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Migranti e rifugiati: il potere politico delle immagini

Jane Lydon, docente australiana, riflette su quanto le fotografie possano favorire o sfavorire l’empatia nei confronti degli immigrati e sul loro uso strumentale

“Negli ultimi due decenni – scrive Jane Lydon, docente di Storia presso l’Università dell’Australia occidentale – abbiamo visto una politicizzazione dell’immigrazione senza precedenti”: con la fine della Guerra fredda l’Australia ha lavorato per rendere sempre più impenetrabili i suoi confini, fino a giungere alla situazione attuale che prevede il “Migration Program” per i migranti (fino a 190mila posti all’anno) e l'”Humanitarian Program” per i rifugiati (13.750 posti tra il 2016 e il 2017). A tale politicizzazione è corrisposto un cambiamento nel modo di mostrare l’immigrazione attraverso le immagini,

David Moore ritrae l’arrivo di migranti a Sidney nel 1966. Foto esposta nell’Art Gallery of NSW © Lisa, Michael, Matthew and Joshua Moore

osserva Lydon. In passato, come nella foto-emblema di David Moore che mostra i migranti in arrivo a Sidney, le immagini consentivano di provare empatia, di sentire le paure e le speranze dei nuovi arrivati; oggi, invece, il governo australiano sembra non apprezzare le fotografie di questo tipo: “in apparenza per il timore che tali immagini inducano empatia e minino le politiche di frontiera – nota la docente – Da quando i richiedenti asilo sono visti come una minaccia alla sicurezza, la politica sui rifugiati è stata militarizzata, spostando l’attenzione dalla situazione di coloro che tentano di raggiungere l’Australia al presunto pericolo che costituiscono per il nostro stile di vita“.

L’esempio più recente di una foto che ha inciso profondamente sull’opinione pubblica in Europa, arrivando a cambiare la rappresentazione dell’immigrazione dai parte dei media nei mesi successivi alla sua pubblicazione e influenzando persino il dibattito dell’Unione europea, è quella di Aylan Kurdi.

Lydon nella sua analisi riporta due episodi particolarmente significativi e interessanti del panorama australiano.

Il caso Tampa

Il primo è quello che vede protagonista la Tampa, nave norvegese che nell’agosto del 2001 soccorse in mare 438 persone, in maggioranza rifugiati afgani, a circa 4 ore dall’Isola di Natale. L’Australia non diede il permesso di attraccare e lo stesso fece l’Indonesia. La Tampa entrò allora in acque australiane senza permesso, scatenando l’intervento militare e alla fine i rifugiati furono portati nella piccola repubblica di Nauru. La comprensione dei fatti, avvenuti così lontano dagli occhi dei cittadini australiani, passò ovviamente per i media.

I ricercatori dell’Università del Queensland hanno esaminato la rappresentazione visuale dell’episodio sulle prime pagine di due quotidiani importanti: l’Australian e il Sydney Morning Herald. Nel 42% dei casi le immagini mostravano le barche in lontananza, con i richiedenti asilo in gruppo, come una massa. Solo il 2% delle foto immortalava i rifugiati mostrandoli come singoli individui. Gli studiosi hanno concluso che una tale rappresentazione disumanizzasse i migranti, amplificando invece la visione dei rifugiati come “problema” che richiedeva misure di sicurezza e controllo delle frontiere.

L’affare “Children Overboard”

Un secondo episodio significativo si verifica nell’ottobre dello stesso anno: il cosiddetto “children overboard affair“. Il 7 ottobre, a pochi giorni dalle elezioni politiche una nuova imbarcazione con oltre 200 rifugiati a bordo arrivò nei pressi dell’Isola di Natale e venne soccorsa dalle autorità australiane. L’allora governo affermò in conferenza stampa che i richiedenti asilo a bordo avevano minacciato di gettare i bambini in mare per forzare il salvataggio, mostrando come prova una foto nella quale dei giovanissimi profughi erano in acqua.

Una giornalista, tuttavia, osservò che la foto non provava nulla: mostrava, sì, dei bambini in acqua, ma non che vi fossero stati gettati. Emerge così una versione alternativa che mette in dubbio quella del governo, secondo la quale la foto era stata scattata in seguito al naufragio della barca. Il Senato, che aprirà un’inchiesta, concluderà che lo scatto risaliva all’8 ottobre, in seguito, appunto, al naufragio della stessa imbarcazione. 

In seguito a l’incidente “children overboard” il Governo, tuttavia, varò una nuova iniziativa di controllo delle frontiere (Operation Relex) che prevedeva uno stretto controllo sulla circolazione di informazioni e immagini.

Durante l’indagine condotta dal Senato, il direttore generale delle strategia di comunicazione della Difesa testimoniò che il ministro del suo dicastero aveva esplicitamente istruito il personale ordinando di “non umanizzare i rifugiati”. Il Senato concluse che con tale piano si intendeva acquisire il controllo assoluto dei fatti “per assicurare che nessuna immagine che potesse plausibilmente far guadagnare simpatia” nei confetti dei rifugiati, “o causare diffidenza nei confronti del nuovo e aggressivo regime di controllo della frontiera” fosse pubblicata.

Dalla rappresentazione mediatica alla politica

Le conseguenze, sul piano politico, di tali fatti e in particolar modo del caso “children overboard” non tardarono ad arrivare: venne stabilita la “Pacific Solution”, che vedeva istituire nelle isole di Nauru e Manus i centri dove portare avanti le pratiche per le richieste di asilo. Manus fu chiuso temporaneamente nel 2007, per poi essere riaperto con l’intensificarsi dei flussi nel 2012.

Le immagini che danno un volto alla sofferenza dei richiedenti asilo sono diventate un elemento importante della contro-narrativa in Australia. Questa foto è stata scattata da Barat Ali Bator, rifugiato afgano, a bordo della barca sulla quale stava tentando di raggiungere l’Australia. Nel 2013 è stata premiata come foto dell’anno dal Nikon-Walkley Award.

I centri, lontani dalle coste australiane, col tempo sono diventati sempre più difficili da raccontare: i controlli nel 2014 furono rafforzati e nel 2015 divenne illegale riportare quanto accadeva all’interno del centro di Manus Island. Passo ulteriore di un processo avviato nel 2011 con l’emanazione di una politica sui media da parte del Dipartimento Immigrazione che aveva l’obiettivo di controllare l’accesso della stampa ai richiedenti asilo: un punto centrale riguardava l’uso delle foto e, in particolare, il divieto di mostrare i volti dei rifugiati per proteggerne l’identità.

Se, da una parte, gli esperti ribadiscono l’importanza delle implicazioni etiche della pubblicazione di fotografie sui rifugiati, che devono tutelare la dignità della persona e garantirne l’incolumità, dall’altra ci si interroga sulla strumentalizzazione che il governo australiano fa di tale etica, finendo per cancellare dal racconto mediatico la sofferenza dei richiedenti asilo. Al racconto “empatico” è sostituito quello della minaccia, giustificando così politiche aggressive di chiusura.

Tanto che le foto in cui i rifugiati vengono “umanizzati” sono diventate una forma di contro-narrativa. E il loro potere “politico” è forte: basti pensare che la foto di Aylan è arrivata a incidere sul dibattito pubblico persino in Australia, dove per una settimana i rifugiati sono divenuti protagonisti di quotidiani, radio e tv. In seguito alla sua diffusione le pressioni di elettori e rappresentanti portarono il primo ministro a stanziare 44 milioni di dollari in aiuti umanitari per i rifugiati nei campi e all’annuncio del reinsediamento in Australia di 12mila rifugiati da Siria e Iraq.

Per l’articolo di Jane Lydon clicca qui.

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