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Saman tra percezioni, media e realtà

Di Sabika Shah Povia e Paola Barretta in Riforma.it

Un fatto di cronaca che rischia di appiattire l’immagine di una comunità solo sulla cronaca nera. La realtà complessa che vivono le seconde e terze generazioni di immigrati

Saman Abbas è scomparsa – e forse è stata uccisa – il 29 aprile a Novellara (in provincia di Reggio Emilia) dopo essersi opposta a un matrimonio combinato e imposto dalla sua famiglia. Una famiglia con un livello di bassa alfabetizzazione e proveniente da un villaggio del Pakistan rurale, dove gli uomini e molto spesso le comunità decidono per le donne. Dove una donna che si ribella è una donna pericolosa e va fatta tacere, perché potrebbe spezzare schemi patriarcali, tribali, consuetudinari. E magari, diventare un esempio per altre donne cercando di far valere il proprio diritto, quello di poter scegliere.

Saman viveva in Italia da almeno sei anni e dunque in una realtà molto lontana e diversa da quella del Punjab. Suo padre era emigrato dieci anni fa. Saman aveva capito che si poteva vivere diversamente e aveva compreso anche quanto la volontà dell’individuo, di ogni individuo, possa contare più di quella di una comunità.

La foto di Saman con il velo nero stretto intorno al viso è sparita presto dal racconto mediatico lasciando spazio alle immagini raccolte dalle pagine dei suoi profili social e nelle quali Saman aveva i capelli sciolti e indossava i jeans. Foto che potevano sembrare quelle di ogni ragazza italiana, ma che appartenevano a un’adolescente che di italiano aveva il nick-name: “Italian girl”. Nei numerosi talk show a lei dedicati, si è parlato molto di lei, come di “una di noi”. Ora che non c’è più, però, è troppo facile farlo. Ma quando era tra noi e indossava il velo, Saman era semplicemente una straniera.

Straniera non per il suo nome, ma anche perché era considerata diversa. Quello che i media e i talk show non hanno raccontato è che Saman non voleva rompere i rapporti con la sua famiglia, con la sua religione con le sue tradizioni. Voleva semplicemente conquistare la sua libertà: quella di poter scegliere, di poter dire di no. Se avesse scelto di rompere i rapporti famigliari, non sarebbe tornata a casa con la speranza di riconciliare il suo mondo e quello della sua famiglia e non avrebbe scelto di fidanzarsi con un altro giovane pakistano.

Questi elementi sono sufficienti per farci comprendere quanto Saman non appartenesse tout court alla cultura dei suoi genitori e neanche completamente a quella italiana. Saman, come tutti e tutte coloro che fanno parte delle seconde e terze generazioni, si trovava a camminare lungo un confine, in un precario equilibrio tra le diverse realtà che la circondavano.

Si è parlato tanto della comunità pakistana (circa 150.000 persone in Italia), ma anche della comunità musulmana (più di 2 milioni di persone), ma si è parlato poco di quella comunità nella quale Saman cercava di integrarsi e che non l’ha mai abbracciata del tutto. Maschilismo e valori patriarcali, lo ricordiamo, attraversano diverse comunità e paesi (Italia inclusa). Una visione univoca e riduttiva, dunque, non permette di affrontare il problema in maniera costruttiva e risolutiva, ma si limita a evidenziare tratti elementari, ad alimentare una banale retorica del “noi” moderni e civilizzati contro i “loro”, retrogradi e patriarcali.

E, mentre le indagini proseguono, il caso di cronaca segue il suo corso nella comunicazione che racconta e propone i suoi schemi: i quotidiani e i notiziari del prime time dedicano almeno 1 titolo/1 notizia al giorno; anzi, in alcune giornate al servizio di taglio cronachistico si affianca un approfondimento sui diritti delle donne in Pakistan, sulle usanze tribali, sulle analogie con casi simili avvenuti in passato. Complessivamente 20 articoli sui principali quotidiani e 15 servizi nei notiziari di prima serata (Fonte: Rassegna della Carta di Roma e dati dell’Osservatorio di Pavia).

«Dobbiamo dire no, no e un’altra volta no e dobbiamo arrivare a una giustizia», commenta in un’intervista il rappresentante della comunità pakistana di Carpi. L’ambasciatore pakistano in Italia ricorda che «i valori sociali, le leggi, la religione in Pakistan proibiscono severamente qualsiasi forma di violenza sulle donne».

La permanenza della generalizzazione spesso si estende dal reato alla comunità collocando la vicenda nel fotogramma che potremmo definire di “etnicizzazione” della notizia. Ovvero, nello stabilire un nesso tra le ragioni dell’omicidio (presunto) di Saman, non tanto con la violenza di genere e la sopraffazione dell’uomo, ma con l’appartenenza a una comunità caratterizzata per l’uso della pratica. Il che significa raccontare pratiche di negazione dei diritti delle donne (tra i quali i matrimoni forzati) o casi di violenza di genere, contestualizzandoli agli eventi specifici.

Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, in un editoriale ha ricordato la capacità di inclusione dell’Italia e quella di costruzione di una «cultura civile che è stata il tratto caratteristico più bello delle nostre comunità». Proprio quell’inclusione che aveva consentito a Saman, prima del compimento dei 18 anni, di vivere in una comunità protetta, al riparo dalle coercizioni familiari.

Foto in evidenza di Riforma.it

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