Site icon Associazione Carta di Roma

Islam in Italia: un momento cruciale per il dialogo

L’islam in Italia: falsi miti e pluralità. Su Unimondo gli elementi emersi durante il seminario del 6 luglio

Rilanciamo l’articolo scritto da Anna Toro per Unimondo in cui si affronta il tema dell’islam in Italia a partire dagli elementi forniti durante il seminario organizzato da Carta di Roma il 2 luglio.

Islam in Italia: un momento cruciale per il dialogo

Di Anna Toro

Quando si parla di islam a regnare è soprattutto l’allarmismo e la paura, anche in Italia. Complici i media e la politica, sui musulmani presenti nel nostro paese si fa spesso molta confusione, in un dibattito – se di dibattito si può parlare – fortemente condizionato dal contesto internazionale, in cui si mettono in un unico calderone gli immigrati, la religione, la cittadinanza, gli attentati, il disagio sociale, l’Isis, il radicalismo. Se molti giornalisti su un certo tipo di disinformazione ci “hanno costruito delle carriere”, l’associazione Carta di Roma ha da tempo cominciato un percorso opposto che, con l’aiuto di esperti, invita gli operatori dei media ad una formazione e riflessione più approfondita su questi temi così delicati, “fenomeni che stanno contribuendo a trasformare la realtà sociale e religiosa italiana e, più in generale, europea”. Al di là di facili buonismi – l’Isis esiste, così come gli attentati di matrice jihadista – ma anche di mere semplificazioni che possono arrecare danni irreparabili nel nostro paese, specie in un momento così delicato in cui, come ha spiegato il sociologo e ricercatore Bartolomeo Conti durante uno di questi incontri, «molte delle scelte che si faranno nei prossimi anni determineranno il ruolo dei musulmani presenti nel nostro paese: il rifiuto o l’accettazione».

In Italia, infatti, si stima la presenza di circa un milione e settecentomila musulmani, provenienti da tutto il mondo: Europa dell’Est, Maghreb, Sahara, Medio Oriente, Africa subsahariana e Asia. «Dal ’73 molti immigrati hanno iniziato a capire che nei loro paesi d’origine non sarebbero più tornati – spiega Stefano Allievi, docente di Sociologia all’Università di Padova – Da quel momento, se prima vivevano la dimensione religiosa per lo più privatamente, cominciano a crearsi le comunità, i luoghi di preghiera, le scuole. In quel momento di crisi anche economica, almeno la loro cultura e religione rimaneva un punto fermo». Un islam plurale, che riflette la varietà delle provenienze geografiche, instaurandosi però in un paese monopolizzato dal cattolicesimo. «Eppure proprio la Chiesa ha svolto e continua a svolgere un ruolo moderante rispetto al linguaggio politico e mediatico – continua Allievi – Come se avessero una sorta di grammatica religiosa in comune, ne ha capito le esigenze, mettendo a disposizione edifici per la preghiera e schierandosi con determinate cause. Questo è accaduto in tutta Europa».

La vera sfida, infatti, non è con le altre religioni ma con lo Stato e le istituzioni, spesso impreparate e inerti di fronte a questi cambiamenti in atto. Basti pensare che, nonostante l’islam sia la seconda religione in Italia, non esiste ancora un’intesa. È successo invece che più le comunità musulmane crescevano, più venivano spostate dal centro verso le periferie. «Più diventavano invisibili, più c’era la tendenza a espellerli e a vederli come “altro”. E a perderne il controllo – illustra Bartolomeo Conti, che su questi temi ha svolto numerose ricerche e progetti sul campo – Ma anche ai musulmani andava bene, a loro interessava stare per conto proprio». Fino a una vera e propria rottura dei legami, com’è successo ad esempio a Bologna. «Oggi però molte persone chiedono di tornare in città, di partecipare e riannodare i rapporti anche con le istituzioni le quali, dal canto loro, spesso non sanno nemmeno chi siano i loro interlocutori né dove sono e cosa facciano, non forniscono risposte né quadri giuridici chiari».

Conti, che vive e lavora tra Parigi e l’Italia, il pericolo di un’eccessiva ghettizzazione lo conosce bene. «In Francia – spiega – molti giovani musulmani figli di immigrati di terza, quarta generazione dicono: “je ne suis pas francais”, non sono francese. Si riconoscono invece in un Islam delle origini mitizzato e in parte inventato, o nel paese dei genitori che non hanno mai visto. Sentendosi ghettizzati e rifiutati, sviluppano a loro volta un rifiuto della società in cui vivono». In questi casi il radicalismo religioso ha terreno fertile. Tra i nuovi arrivati, poi, moltissimi sono coloro che da laici e non praticanti hanno riscoperto la fede proprio nel paese di accoglienza, cominciando a frequentare moschee, associazioni o organizzazioni religiose e politiche: fenomeno presente anche in Italia, come ha riscontrato la sociologa Alessandra Caragiuli, che nel suo libro “L’Islam Metropolitano” ha raccolto l’esperienza di 5 anni di ricerche sull’islam a Roma. «Il mito da sfatare – spiega – è che non arrivano a convertirci e ad imporre la loro fede, ma che qui trovano nell’islam un proprio sentire comune». Infine ci sono coloro che da tempo chiedono di essere riconosciuti come cittadini italiani di religione islamica: ragazzi delle seconde generazioni, che vanno a scuola, conoscono il Corano e per i quali la religione è una scelta consapevole. «È la più grande attesa di questa generazione, che sta cambiando» spiega Conti. Se c’è chi si radicalizza, a regnare è soprattutto l’ansia di capire come poter vivere serenamente la propria religione, che nel Corano presuppone la maggioranza, in una società laica dove maggioranza forse non lo saranno mai, individuare cosa è lecito (halal) e cosa non lo è (haram), abbracciare un’ “interpretazione” dell’islam nel pluralismo dell’immigrazione.

Il livello di integrazione, in ogni caso, varia di città in città: a Firenze, ad esempio, dove la moschea è rimasta al centro e chi la guida è conosciuto in città, i soliti attriti e le polemiche per l’edificazione di un nuovo luogo di culto sono stati più limitati che altrove. «È più un problema di percezione, e per ragioni serie come la geopolitica e il terrorismo – spiega Allievi – Usiamo degli schemi comunicativi, da Salman Rushdie a Charlie Hebdo o Theo van Gogh, o degli indicatori, come l’utilizzo del velo, che sono errati, e spesso chiediamo ai musulmani delle pratiche specifiche che non chiederemmo mai ad altre religioni». I media, in questa percezione, hanno delle responsabilità importanti. Se la giornalista Francesca Paci conferma «la grande adrenalina in redazione appena arrivano le notizie sull’islam», afferma che proprio per questo c’è bisogno di un’attenzione maggiore a livello comunicativo: «Si sta creando un divario tra comunità che precedentemente convivevano, una divisione del tipo noi/loro, in un momento pericoloso» commenta, aggiungendo come gli stereotipi ormai abbondino da entrambe le parti. Da una riforma del linguaggio, quanto mai necessaria, la palla passa poi alle istituzioni e ai cittadini, cercando contemporaneamente di insistere sull’universalità dei diritti. Come afferma il sociologo Conti: «Se il dibattito internazionale è contaminato, è a livello locale che si possono dare le risposte e iniziare a costruire. Per alcuni musulmani questo mettersi in gioco è insostenibile, ma si può e si deve iniziare con quella parte che invece lo chiede da tempo».

Anna Toro

Exit mobile version