirazzisti su cui si fonda la carta costituzionale e l’articolo 21 che difende la libertà di stampa.

“Perché è così lungo l’elenco dei problemi urgenti; e così corto quello degli scritti nei quali sia chiaramente chiarito il contenuto di essi? Come si può deliberare senza conoscere?”, così inizia l’articolo scritto dal giurista Paolo Bonetti riprendendo le parole di Luigi Einaudi contenute nelle “Prediche inutili” del 1956. Nell’articolo Bonetti illustra e sistematizza i programmi elettorali dei partiti in tema di immigrazione, asilo, cittadinanza. In molti casi si tratta di programmi articolati, che abbracciano diversi aspetti e questioni dell’immigrazione: dalla gestione dei flussi, ai criteri per le “quote” di accoglienza, dai divieti a costruire moschee all’abolizione del regolamento di Dublino III. Alcuni programmi costruiscono visioni di lungo periodo, altri si concentrano maggiormente sulla dimensione locale e contingente.

Di questi aspetti, nell’agenda mediatica della campagna elettorale, vi è stata ben poca traccia. All’indomani delle dichiarazioni del candidato Governatore della regione Lombardia Attilio Fontana (che auspica “la protezione della razza bianca dall’invasione di immigrati”), molti degli interventi televisivi degli esponenti politici si sono concentrati essenzialmente su tre questioni:
la sicurezza
il controllo dell’immigrazione clandestina (“emergenza clandestini”, “i migranti sono una bomba sociale”)
la gestione dei flussi migratori (controllo degli arrivi)

Dei tre è il frame della sicurezza quello prevalente: “l’emergenza sicurezza nelle città”, “immigrati e sicurezza: le proposte per aiutare i cittadini”, “allarme sicurezza: via ai rimpatri di massa”. Anche nei casi (soprattutto nei telegiornali) in cui il linguaggio appare corretto, i toni risultano pacati, gli interventi degli esponenti politici prevalentemente formali e i titoli per lo più neutrali, il frame prevalente in cui è inserito il fenomeno migratorio è quello della sicurezza-criminalità.

Connessione, quella tra immigrazione e sicurezza, che può avere l’effetto di identificare una categoria sociale da additare come responsabile del peggioramento delle condizioni di vita nelle città, con il rischio di alimentare nei confronti dei migranti una spirale di paura, allarme, diffidenza, chiusura e rabbia.

Diamo uno sguardo all’immigrazione nel racconto delle stampa.

Le parole della campagna elettorale sono “razza” e “paura”. E compare la parola “negro”.

La parola “negro” è una parola poco usata sui quotidiani italiani. Ha a che fare per lo più con le denunce di insulti razzisti pronunciati durante aggressioni verbali o fisiche, i cosiddetti virgolettati. In questi ultimi due mesi di campagna elettorale, i primi due dell’anno, quella parola è stata scritta 57 volte sui quotidiani italiani – quasi una volta al giorno.

In 59 giorni è stata scritta più che nell’intero 2015 che registra la parola “negro” 55 volte, 52 nel 2016. Nel 2017 il numero sale a 101, poco più del doppio di quante volte “negro” sia apparsa in questi due mesi prima del voto. La stragrande maggioranza delle ripetizioni è inserita in articoli che citano frasi tipo: “sporco negro, negro di m…, “venite a rubare, ad ammazzare le nostre donne…”, “ha urlato «negro di m…» ad un passeggero…”, “Io da un negro non mi faccio visitare…”, “stai zitto negro” da un avversario che poi gli rifilò un pugno”. Cronache di episodi che si ripetono e si riproducono scoprendo il volto razzista di questo Paese. Ci sono anche altre frasi sui giornali come questa: “se fossi un negro di cui l’Italia ha bisogno?”. Potrebbero aiutare a stemperare e a sdrammatizzare, ma sono in assoluta minoranza e quasi scompaiono nella rassegna stampa di questi 59 giorni.

A ridosso delle elezioni il linguaggio dei giornali si incattivisce sempre, per lo più riporta il livello e le parole del dibattito politico. L’esordio di questo dibattito, questa volta, è affidato ad un’altra parola: “razza”. Ci riporta indietro nel tempo di ottanta anni il candidato leghista alla regione Lombardia che parla di “razza bianca a rischio” e dà il via ad una discussione che a lui garantisce una visibilità insperata, e inasprisce una discussione già violenta nei termini, focalizzata sui temi sicurezza e immigrazione.

La parola razza è stata usata: 155 volte. Su 59 giorni fa 2 volte al giorno. Ma la parola più scritta sui giornali di questi 59 giorni è “paura”, 334 ripetizioni, che si intensificano e quasi raddoppiano dopo il 30 gennaio, dopo i fatti di Macerata: l’orribile omicidio di Pamela Mastropietro per cui sono tratti in arresto 4 spacciatori di origine nigeriana e la tentata strage commessa da Luca Traini. “La gente ha una paura indeterminata legata alla crescente immigrazione”, “l’immigrazione fa paura”, “la paura dello straniero è salita”, “la paura verso gli stranieri”, “di insicurezza, di paura, di degrado, di povertà che i cittadini vivono ogni giorno”. Ci sono anche altre paure in questo elenco: “paura di perdere le elezioni”, “ha fatto paura ai mercati…”, “la Callas aveva paura del palco”, “Non abbiamo paura dei padroni”. Paure diverse che sono però in grande minoranza e, soprattutto, si concentrano a gennaio, prima dell’omicidio di Macerata.

Ritorna anche la parola “clandestino”, ripetuta per 41 volte. Ci sono parole che compaiono molto poco nonostante si parli prevalentemente di omicidi. Come la parola “assassino” che compare solo 31 volte. “Omicida” appena 15 e solo due riferite ai fatti di Macerata. “Nigeriano” invece compare ben 180 volte. La parola “Mafia nigeriana”, compare a gennaio una sola volta su Libero in relazione ad un articolo che parla di tratta. Poi a febbraio, dopo l’omicidio di Pamela, altre 14 volte. Sono soprattutto Il Giornale, La Verità e Libero ad usarla. Libero ha un altro primato: non scrive mai la parola “mafia“, in senso italiano del termine, in prima pagina. E neanche la parola “ndrangheta” che non compare neanche il 2 marzo quando la cronaca racconta di sette italiani arrestati in Slovacchia per l’assassinio del giornalista di inchiesta Jan Kuciac. Una notizia che hanno in prima pagina tutti i giornali, tranne Libero che titola “I treni non vanno, i profughi vengono”.

I fatti di Pavia avvenuti alla vigilia delle elezioni (Pavia – antifascisti ‘marchiati’ con adesivo sulla porta di casa) sono una ulteriore conferma di questo clima politico polarizzato in cui la rabbia può prendere il sopravvento.

Così scriveva Giorgio Gaber nel 1976/1977 nella canzone “Le elezioni”:
È proprio vero che fa bene
un po’ di partecipazione
con cura piego le due schede
e guardo ancora la matita
così perfetta è temperata…
io quasi quasi me la porto via.
Democrazia!

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