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Ecoprofughi: i migranti forzati invisibili. Intervista a Valerio Calzolaio

Chi sono i profughi ambientali? Perché la definizione “migranti economici” è fuorviante? L’intervista all’esperto

Catastrofi ambientali e cambiamenti climatici ne generano una media di 20 milioni ogni anno: sono gli ecoprofughi. Nonostante la loro presenza costituisca un fenomeno vasto e documentato, i profughi ambientali continuano a non essere riconosciuti a livello giuridico e sono spesso ignorati dai media, che raramente trattano in modo accurato la loro condizione.

Una delle ragioni per cui è dedicato loro così poco spazio, a livello mediatico, è rilevabile nella poca attenzione verso il linguaggio utilizzato per riferirsi alle migrazioni.

A spiegarlo è Valerio Calzolaio, giornalista e scrittore, autore di “Ecoprofughi. Migrazioni forzate di oggi, di ieri e di domani” (Nda Press, 2010) e, insieme a Telmo Pievani, di “Libertà di migrare” (Einaudi editore, 2016): “Rifugiati, profughi, ora anche migranti economici. Si utilizzano questi termini senza comprendere a pieno a chi si sta facendo riferimento”.

Nel calderone di coloro che vengono definiti dalla politica e dalla stampa “migranti economici” finiscono tutte le persone non identificabili come rifugiati: il risultato è un dibattito che tiene poco conto – o non lo tiene affatto – delle motivazioni alla base delle migrazioni.

Un atteggiamento che si scontra con la realtà: secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change entro il 2050 gli ecoprofughi potrebbero diventare 200 milioni. «Da ormai un decennio le organizzazioni internazionali, gli istituti di ricerca e le stesse frontiere stanno sperimentando l’arrivo di tantissime persone costrette a fuggire – afferma Calzolaio – Non scappano dalla persecuzione, ma da disastri ambientali e climatici. È un fenomeno quantitativamente e qualitativamente sempre più rilevante e drammatico».

L’intervista

Calzolaio, che impatto ha avuto finora la presenza di profughi ambientali sui flussi migratori?

Molto alto. Sebbene non siano stati raccolti dati precisi finora, vi sono istituti e organizzazioni che eseguono stime e raccolgono informazioni su coloro che hanno subito eventi naturali e antropici traumatici e drammatici.

Un esempio: nel caso del terremoto che ha colpito il centro Italia noi sappiamo che hanno dovuto pagare il lutto, il danno della scomparsa e della morte, 295 persone e che vi sono migliaia di sfollati, costretti a trovare temporaneamente un’altra abitazione.

Possiamo fare questo tipo di calcolo per tutti gli eventi ambientali e climatici che ci verificano sul pianeta. Ma bisogna ricordare che è considerato disastro solo l’evento che provoca almeno 10 morti: nelle statistiche, purtroppo, si perde di vista l’umanità.

La portata del fenomeno è tale che l’Unhcr, nonostante debba attenersi nella sua azione alla tutela dei rifugiati – secondo la definizione data dalla Convenzione di Ginevra -, da 15 anni ha previsto nelle linee guida per allestimento dei campi profughi anche la protezione di coloro che non superano il confine, gli sfollati interni, molti dei quali sono ecoprofughi. Degli oltre 65 milioni di rifugiati registrati nel 2015, circa 45 sono costituiti da sfollati.

Chi studia fenomeni quali l’aumento del livello del mare, la scarsità di acqua, gli eventi metereologici estremi, prevede che in alcune aree del mondo vi sarà un aumento di coloro i quali sono costretti a fuggire.

La Convenzione di Ginevra non offre una definizione di rifugiato ambientale. Troviamo questa figura altrove?

No. Per definire lo status ci sarebbe bisogno di una definizione precisa, da individuare con il supporto dell’Ipcc. Un aiuto che finora non è stato chiesto.

Tuttavia vi sono stati dei forti segnali, come quello contenuto nella recente enciclica di Papa Francesco, che al punto 25 coltiva l’espressa esigenza al punto 25 di riconoscere l’esistenza del rifugiato climatico. Anche il testo finale della Conferenza sui cambiamenti climatici che si è tenuta lo scorso dicembre richiama l’esigenza di riflettere e promuovere dinamiche di gestione delle migrazioni forzate dovute ai cambiamenti climatici.

Attualmente, quindi, un ecoprofugo è considerato come un migrante economico?

Il punto è che la definizione migrante economico è stata adottata dai media e dalla politica, ma è un’esagerazione considerare tali tutti coloro che arrivano e per i quali non sussistono le condizioni per ottenere asilo. Non è previsto altro tipo di migrazione forzata su un piano giuridico.

Chi nel suo paese, per esempio, non trova più acqua spesso muore. Può tentare di fuggire, anche in questo caso rischiano la morte –  perché c’è il cimitero sahariano, prima di quello mediterraneo. Chi arriva non riesce a ottenere l’asilo o altra forma di protezione internazionale, perché non è fuggito dalla persecuzione o dalla guerra.

Dovremmo cambiare tutto ciò, a partire dal linguaggio che usiamo.

In pratica la migrazione forzata è equiparata a quella volontaria, a causa di tale lacuna?

È interessante riflettere su costrizione e libertà di migrare. Si tratta sempre di gradi relativi di costrizione e di libertà, non sono mai assolute.

Foto di @UNHCR

Molti di coloro che hanno subito il terremoto pochi giorni fa, per esempio, non vogliono migrare: preferiscono continuare a vivere lì, non vogliono trasferirsi, perché esiste un legame profondissimo nella maggior parte degli esseri umani con il luogo nei quali si è maturati e cresciuti. Si vuole avere il diritto di restare lì. Vi è chi preferisce rischiare di morire, piuttosto di abbandonare il luogo a cui è legato: non c’è mai costrizione assoluta. Inoltre la fuga non è mai garantita nei risultati.

Dobbiamo contrastare tutte ragioni alla base delle migrazioni forzate, indotte e provocate da altri e nel frattempo far crescere il livello di libertà: a un maggiore margine di libertà non corrisponde il fatto che partano tutti.

Quanto le azioni del mondo occidentale e industrializzato hanno influito sui disastri ambientali dei paesi in via di sviluppo?

Tantissimo. Basti pensare alle persone che riescono ad arrivare in Italia: c’è quota di siriani, di eritrei, di libici ed altri paesi in guerra, ma vi sono anche molte altre persone provenienti da paesi subsahariani. Tra loro vi è anche chi non scappa dalla persecuzione, chi non fugge da luoghi devastati da conflitti, ma da luoghi devastati da cambiamenti climatici. Si dice che partono dalla povertà e dalla fame: non è così semplice, queste sono la diretta conseguenza delle scelte economico-produttive operate da paesi ricchi e occidentali. Istituti e organizzazioni internazionali hanno riconosciuto le responsabilità del comportamento di 39 paesi industrializzati sui cambiamenti climatici e ambientali in paesi come il Bangladesh, l’India, le regioni monsoniche, la Nigeria, il Burkina Faso, il Senegal e altri.

È positivo ciò che suggerisce l’Europa: aiutiamoli nei paesi di origine. Questo però vuol dire produrre energie rinnovabili qui, eliminare centrali a carbone qui, smettere di emettere combustibili fossili nell’atmosfera qui. Lì, invece, dobbiamo favorire lo sviluppo sostenibile, non dobbiamo depredare le risorse, o spostarvi le nostre aziende.

Quale la maggiore sfida posta dal fenomeno degli ecoprofughi?

Bisogna innanzitutto informarsi. Rileggere la Carta di Roma, associare a ogni definizione dati, fatti e aggiornamenti, affinché ognuno possegga una griglia critica per comprendere quanto sta avvenendo.

Capisco la paura e la diffidenza di molti. Per questo è tanto necessaria una simile griglia: per riuscire a aiutare ogni persona per bene che giunge qui.

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