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E adesso con il reato si abolisca anche la parola “clandestino”

Carta di Roma: il “clandestino” non esiste. Abolire l’uso di un termine scorretto

Negli ultimi due giorni i media hanno dato ampio risalto alla notizia della definitiva abolizione del reato di “clandestinità”. Titoli più o meno enfatici e articoli più o meno lunghi hanno reso conto dell’atto parlamentare. Ma, come spesso accade, ai lettori viene raccontata nel dettaglio la sequela di dichiarazioni e slogan politici e poco si è scritto e informato i lettori  sull’efficacia e legittimità della misura.

Vale la pena ricordare che, come scrivemmo in occasione del primo passaggio parlamentare al Senato, il clandestino non esiste. La parola non è presente nel testo della legge Bossi-Fini, né nel testo unico sull’immigrazione che all’articolo 10 bis disciplina il cosiddetto reato di clandestinità, ma non usa mai questo termine, definendolo invece: “Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato”.

Neppure il reato di clandestinità è menzionato come tale nel pacchetto sicurezza (n.94 15/07/2009) che lo ha introdotto e nel testo legislativo recente che lo ha in parte abrogato.

Non esiste quindi una giustificazione giuridica per il suo uso e abuso da parte della politica in primis e dei media poi. Ma proprio alla stregua di altre parole che hanno connotato gli immigrati, vedi “vu’ cumprà” e altri, finisce per diventare di senso comune tanto che talvolta sembra insostituibile.
I dati ci insegnano che molti dei cosiddetti “clandestini” sono “overstayers“, ossia stranieri che, entrati nel paese regolarmente, restano dopo la scadenza del visto o dell’autorizzazione al soggiorno.

Inoltre sappiamo bene che l’adozione del provvedimento penale per chi entra e soggiorna senza documenti validi sul territorio non ha fermato i flussi migratori.  La misura si è rivelata inefficace e inutilmente dispendiosa per rilevare e contrastare l’irregolarità della presenza.

Ricordiamo anche che il reato di clandestinità è stato bocciato dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea con la sentenza El Dridi del 2011, perché in contrasto con la direttiva europea sui rimpatri. “Emigrare non può essere considerato un crimine da punire con il carcere”, viene detto nella sentenza.

I recenti numerosi sbarchi e salvataggi in mare rischiano di alimentare una nuova retorica politica sulle conseguenze dell’abolizione del reato come misura che incentiverebbe i flussi verso il nostro paese. Nel nome dell’indipendenza e della qualità del lavoro giornalistico è necessario oggi più che mai far capire che nel caso degli ultimi arrivi via mare si tratta per la stragrande maggioranza di persone in fuga da guerre e dittature. Distinguere quindi i migranti economici irregolari dai richiedenti asilo o profughi, che dir si voglia, appare più che mai fondamentale e cruciale per una reale aderenza alla verità sostanziale dei fatti.

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