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La Padania e i “clandestini”

La Padania rivendica il diritto a usare un termine giuridicamente scorretto, “clandestino”

Venerdì 11 aprile il quotidiano La Padania (www.lapadania.com) pubblica in prima pagina il titolo provocatorio «Continuiamo a chiamarli clandestini», in risposta al lavoro di monitoraggio antidiscriminazioni svolto dall’associazione mantovana Articolo 3 – Osservatorio sulle discriminazioni.
 
La direttrice responsabile della testata, Aurora Lussana, scrive nell’editoriale: «Nello scorso mese di febbraio, in redazione, è giunto un report relativo alla nostra testata […] dal titolo “Monitoraggio antidiscriminazioni della stampa lombarda” […] Gli articoli e titoli incriminati sono una quindicina. L’accusa rivolta alla Padania è di fornire una visione distorta dell’immigrazione e di ingenerare allarmi ingiustificati alimentando una visione stereotipata e fuoriviante. […] A chi vorrebbe sopprimere il nostro spazio di critica e opposizione ecco ripubblicati tutti i titoli incriminati dai custodi della morale filoimmigrazionista. Perché ciò che è davvero insopprimibile è il nostro dovere di informarvi». Seguono i titoli promessi, affiancati da un articolo a firma di Andrea Accorsi, nel quale l’autore si interroga sulla correttezza di quello che definisce un «attacco alla Padania»: «Ohibò, cosa avremo mai scritto di così grave? Poco o nulla. Ad esempio, ci viene contestato di usare la parola “clandestino” per indicare gli immigrati irregolari».
 
Torniamo quindi a ricordare che la Carta di Roma, codice deontologico nato per volontà del Consiglio nazionale dell’Odg e della Fnsi, basato su principi già contenuti nella Carta dei doveri del giornalisti, invita tutti coloro che esercitano la professione ad adottare termini giuridicamente appropriati e a evitare la diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte riguardo a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti. È necessario, quindi, rispondere ad articoli come quelli sopracitati spiegando ancora una volta perché, per esempio, è sbagliato ricorrere all’uso della parola clandestino e, soprattutto, perché il lavoro di monitoraggio antidiscriminazione deve essere considerato uno strumento di supporto e non un ostacolo al “dovere d’informare” di ogni testata.
Il termine clandestino è, giuridicamente, scorretto. Non solo: il termine clandestino non esiste. Non è presente del testo della legge Bossi-Fini, né nel testo unico sull’immigrazione che all’articolo 10bis disciplina “l’ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato”, senza mai riportare la parola clandestino o clandestinità; non è  menzionata neppure nel pacchetto sicurezza che ha introdotto tale reato o nel testo che lo ha in parte abrogato. Tale reato, infine, è stato bocciato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza El Dridi, 2011), perché in contrasto con la direttiva europea sui rimpatri. Non esiste, dunque, una giustificazione giuridica dell’uso di “clandestino”. Se all’uso della definizione corretta (e ormai nota per gli addetti ai lavori) “migrante irregolare” continua a essere preferita da molti la parola “clandestino” è per l’accezione negativa a essa associata. Pertanto, il giornalista che ricorre a tale termine cade in errore, scrive un’inesattezza, consegnando al lettore un’informazione sbagliata. Eppure ha la possibilità di esprimere lo stesso concetto in modo appropriato.
Sarebbe difficile non accorgersi che, come sottolinea nel suo pezzo Andrea Accorsi «la Padania è per sua stessa natura un giornale di parte, meglio di partito, e quindi offrire “un solo punto di vista”, ovvero quello del Movimento del quale è organo ufficiale, è proprio la sua mission»; la Carta di Roma e le azioni di monitoraggio a essa legate non contestano la volontà di dare un taglio ideologico ai contenuti, ma la forma in cui ciò avviene: dal momento in cui una pubblicazione decide di diventare una testata giornalistica a tutti gli effetti, per poter acquisire la credibilità e lo status che a questa sono accordati, diviene un suo dovere – e non un vezzo – fare propria anche la deontologia professionale, pur continuando a esprimere lo stesso punto di vista.
È questo lo scopo delle azioni di monitoraggio, che la stessa associazione Carta di Roma porta avanti: evidenziare gli errori per far acquisire consapevolezza e per responsabilizzare (missione ben diversa da quella della sensibilizzazione) chi svolge la professione giornalistica, affinché preferisca fare della buona informazione la cui forza sia basata, al di là di ogni ideologia, sulla correttezza dei contenuti e non sulla distorsione della verità e sul sensazionalismo.
I pezzi della Padania sopracitati si possono consultare qui:  
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