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“Tutti loro hanno delle storie, non sono numeri”

Le riflessioni di due reporter che hanno camminato a fianco dei rifugiati dalla Turchia alla Germania

«A Thousand Miles In Their Shoes». Questo il nome del reportage del World Post realizzato da Sophia Jones (corrispondente dal Medio Oriente) e Hiba Dlewati (reporter siriana-americana), che hanno attraversato Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria e Germania per raccontare il viaggio dei rifugiati. E come ben sanno giornalisti, producer e cameraman che lavorano su temi sensibili o in aree calde, il bagaglio portato a casa dopo alcune esperienze sul campo va oltre il prodotto finale. È quello che accade ogni giorno alle decine di professionisti che assistono – nei suoi numerosi e diversi momenti, elementi e luoghi – alla crisi umanitaria che vede protagonisti i rifugiati. Non è stato diverso per Jones e Dlewati, che raccontano in un’intervista-dialogo l’esperienza vissuta da un punto di vista più personale.

Ne pubblichiamo di seguito la traduzione (l’originale è disponibile qui).

Cosa hanno imparato due reporter dal “cammino dei rifugiati” verso l’Europa

Di Sophia Jones

Sophia: «È passato circa un mese da quando abbiamo lasciato la Germania dopo aver camminato lungo lo stesso percorso dei rifugiati, a partire dalla Turchia. Come ti senti?».

Hiba: «Vorrei essere ancora lì. La rotta può essere modificata, ma altre persone saranno costrette a tentare di raggiungere l’Europa, finché le ragioni alla radice che le spingono a partire non cambieranno. Tutti loro hanno delle storie. Non sono solo numeri».

«Cosa ti ha spinto a voler realizzare questo reportage?».

S: «Due anni fa sono entrata in una prigione di Alessandria, in Egitto e ho intervistato una madre siriana che aveva appena provato a imbarcarsi su un peschereccio diretto in Italia. Era affondato poco dopo la partenza, facendole compiere una scelta impossibile: quale delle tre figlie salvare? Solo una è sopravvisuta. Quella storia mi ha davvero colpita. Negli scorsi anni, quando il numero di siriani e di altri rifugiati e migranti che provano a chiedere asilo in Europa è cresciuto esponenzialmente, mi sono sentita in dovere di portare la mia testimonianza. E quando ti ho sentita parlare di come avresti voluto percorrere lo stesso cammino dei rifugiati verso l’Europa sapevo, senza dubbi, che dovevamo farlo».

«Come credevi che sarebbe stato? Cosa è stato diverso rispetto alle aspettative?».

H: «Dopo aver trascorso molto tempo parlando con amici che avevano già intrapreso questo viaggio, pensavo di sapere cosa dovermi aspettare: nulla va come pianificato. Sono rimasta sorpresa, nonostante ciò, quando la Macedonia ha chiuso la frontiera per alcune notti, lasciando migliaia di persone intrappolate in un’area senza acqua, cibo o aiuti e senza nessuna risposta su quando avrebbero potuto attraversare il confine. Le persone dormivano sui binari del treno, c’erano fuochi da campo ovunque e tanti bambini abbandonati lì, così. Non potevo credere che quello a cui stavo assistendo stesse accadendo in Europa e non in una zona di guerra».

«C’è stato un momento che ti ha colpito più degli altri?».

S: «Sono tanti i momenti del viaggio memorabili. Ma uno, in particolare, emerge: quando abbiamo intervistato quella incredibile coppia greca, Giorgos Tyrikos Ergas e Katerina Selacha nella loro casa a Kalloni. Giorgos mi ha raccontato di sua nonna, che era fuggita dalla Grecia nel 1943 durante la seconda Guerra mondiale, raggiungendo la città turca di Bodrum. Da lì aveva camminato per 800 miglia fino ad Aleppo, dove aveva vissuto con una famiglia siriana. Oltre 70 anni dopo, lui e sua moglie dedicano gran parte della loro vita ad aiutare i rifugiati  per “ripagare” quel “debito”.

Oggi la mia famiglia è al sicuro, negli Stati Uniti, ma chi sa cosa potrà accadere in futuro? Se un giorno dovessimo diventare rifugiati, spero che la gente apra cuori e case come Giorgos e Katerina».

«Cosa mi dici invece di te? Qual è stato per te il momento più forte?».

H: «Tanti. Penso che il momento che mi ha scosso di più è stato una delle notti a Mytilene. Dopo un’altra lunga giornata trascorsa nel campo di Karatepe, senza novità sullo status di chi vi si trovava, Taha e Abu Karim – due uomini siriani di Homs – hanno deciso di andare alla stazione di polizia per chiedere dei loro documenti. Un poliziotto in precedenza mi aveva detto di fare così. Dopo essere stato maltrattato, essersi fatto urlare contro ed essere stato fisicamente cacciato via dal porto, Taha mi ha chiesto: “Saremo sempre umiliati in questo modo?”».

«Ti sei mai spaventata?».

S: «Quella stessa notte. Quando quel poliziotto in borghese è venuto urlando da me, in mezzo a una folla di rifugiati che imploravano per ottenere i loro documenti, e mi ha presa per un braccio. Temevo che avrebbero potuto arrestarci, ma ero più preoccupata per il fatto che i rifugiati siriani che erano con noi quella notte potessero essere puniti in qualche modo. Quando il poliziotto mi ha chiesto se conoscessi Taha e Abu Karim avrei potuto dire lui che volevano denunciare l’aggressività dell’agente. Ma i due siriani era terrorizzati all’idea che potessero far del male alle loro famiglie in qualche modo. Sono così contenta che siano riusciti a lasciare l’isola sani e salvi e a raggiungere, infine, la Germania».

«Quale impatto pensi che il tuo essere siriana, ma anche americana, abbia avuto sui tuoi rapporti coi rifugiati che abbiamo intervistato e coi quali abbiamo viaggiato lungo la rotta?».

H: «Provo un misto di senso di colpa e rabbia per il fatto che questo viaggio per me sia stato così diverso, per un semplice pezzo di carta che mi è stato dato alla nascita. Probabilmente sarei ancora lì, se non fossi americana, in circostanze molto diverse. Penso che parlare la lingua, come l’aver vissuto in Siria, rendano le interazioni molto positive, così come più semplice è scherzare, comprendere le frustrazioni e creare un legame. Dovevo ricordare costantemente a me stessa di essere una privilegiata e di non prendere la situazione alla leggera o di non prenderla sul personale se qualcuno ce l’avesse avuta con me. A ogni modo, tutte le persone con cui abbiamo viaggiato mi hanno fatto sentire benvoluta.

Ho lasciato la Siria con la mia famiglia tre anni fa, ma essendo americani siamo andati dritti negli Stati Uniti. Sono tornata in Medio Oriente subito dopo la laurea, principalmente perché pensavo che se avessi voluto scrivere su questa area, sarebbe stato meglio trovarvisi. Inoltre in Turchia c’è una grande comunità siriana. Sono stata in grado di trovare qualcosa che mi facesse sentire un po’ come a casa ed è la cosa più vicina alla Siria che posso avere ora.

Il giorno in cui mi è pesato di più il fatto di essere siriana e allo stesso tempo coprire questa storia è stato quando siamo tornate al confine tra Grecia e Macedonia, dopo la chiusura della frontiera da parte di quest’ultima. Continuavo a pensare: ci sono almeno 4mila persone che hanno un bisogno disperato di aiuto intrappolate nel mezzo del nulla, in piena notte; voglio fermarmi per chiedere loro come si sentono. Ma appena siamo arrivate mi hanno detto: “Sappiamo che non hai aiuti. Va bene. Vieni qui e permettici di raccontarti le nostre storie”. Mi sono sentita così umiliata. Non so come avrei reagito se fossi stata in loro».

«Cosa ti hanno insegnato i rifugiati coi quali abbiamo viaggiato?».

S: «A bordo del treno preso in Ungheria con Dlava e Azadeen, la copia siriana di Kobane, è accaduto qualcosa di incredibile appena prima di entrare in Germania. Dlava, che aveva in mano l’ecografia del bambino che portava in grembo, ha guardato Azadeen sospirando: “L’amore rende la vita luminosa”. Ero così sbalordita per la loro tenacia, per il loro calmo e feroce amore che li aveva guidati attraverso l’inferno. Quando tutto il resto ti è portato via, tutto ciò che resta e tutto ciò che conta, secondo me, è l’amore. Dlava me lo ha mostrato».

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