E’ stata allestita il 5 marzo la mostra “La memoria degli oggetti. Lampedusa, 3 ottobre 2013. Dieci anni dopo”, all’Eremo di Santa Caterina del Sasso, visitabile fino a martedì 9 aprile. Era già stata esposta a Milano presso il Memoriale della Shoah dal 27 settembre al 31 ottobre 2023. Nata da un’idea di Valerio Cataldi, giornalista Rai che da anni si occupa di immigrazione, e di Giulia Tornari, Presidente di Zona. Realizzata grazie ai fondi 8×1000 dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, è un progetto di Carta di Roma e Zona, curato da Paola Barretta, Imma Carpiniello, Valerio Cataldi, Adal Neguse e Giulia Tornari, con le fotografie di Karim El Maktafi.
A dieci anni dal naufragio del 3 ottobre 2013, quando al largo di Lampedusa persero la vita 368 persone, donne, uomini e bambini che dall’Eritrea cercavano di raggiungere l’Europa, l’esposizione ricorda la prima grande tragedia del Mediterraneo. Per la prima volta infatti, quel giorno di inizio ottobre, i corpi dei naufraghi furono visibili al mondo intero. Un evento che cambiò la percezione dei naufragi e che scatenò una reazione emotiva a livello politico, mediatico e sociale. Da quella tragedia, dal 2014 a oggi, si contano oltre 31.000 persone morte nel Mediterraneo con la speranza di raggiungere l’Europa.
La mostra ha l’obiettivo di mantenere viva la memoria dei migranti del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 attraverso l’esposizione di oggetti appartenuti ai naufraghi e la condivisione di testimonianze dei sopravvissuti, dei parenti delle vittime e dei soccorritori.
Una bussola, una macchinina rossa, una boccetta di profumo, uno specchietto, un telefono cellulare. La forza di quegli oggetti è che ci costringono a riconoscere che la nostra vita è piena delle stesse cose. Che solo il caso ci ha consentito di non aver bisogno di afferrare quegli oggetti e lasciare per sempre il nostro mondo. Dare dignità a quegli oggetti significa fare un passo verso la costruzione di una memoria condivisa, una memoria comune, quella degli esseri umani.
La memoria degli oggetti nasce proprio dalle cose appartenute alle persone migranti morte quel tragico 3 ottobre, repertati allora dalla polizia come corpi di reato, prove da portare in tribunale che hanno consentito di identificare le persone decedute anche grazie alle rilevazioni del DNA, di dare loro un nome e restituire dignità anche ai loro familiari. Una macchinetta rossa di un bimbo, un paio di occhiali da sole, una boccetta di profumo, uno specchio rotto, una bussola, un biglietto scritto a penna e ripiegato con cura nella tasca: oggetti di vita quotidiana, l’immagine più evidente di una umanità in fuga. Alcuni familiari hanno dovuto aspettare fino anche a 12 mesi per il riconoscimento dei corpi e anche per vedere tutelati i loro diritti, come banalmente avere un certificato di morte.
L’intento della mostra in occasione dell’anniversario è anche quello di sollevare questioni cruciali che vanno oltre l’individuo, che riguardano i diritti umani e il valore della vita in un mondo globalizzato e di fare un primo passo verso la costruzione di una memoria condivisa.
La mostra “La memoria degli oggetti. Lampedusa, 3 ottobre 2013. Dieci anni dopo” è stata inaugurata all’Eremo di Santa Caterina del Sasso. Ad aprire la rassegna, che sarà poi visitabile fino a martedì 9 aprile, una visita guidata con i curatori.
La rassegna è un progetto di Carta di Roma e Zona e gode del patrocinio del Comune di Leggiuno e Musa e ha il supporto di Archeologistics, impresa sociale impegnata nella valorizzazione dei beni culturali.
La mostra raccoglie e presenta gli oggetti appartenuti alle persone migranti decedute nel naufragio.
di Alidad Shiri su l’Adige
Scrivo ancora a caldo, con le lacrime, alcune righe per descrivere il mio stato d’animo e quello degli altri familiari delle vittime del naufragio di Cutro, a 40 minuti di auto da Crotone, avvenuto proprio un anno fa con 94 persone annegate, di cui 35 bambini. Come sapete, sono parente di un giovane di 17 anni, Attiqullah, ancora disperso. È un dolore questo che ti consuma, soffri tutti i giorni, aspetti sempre la notizia dell’identificazione di un corpo su cui piangere, di una notizia certa da comunicare ai parenti che continuano a subissarmi di domande. Come me molti altri uomini e donne di ogni età sono arrivati da tante parti del mondo, per questo momento insieme di memoria, almeno quelli che avevano la fortuna di avere un passaporto internazionale, mentre altri non potevano nemmeno venire, anche se il sogno che gli rimane è quello di andare sulla tomba del proprio caro. Come quello dei genitori di Zahra, che sono bloccati in Iran e non possono nemmeno piangere, pregare sulla tomba del loro figlio di 23 anni, che è stato sepolto in Finlandia a Espo, vicino a Helsinki, dove vive la sorella Zahra insieme al marito Hassan. Come altri che sono arrivati dalla Francia, dall’Olanda, dagli Stati Uniti, dalla Germania, dall’ Ungheria, dalla Finlandia e da altre città di Italia. Il cellulare continua a squillare, mentre siamo con Zahra, Hassan, Said, un gruppo di volontari dell’Associazione Memoria Mediterranea e alcuni cronisti al cimitero di Cutro. Stiamo ancora cercando di capire se c’è mio cugino tra i sei corpi senza nome, senza identificazione. È una mamma che ci chiama dall’Iran, anche lei vorrebbe essere in questo anniversario nei luoghi dove hanno perso la vita i suoi figli di 19 e 21 anni. Loro sono sepolti a Bologna, ma è impossibile spiegarle che è molto distante da questo luogo, che non può vedere con videochiamata la tomba. Vorrebbe parlare con i giornalisti per comunicare loro tutto il suo grande dolore, la sua impotenza nell’impossibilità di spostarsi. Ritorniamo a Crotone direttamente al Museo Pitagora. Appena scendo dalla macchina di Anna, inviata di Agorà, veniamo circondati da otto sopravvissuti giovanissimi afghani, che vengono da Amburgo. Hanno voglia di comunicare, raccontare l’inferno che hanno visto un anno fa, nel momento della strage. Uno di loro appartiene a quella famiglia di 21 persone sulla nave, di cui 16 sono morti e solo cinque sopravvissuti. Si mettono in fila per cercare di raccontare a turno quello che è successo. Inizia Mohammad, 25 anni, laureato in economia a Herat. Il padre si trova ancora in carcere, arrestato dai talebani, faceva parte dell’esercito afghano, anche il fratello. I talebani avevano dato a lui due scelte: o fare parte dell’esercito dei talebani o avrebbero arrestato anche lui. Improvvisamente di nascosto è scappato in Iran e quindi in Turchia. Anche Harun Mohammadi ha vissuto questo stesso meccanismo: anche lui non aveva finito Giurisprudenza quando sono arrivati i talebani. Il padre è scappato subito perché aveva lavorato con la NATO, lui un mese dopo con tutta la famiglia. In Iran non avevano documenti, quindi erano irregolari e dovevano sempre nascondersi. Dopo alcuni mesi, è partito anche lui per la Turchia, da dove pagando un trafficante, si arriva sulle coste dell’Italia con un barcone. Quella notte, terribile, se la ricordano bene, fino al momento della strage nella tempesta dove la memoria si offusca. Mohammad si ricorda di essere risalito a galla di avere visto i corpi dei bambini che galleggiavano ormai senza vita, sentiva le urla delle persone disperate. Insieme ad altri sei lui era riuscito ad aggrapparsi ad un’asse di legno. Ogni volta che un’onda arrivava con forza perdeva un paio di compagni, finche è rimasto da solo. Appena uscito dall’acqua,ricorda, si è buttato per terra e aveva parlato con qualcuno che poco dopo non parlava e respirava più. Un’esperienza terribile. Ora questi giovani sopravvissuti parlano della loro vita difficile in Germania. Fino a tre mesi fa le istituzioni tedesche non erano a conoscenza della loro provenienza dal naufragio di Cutro, non avevano nessuna assistenza psicologica, abitano ancora in un centro di accoglienza dove solo per avere una visita medica occorre un mese. Anche per un appuntamento con il medico di base occorrono dieci giorni. Per loro, come per altri sopravvissuti, il problema principale è il ricongiungimento famigliare, che gli era stato promesso dal governo. Con così tanto dolore, tanta rabbia dentro, per i sopravvissuti e per noi parenti delle vittime, non era certo facile tornare in quel luogo. Alcuni non ce la facevano a sopportare tutto questo, ci sono stati tanti malori. Davanti alle telecamere si cercava di trattenere il pianto, ma rientri nelle nostre stanze, il buio ci soffocava e c’erano fiumi di lacrime. Ci consolava ancora una volta l’appoggio, solidarietà, umanità della popolazione locale, dei volontari, delle associazioni che ci hanno accompagnato. Insieme a noi hanno pianto, hanno urlato, hanno camminato sotto la pioggia e ci hanno appoggiato nelle nostre forti richieste di giustizia, verità sulle responsabilità di chi non ha subito soccorso, basta morti nel mare, di organizzare canali sicuri per i ricongiungimenti famigliari, che non debba succedere mai più una simile strage.
The European Parliament today adopted with an overwhelming majority (546 in favour, 47 against, 31 abstentions) the Anti-SLAPP Directive, intended to protect journalists and media outlets from abusive litigations. The European Federation of Journalists (EFJ) joined the organisations of the Coalition Against SLAPPs in Europe (CASE) in welcoming an important step in the fight against SLAPPs, but regrets the considerable room for manoeuvre left to the Member States on several crucial points.
“Some refer to this law as Daphne’s law (Daphne Caruana Galizia) and I think it’s important to mention it, here in this room, named after Daphne. We achieved an additional layer of protection for journalists. There was no definition of SLAPPs in Europe, we now have one: this is important to help the courts better understand SLAPPs,” said the rapporteur Tiemo Wölken (S&D, Germany) during the press conference following the adoption in the plenary session of the European Parliament, on 27 February 2024.
The adopted Directive provides safeguards for journalists targeted by manifestly unfounded claims or abusive court proceedings, in civil matters, and with cross-border implications. These include an accelerated procedure to dismiss cases at the earliest stage, third-party support to targets during court proceedings, penalties for claimants and compensatory damages for victims.
This directive is only applicable to SLAPP cases (see factsheet ‘What is a SLAPP’) with a cross-border dimension, i.e. when both parties are domiciled in different Member States. However, the definition of “cross-border” was broadened during the final phases of the negotiations to also include “other elements relevant to the situation”, irrespective of the means of communication used. For example, information of public interest published in one country could be considered as a “cross-border” element in another country under this directive. It will be up to the national courts and Member States to implement this definition broadly to cases.
Such an addition, however incomplete, was a key demand of the CASE coalition which mapped SLAPP cases across Europe from 2011 until today. According to the research, only less than 10% of the cases identified and vetted are classical cross-border cases. A strict definition, whereby the directive would only apply to SLAPP targets sued in a purely domestic context, would have failed to counteract the growing problem of SLAPPs in the EU.
“The responsibility now lies with Member States to build on the foundation set by the Anti-SLAPP Directive and draft effective national legislation which includes a broad scope to cover also domestic SLAPP cases, robust guarantees in terms of the early dismissal mechanism to filter out SLAPPs, safeguards in national legislation on damage compensation, as well as a number of non-legal instruments detailed in the Commission’s Recommendations,” said CASE in a press release containing analyses of three key articles.
Lo“The Member States will have two years to comply with the directive and we hope to see anti-SLAPP legislations transposed on-time in all countries and going beyond the minimum guarantees provided by this text. The seriousness of the problem requires European governments to be more ambitious as SLAPPs mushroom across the European Union. We also expect the forthcoming Council of Europe Recommendation to provide further guidance,” said EFJ Director Renate Schroeder.
Giornata Mondiale di Preghiera e Riflessione contro la Tratta di Persone
Dal 2 all’8 febbraio una settimana di mobilitazione e preghiera. A Roma l’incontro di 50 giovani di tutti i continenti impegnati contro la tratta.
“Camminare per la Dignità. Ascoltare. Sognare. Agire”: questo il tema della decima Giornata Mondiale di Preghiera e Riflessione contro la Tratta di Persone dell’8 febbraio, giornata istituita nel 2015 per volere di Papa Francesco in occasione della festa di Santa Bakhita, la suora sudanese vittima di tratta e simbolo universale dell’impegno della Chiesa contro questo flagello.
La tratta di esseri umani è il processo attraverso il quale le persone vengono costrette o attirate da false prospettive, reclutate, trasferite e obbligate a lavorare e vivere in condizioni di sfruttamento o di abuso. È un fenomeno, come avvertono i recenti rapporti delle Nazioni Unite, in continua e drammatica evoluzione.
UNA SETTIMANA DI MOBILITAZIONE E PREGHIERA CON L’IMPEGNO DEI GIOVANI AL CENTRO
Migliaia di persone in tutto il mondo – in tante parrocchie, comunità, associazioni – si riuniranno per riflettere, pregare e condividere la propria esperienza di impegno contro questo fenomeno globale.
Attesi a Roma 50 giovani, tra studenti, volontari, ricercatori, creativi, comunicatori, attivisti e operatori contro la tratta, rappresentanti delle reti internazionali partner della giornata.
Le iniziative, che li vedranno coinvolti, prenderanno il via il 2 di febbraio con l’arrivo di tutti i delegati a Roma. Per il giorno successivo, 3 febbraio, sono previste attività di formazione e sensibilizzazione sul tema della tratta e la mattina di domenica 4 febbraio la partecipazione alla Preghiera dell’Angelus in Piazza San Pietro.
Martedì 6 febbraio alle ore 16.15 verrà realizzato un flash-mob contro la tratta a Piazza Santa Maria in Trastevere a Roma ed alle 17.30, nella Basilica di Santa Maria in Trastevere, si terrà una Veglia Ecumenica in 5 lingue (italiano, inglese, francese, spagnolo e portoghese) ispirata ai 5 elementi: acqua, fuoco, aria, metallo e terra.
Mercoledì 7 febbraio il gruppo internazionale parteciperà all’Udienza con Papa Francesco nell’Aula Paolo VI in Vaticano.
IL PELLEGRINAGGIO ONLINE IN TUTTI I CONTINENTI
Giovedì 8 febbraio si terrà il pellegrinaggio online di preghiera e riflessione contro la tratta che attraversa tutti i continenti e fusi orari. Si inizierà alle 9.30 dall’Oceania, seguono l’Asia, il Medio Oriente, l’Africa, l’Europa, il Sud America e, infine, si chiuderà alle 16.30 con il Nord America. Sono oltre 50 i Paesi coinvolti e il blocco centrale, per il secondo anno consecutivo, vedrà per protagonisti i giovani impegnati contro la tratta. Come accaduto negli ultimi anni, è atteso anche un messaggio di Papa Francesco.
L’evento sarà trasmesso in diretta streaming in 5 lingue (Inglese, Spagnolo, Portoghese, Francese, Italiano) su www.prayagainsttrafficking.net.
“La tratta è intorno a noi, nelle nostre città, ma è spesso invisibile ai nostri occhi. Con questa Giornata vogliamo aumentare la consapevolezza sulla tratta, riflettere sulla situazione di violenza e ingiustizia subita dalle vittime di questo fenomeno globale e indicare delle soluzioni concrete. Invitiamo quindi tutti a mettersi in attento ascolto e osservazione; a sognare insieme ai giovani un mondo migliore e ad agire perché la situazione cambi, partendo da un impegno personale, comunitario e delle istituzioni per contrastare con determinazione ed efficacia le cause della tratta e dello sfruttamento.” ha dichiarato Suor Abby Avelino, MM, coordinatrice della Giornata
LA RETE DELLA GIORNATA
L’iniziativa è coordinata da Talitha Kum, la rete internazionale anti-tratta che conta più 6000 suore, amici e partner, ed è promossa dall’Unione Internazionale delle Superiore Generali (UISG) e dall’Unione dei Superiori Generali (USG), in collaborazione con il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, il Dicastero della Comunicazione, Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, la Rete Mondiale di Preghiera del Papa, Caritas Internationalis, CoatNet, il Movimento dei Focolari, il Jesuit Refugee Service, l’Unione Internazionale delle Associazioni Femminili Cattoliche (WUCWO), JPIC- Anti-Trafficking Working Group (UISG/UISG), The Clever Initiative, l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, la Federazione Internazionale Azione Cattolica, l’Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani (Agesci), il Santa Marta Group e molte altre organizzazioni in tutto il mondo.
La Giornata è realizzata grazie al supporto del GSF – Global Solidarity Fund.
LA GIORNATA SU X (ex Twitter)
Gli organizzatori invitano a dedicare un tweet l’8 febbraio usando l’hashtag ufficiale #PrayAgainstTrafficking
Il suicidio di un ragazzo della Guinea di 22 anni, Ousmane Sylla, avvenuto oggi nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Ponte Galeria a Roma, è l’ennesima morte causata da un sistema di detenzione illegittimo ed inumano. Un sistema che non solo priva le persone della propria libertà personale senza aver commesso alcun reato ma che consente, anche, di fare profitto sulla loro pelle”. Questo il commento della Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD), che prosegue:
“I CPR sono dei buchi neri dove i diritti, anche quelli più elementari – alla salute, alla difesa legale, alla comunicazione – sono negati. Dove le persone sono detenute, per mesi, in condizioni indegne, invisibili alla società civile che per entrare in questi Centri ha bisogno di autorizzazioni specifiche di Prefetture sempre più restie a concederle. Rendendo quindi questi luoghi completamente opachi.
Di più, questi Centri sono anche affidati alla gestione di privati, che fanno profitti sulla privazione della libertà di esseri umani: a Ponte Galeria l’ente gestore è la multinazionale elvetica Ors, l’unica ad avere anche – almeno fino al giugno scorso – una società di lobbying che ne tuteli gli interessi in Parlamento.
Nonostante le denunce della società civile, le indagini della Procura che stanno riguardando il CPR di Milano, il Governo ha aumentato i tempi di permanenza fino a 18 mesi, affidato la gestione di nuovi Centri al genio militare e stretto un accordo con l’Albania per la costruzione di un CPR nel paese balcanico, ancor più lontano dagli occhi.Riteniamo, invece, che questi luoghi vadano immediatamente chiusi e pretendiamo che si faccia chiarezza sul suicidio di Ousmane Sylla. Dopo questa ennesima morte, si stanno verificando delle proteste da parte dei detenuti nel CPR di Ponte Galeria che si sommano a quelle già verificatesi in altri Centri per le condizioni di detenzione: da Trapani a Gradisca d’Isonzo. Sappiamo bene che vi è il rischio di violente repressioni di queste proteste e di repentini rimpatri dei detenuti che hanno assistito alla morte di Sylla e che ora stanno denunciando l’accaduto. Continueremo a vigilare su quanto sta accadendo nel CPR di Roma e a batterci per porre definitivamente fine a questa ignobile forma di detenzione.
Invitiamo anche il Comune di Roma a farsi carico di quanto sta accadendo nel CPR presente sul proprio territorio, richiedendone la immediata chiusura e avviando una “Commissione di indagine conoscitiva”, sul modello di quanto fatto a Bologna nel 2006. Una Commissione permanente che veda la partecipazione dei Garanti locali e delle associazioni attive sul territorio, per verificare le condizioni di detenzione nel Centro di Ponte Galeria”.
Amnesty International ha sollecitato gli Stati europei a fermare immediatamente i trasferimenti di rifugiati e richiedenti asilo del Caucaso del Nord verso la Russia, a causa del rischio di subire maltrattamenti e torture e di essere costretti ad andare a combattere nella guerra di aggressione contro l’Ucraina.
In una ricerca pubblicata oggi, dal titolo “Europa: il punto di non ritorno”, Amnesty ha denunciato che alcuni stati europei – tra i quali Croazia, Francia, Germania, Polonia e Romania – hanno estradato o stanno cercando di estradare richiedenti asilo fuggiti dalla persecuzione nel Caucaso del Nord e in cerca di salvezza in Europa.
“È scandaloso che, nonostante abbiano dichiarato di aver sospeso ogni forma di cooperazione giudiziaria con la Russia, a seguito della sua invasione dell’Ucraina, diversi stati europei stiano minacciando di rimandare persone nel Caucaso del Nord, esattamente nei luoghi dai quali erano fuggite a causa della persecuzione. Gli stati europei devono riconoscere che molte di queste persone, in caso di rimpatrio, rischierebbero arresti, rapimenti, maltrattamenti e torture, nonché l’arruolamento forzato”, ha dichiarato Nils Muiznieks, direttore di Amnesty International per l’Europa.
“La situazione, per coloro che sono fuggiti dal Caucaso del Nord, è notevolmente peggiorata a causa del deterioramento della situazione dei diritti umani in Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Vanno incontro a torture, sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie senza che nessuno sia chiamato a risponderne. Storicamente, negli stati europei, queste persone sono stigmatizzate e prese di mira con provvedimenti di espulsione e rimpatrio”, ha aggiunto Muiznieks.
Nel Caucaso del Nord, soprattutto in Cecenia, la situazione dei diritti umani è pessima. Chiunque esprima critiche, prenda parte ad attività in favore dei diritti umani e appartenga o venga percepito come appartenente alla comunità Lgbtqia+, rischia di essere colpito e lo stesso accade ad amici e parenti.
“Ti catturano in strada e hai due opzioni: vai in galera per 10 anni o cerchi di fuggire. Nelle prigioni cecene, è come se non esistessi più. Ma almeno puoi uscirne dopo 10 anni. Sempre meglio che essere arruolati, combattere e morire”, ha dichiarato ad Amnesty International un richiedente asilo della Cecenia.
Il ritiro della Russia dalla Convenzione europea dei diritti umani e la repressione in atto contro gli osservatori indipendenti sulla situazione dei diritti umani hanno enormemente aumentato il rischio di violazioni e hanno privato le vittime di importanti possibilità di chiedere giustizia.
I rischi sono aumentati dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre contro il sud d’Israele e dopo i bombardamenti israeliani a Gaza e i sempre più violenti attacchi, con arresti e uccisioni, contro i palestinesi della Cisgiordania occupata.
Il presidente Macron ha inoltre autorizzato il suo ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, a negoziare con le autorità russe i possibili trasferimenti. Ne sono in programma almeno 11.
“Da anni i governi e le istituzioni europee ignorano o sminuiscono i gravi rischi cui va incontro chiunque venga rimpatriato nel Caucaso del Nord. Questi rischi sono ora ancora più acuti ed è incomprensibile usare il pretesto delle tensioni in Medio Oriente per giustificare il ritorno in Russia dei richiedenti asilo”, ha sottolineato Muiznieks.
“I governi europei devono fermare immediatamente tutti i trasferimenti in Russia di persone che rischiano di subire torture o altre violazioni dei diritti umani e riconoscere che tali rischi sono assai più alti per le persone del Caucaso del Nord. L’Europa deve valutare in modo corretto i loro bisogni di protezione, alla luce della pessima situazione dei diritti umani in Russia e della guerra in corso contro l’Ucraina”, ha concluso Muiznieks.
Sono circa 6000 i professionisti della sanità italiani, di cui 4000 medici e 2000 professionisti della sanità, che nell’arco del 2023 si sono rivolti all’Amsi e UMEM e Uniti per Unire.
I medici e infermieri italiani preferiscono andare a lavorare all’estero. È quanto emerge dagli ultimi dati forniti dall’Associazione medici di origine straniera in Italia (AMSI), dall’Unione Medica Euro Mediterranea (UMEM).
Gli ingenti investimenti sulla sanità da parte di alcuni paesi arabi hanno contribuito ad aumentare un fenomeno che negli ultimi mesi è diventato sempre più diffuso.
“In Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar investono circa il 10% del Pil in sanità ed hanno strutture sanitarie all’avanguardia con tanta innovazione e macchinari ultime generazioni – spiega Foad Aodi, presidente dell’Associazione medici di origine straniera in Italia, dell’Unione medica euro mediterranea, membro registro esperti della Fnomceo e prof. a contratto all’Università Tor Vergata.
Di non poca rilevanza poi, i turni massacranti, le aggressioni. Medici e infermieri lamentano inoltre la mancata depenalizzazione dell’atto medico e la difficile valorizzazione della carriera. Sono troppo pochi gli investimenti nella ricerca e per modernizzare le strutture sanitarie. C’è molta poca innovazione e confronti scientifici veri.
Infine, la questione economica: In Emirati Arabi, Qatar e Arabia Saudita e negli Emirati Arabi un medico viene pagato in media 15mila euro mensili, un infermiere 3mila, con compensi che possono anche raddoppiare in base all’esperienza”.
Più dell’85% delle richieste provengono dalle strutture sanitarie pubbliche.
I dati regione per regione
Secondo le statistiche formulate da Amsi e Umem, la regione con più richieste di trasferimento all’estero è la Lombardia, con 630 casi nel 2023 (di cui 430 medici e 125 infermieri e professionisti della sanità). Seguono il Veneto con 600 e il Piemonte con 550. Non va meglio però per le altre regioni: nel Lazio se ne contano 515, in Campania 475, in Calabria e Emilia-Romagna 450, in Puglia e Sicilia 300, in Toscana 275, in Liguria 250, nelle Marche 225, in Sardegna 200, in Umbria 175, in Trentino-Alto Adige 150, in Abruzzo 105, in Friuli-Venezia Giulia e Valle d’Aosta 100, in Basilicata e Molise 75.
I medici di origine straniera in Italia
Mentre tanti professionisti italiani scappano all’estero, negli ultimi cinque anni si è registrato un aumento di medici di origine straniera in Italia. “Questo grazie ad una stretta collaborazione con il Governo Conte II, che, con il decreto ‘Cura Italia’ ha disposto una deroga alle norme di riconoscimento delle qualifiche professionali sanitarie, per consentire l’esercizio sul territorio nazionale a chi ha conseguito una professione sanitaria all’estero – spiega Aodi –. Ne sono arrivati parecchi da Argentina, Venezuela, Cuba, Cile, Perù, Marocco, Tunisia, Giordania, Palestina e Algeria”. Alcuni di essi hanno deciso di rimanere in Italia. Siamo passati negli ultimi 4 anni da 77.500 professionisti della sanità di origine straniera in Italia a 100 mila professionisti della sanità stranieri, di cui il 40% lavora nel pubblico. Numeri raddoppiati rispetto a 3 anni fa. La maggioranza dei professionisti della sanità stranieri sono a Roma e nel Lazio con 8 mila unità.
“Ma questo non basta – fa notare Aodi –. Il continuo esodo dei medici Italiani ci preoccupa. Per questo abbiamo lanciato l’appello ‘Aiutarli a casa loro in Italia’, al quale stanno aderendo più di 130 tra associazioni e sindacati di professionisti della sanità, organizzazioni e associazioni di strutture sanitarie e cliniche private e poliambulatori”.
L’intervento di apertura di Carlo Bartoli alla conferenza stampa annuale, appuntamento con la Presidente del Consiglio organizzato dall’Ordine dei giornalisti e dalla Associazione Stampa Parlamentare
“In questa sala ci sono alcuni banchi vuoti: per la prima volta nella storia decennale di questo tradizionale appuntamento la Federazione nazionale della stampa ha inteso disertare per protesta la conferenza stampa. Una protesta che nella sostanza condivido. Ci allarma, infatti, l’approvazione avvenuta nei giorni scorsi di un emendamento che rischia di far calare il sipario sull’informazione in materia giudiziaria. Ci preoccupano, a questo proposito, certe espressioni ingiuste e calunniose di alcuni parlamentari.
L’Italia da anni è sotto osservazione delle istituzioni europee per l’elevata mole di azioni giudiziarie intimidatorie contro i giornalisti. Per questo chiediamo di ripensare a fondo la riforma della diffamazione in discussione al Senato; una proposta che non disincentiva in maniera seria le liti temerarie e comprime invece, a nostro avviso in maniera ingiustificata, il diritto dei cittadini a un’informazione libera e approfondita. Speriamo che il Parlamento non ripeta l’errore commesso nella scorsa legislatura, quando ha approvato le norme sulla cosiddetta presunzione di innocenza: un principio sacrosanto che la legge non ha saputo difendere, ma la cui applicazione ha prodotto l’oscuramento di tantissime notizie di cronaca.
Per fortuna, recentemente la Corte di Cassazione in una chiarissima sentenza ha difeso e valorizzato il giornalismo di inchiesta. Siamo anche soddisfatti delle recenti modifiche apportate dall’Europa al Media Freedom Act a tutela dei giornalisti che non possono e non devono essere intercettati mentre svolgono il loro lavoro come purtroppo è accaduto in Italia e come è stato rivelato pubblicamente nei giorni scorsi.
Guardiamo all’Europa, alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, alla Corte Costituzionale, alla Cassazione, ma dobbiamo prendere atto di essere descritti, da alcuni esponenti del ceto politico, come speculatori che lucrano sulle disavventure giudiziarie.
Quest’anno abbiamo ricordato i 60 anni dell’Ordine. Non una autocelebrazione, ma un momento di riflessione sulla storia del giornalismo italiano, sul suo presente e sul suo futuro. Una riflessione che ci porta a chiedere ancora una volta che il Parlamento approvi una riforma della professione che attendiamo da diversi decenni. Nell’epoca dell’Intelligenza artificiale siamo ancora inchiodati a norme pensate e approvate il secolo scorso. Abbiamo presentato la nostra proposta, unanime, speriamo di avere l’ascolto delle istituzioni.
Questo governo si è mosso in maniera efficace nel sostegno all’editoria, in particolare nel comparto delle agenzie di stampa; un’azione importante, ma occorre fare ancora di più. È indispensabile un grande progetto di rilancio dell’industria dell’informazione. E agli editori diciamo che la strada del progresso e quella della precarietà si muovono in direzioni opposte; c’è troppo lavoro povero. Troppi compensi assomigliano più a un’elemosina che a una retribuzione. Esprimo solidarietà alle colleghe e ai colleghi dell’Agenzia DIRE per la difficile situazione in cui si trovano tra licenziamenti e sospensioni.
Con l’avvento dell’Intelligenza artificiale, l’Italia deve scegliere se accettare di essere tagliata fuori dal grande mercato internazionale della cultura e dell’informazione o cercare di riguadagnare un ruolo in quell’ambito nel quale si produrrà e distribuirà una fetta rilevante della ricchezza planetaria. Per farlo, occorre un’alleanza di tutti i soggetti in campo: Governo, Parlamento, autorità regolatorie, editori, nuove professionalità, giornalisti. Noi ci siamo, ma occorre fare prestissimo.
Del resto, anche editori e giornalisti sono chiamati in causa in una vicenda che, come ha ricordato il Presidente della Repubblica, mette in gioco il futuro della democrazia. Dobbiamo adottare una seria autoregolamentazione, a partire dalla trasparenza in materia di Intelligenza artificiale. I nostri lettori e ascoltatori devono sapere se e in quale proporzione i nostri contenuti sono costruiti con l’ausilio dell’Intelligenza artificiale. Trasparenza e tracciabilità dei contenuti, oltre a responsabilità e deontologia, devono rappresentare i caratteri che ci distinguono rispetto quanto viene immesso in rete sotto forma di sedicente informazione.
Gentile presidente, in questi decenni, i giornalisti non hanno esitato a rischiare la vita, e talvolta a perderla, per raccontare i delitti della mafia, i soprusi e le violenze, i crimini di guerra, gli stermini. Testimoni scomodi e poco amati, spesso divenuti bersaglio nei momenti di forte tensione sociale e negli scenari di guerra. Anche se qualcuno oggi cerca di dimenticarlo o sottovalutarlo.
Questa è la nostra storia, storia di cui siamo orgogliosi; queste sono le nostre radici innervate nei valori della Costituzione ed ispirate ai principi internazionali che ci richiamano, come cittadini e come giornalisti, ad operare in difesa della libertà e del rispetto dei diritti umani, contro ogni discriminazione”.
Per la prima volta, la Segretaria e il Presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana hanno deciso di non partecipare alla conferenza stampa, in segno di protesta per l’emendamento Costa – approvato dal Senato con parere favorevole del governo – che restringe il diritto di cronaca.
La presidente Giorgia Meloni ha affermato che la norma Costa farebbe tornare la disciplina dell’articolo 114 del Codice di procedura penale a prima della riforma Orlando. Così dicendo, però, al di là dei giochi di parole, la premier non ha potuto non riconoscere che il disegno di legge presentato dal deputato di Azione e votato dalla Camera rappresenta una involuzione rispetto alla riforma del 2017 che ha espressamente consentito la pubblicazione delle ordinanze cautelari, che sono atti necessariamente conosciuti dalle parti.
Per la Fnsi, «la norma bavaglio, su cui sarà chiamato a pronunciarsi il Senato, rappresenta un passo indietro non solo per il diritto di cronaca, ma anche nella tutela dell’indagato. Si obbligano infatti i giornalisti a riportare solo sintesi e notizie de relato, senza potersi affidare alla precisione degli atti giudiziari. La strumentale distorsione del garantismo penale non può certo costituire l’alibi per una inaccettabile involuzione democratica».
La Fnsi chiede al governo e al Parlamento di non procedere all’approvazione definitiva.È una norma in contrasto con sentenze Cedu, e imbavaglia il diritto dei cittadini a sapere.
Da quali paesi proviene la maggior parte delle persone rifugiate presenti in Italia? Nei primi 9 mesi del 2023, qual è la percentuale di minori tra coloro che sono costretti a fuggire dalle proprie case? Negli ultimi dieci anni il numero di persone costrette a fuggire da guerre e persecuzioni è aumentato? 10 domande per scoprire quanto conosci l’argomento.
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Quiz: quanto ne sai di persone migranti e rifugiate?
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