Questa è una sintesi di quanto detto da Vincent Cochetel, inviato speciale dell’UNHCR per la situazione del Mediterraneo occidentale e centrale – a cui il testo citato può essere attribuito – durante il briefing alla stampa tenutosi oggi al Palazzo delle Nazioni di Ginevra.
La mancanza di servizi di protezione sulle principali rotte utilizzate da rifugiati e migranti è allarmante e si è aggravata rispetto agli ultimi anni, secondo un rapporto di mappatura pubblicato oggi dall’UNHCR, l’Agenzia dell’ONU per i Rifugiati.
Ogni anno, centinaia di migliaia di rifugiati e migranti rischiano la vita per spostarsi sulle rotte che si estendono dall’Africa orientale e dal Corno d’Africa e dall’Africa occidentale verso la costa atlantica del Nord Africa e attraverso il Mar Mediterraneo centrale verso l’Europa. Oltre agli africani, tra coloro che arrivano in Nord Africa ci sono anche molti rifugiati e migranti asiatici e mediorientali, provenienti da Paesi come Bangladesh, Pakistan, Egitto e Siria.
Gli orrori affrontati dai rifugiati e dai migranti lungo queste rotte sono inimmaginabili. Tragicamente, molti di loro muoiono durante l’attraversamento del deserto o in prossimità delle frontiere, e la maggior parte subisce gravi violazioni dei diritti umani durante il viaggio, tra cui violenze sessuali e di genere, rapimenti a scopo di riscatto, torture, abusi fisici, detenzioni arbitrarie, traffico di persone ed espulsioni collettive. Tuttavia, i servizi di protezione che possono aiutare a fornire alternative ai viaggi pericolosi o a mitigare le sofferenze dei rifugiati e dei migranti lungo le rotte che percorrono sono gravemente carenti.
I risultati di questa terza edizione del “Rapporto sulla mappatura dei servizi di protezione (un approccio basato sulle rotte per i servizi di protezione lungo le rotte dei movimenti misti)” dell’UNHCR evidenziano una significativa discrepanza nel livello dei servizi forniti nei diversi segmenti delle rotte che sono state mappate.
I servizi di protezione, come l’assistenza umanitaria immediata, l’alloggio, i meccanismi di rinvio ai servizi dedicati e l’accesso alla giustizia, spesso non sono disponibili negli snodi dei movimenti misti noti e nei punti di transito nelle aree difficili da raggiungere, anche nel deserto del Sahara. Purtroppo, i partner locali che hanno accesso a questi luoghi spesso non vengono presi in considerazione dai donatori o non vengono considerati prioritari per i finanziamenti; e i partenariati operativi con le autorità locali sono quasi inesistenti.
Il rapporto documenta anche l’impatto negativo di nuove crisi, come i conflitti in Sudan e nel Sahel, sulla disponibilità di risorse da dedicare alla fornitura di servizi di protezione. La mancanza di finanziamenti sostenuti minaccia ulteriormente i limitati servizi attualmente disponibili.
L’assenza di servizi essenziali espone i rifugiati e i migranti a un grande rischio di danni e di morte, oltre a innescare pericolosi spostamenti secondari. Alcuni rifugiati e migranti sottovalutano i rischi, mentre molti sono vittime delle informazioni manipolate da contrabbandieri e trafficanti.
Per questo motivo, l’UNHCR chiede ai donatori e alle parti interessate di sostenere gli interventi umanitari e di rinnovare la localizzazione degli sforzi, in cui tutti gli attori umanitari e dello sviluppo e i donatori collaborano per aumentare la disponibilità e le capacità dei servizi in luoghi mirati. Ciò include un migliore accesso ai percorsi legali di sicurezza e il miglioramento dei servizi di protezione per le vittime e per coloro che rischiano di diventarlo lungo le rotte.
È inoltre necessario potenziare i meccanismi di impegno e comunicazione della comunità a livello nazionale e tra le comunità della diaspora per diffondere informazioni sui pericoli dei viaggi, sfatare la falsa narrativa fornita da contrabbandieri e trafficanti e contribuire a trasmettere informazioni sulla disponibilità di percorsi alternativi sicuri e legali, come il ricongiungimento familiare e i servizi di protezione e assistenza.
Nota per gli editori:
Il rapporto “Mapping for Protection Services Report, a routes-based approach to protection services along mixed movement routes” fornisce informazioni personalizzate per rifugiati e migranti sui servizi attualmente disponibili sulle diverse rotte. Serve anche come riferimento per i donatori per indirizzare gli investimenti in risorse dove sono più necessarie e per gli attori più adatti a fornire questi servizi essenziali. La copertura geografica di questa edizione è stata ampliata a 15 Paesi (Algeria, Burkina Faso, Camerun, Ciad, Costa d’Avorio, Gibuti, Egitto, Etiopia, Libia, Mali, Mauritania, Marocco, Niger, Somalia e Sudan).
Copyright: © UNHCR/Fabio Bucciarelli
E’ stata allestita il 5 marzo la mostra “La memoria degli oggetti. Lampedusa, 3 ottobre 2013. Dieci anni dopo”, all’Eremo di Santa Caterina del Sasso, visitabile fino a martedì 9 aprile. Era già stata esposta a Milano presso il Memoriale della Shoah dal 27 settembre al 31 ottobre 2023. Nata da un’idea di Valerio Cataldi, giornalista Rai che da anni si occupa di immigrazione, e di Giulia Tornari, Presidente di Zona. Realizzata grazie ai fondi 8×1000 dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, è un progetto di Carta di Roma e Zona, curato da Paola Barretta, Imma Carpiniello, Valerio Cataldi, Adal Neguse e Giulia Tornari, con le fotografie di Karim El Maktafi.
A dieci anni dal naufragio del 3 ottobre 2013, quando al largo di Lampedusa persero la vita 368 persone, donne, uomini e bambini che dall’Eritrea cercavano di raggiungere l’Europa, l’esposizione ricorda la prima grande tragedia del Mediterraneo. Per la prima volta infatti, quel giorno di inizio ottobre, i corpi dei naufraghi furono visibili al mondo intero. Un evento che cambiò la percezione dei naufragi e che scatenò una reazione emotiva a livello politico, mediatico e sociale. Da quella tragedia, dal 2014 a oggi, si contano oltre 31.000 persone morte nel Mediterraneo con la speranza di raggiungere l’Europa.
La mostra ha l’obiettivo di mantenere viva la memoria dei migranti del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 attraverso l’esposizione di oggetti appartenuti ai naufraghi e la condivisione di testimonianze dei sopravvissuti, dei parenti delle vittime e dei soccorritori.
Una bussola, una macchinina rossa, una boccetta di profumo, uno specchietto, un telefono cellulare. La forza di quegli oggetti è che ci costringono a riconoscere che la nostra vita è piena delle stesse cose. Che solo il caso ci ha consentito di non aver bisogno di afferrare quegli oggetti e lasciare per sempre il nostro mondo. Dare dignità a quegli oggetti significa fare un passo verso la costruzione di una memoria condivisa, una memoria comune, quella degli esseri umani.
La memoria degli oggetti nasce proprio dalle cose appartenute alle persone migranti morte quel tragico 3 ottobre, repertati allora dalla polizia come corpi di reato, prove da portare in tribunale che hanno consentito di identificare le persone decedute anche grazie alle rilevazioni del DNA, di dare loro un nome e restituire dignità anche ai loro familiari. Una macchinetta rossa di un bimbo, un paio di occhiali da sole, una boccetta di profumo, uno specchio rotto, una bussola, un biglietto scritto a penna e ripiegato con cura nella tasca: oggetti di vita quotidiana, l’immagine più evidente di una umanità in fuga. Alcuni familiari hanno dovuto aspettare fino anche a 12 mesi per il riconoscimento dei corpi e anche per vedere tutelati i loro diritti, come banalmente avere un certificato di morte.
L’intento della mostra in occasione dell’anniversario è anche quello di sollevare questioni cruciali che vanno oltre l’individuo, che riguardano i diritti umani e il valore della vita in un mondo globalizzato e di fare un primo passo verso la costruzione di una memoria condivisa.
di Alidad Shiri su l’Adige
Scrivo ancora a caldo, con le lacrime, alcune righe per descrivere il mio stato d’animo e quello degli altri familiari delle vittime del naufragio di Cutro, a 40 minuti di auto da Crotone, avvenuto proprio un anno fa con 94 persone annegate, di cui 35 bambini. Come sapete, sono parente di un giovane di 17 anni, Attiqullah, ancora disperso. È un dolore questo che ti consuma, soffri tutti i giorni, aspetti sempre la notizia dell’identificazione di un corpo su cui piangere, di una notizia certa da comunicare ai parenti che continuano a subissarmi di domande. Come me molti altri uomini e donne di ogni età sono arrivati da tante parti del mondo, per questo momento insieme di memoria, almeno quelli che avevano la fortuna di avere un passaporto internazionale, mentre altri non potevano nemmeno venire, anche se il sogno che gli rimane è quello di andare sulla tomba del proprio caro. Come quello dei genitori di Zahra, che sono bloccati in Iran e non possono nemmeno piangere, pregare sulla tomba del loro figlio di 23 anni, che è stato sepolto in Finlandia a Espo, vicino a Helsinki, dove vive la sorella Zahra insieme al marito Hassan. Come altri che sono arrivati dalla Francia, dall’Olanda, dagli Stati Uniti, dalla Germania, dall’ Ungheria, dalla Finlandia e da altre città di Italia. Il cellulare continua a squillare, mentre siamo con Zahra, Hassan, Said, un gruppo di volontari dell’Associazione Memoria Mediterranea e alcuni cronisti al cimitero di Cutro. Stiamo ancora cercando di capire se c’è mio cugino tra i sei corpi senza nome, senza identificazione. È una mamma che ci chiama dall’Iran, anche lei vorrebbe essere in questo anniversario nei luoghi dove hanno perso la vita i suoi figli di 19 e 21 anni. Loro sono sepolti a Bologna, ma è impossibile spiegarle che è molto distante da questo luogo, che non può vedere con videochiamata la tomba. Vorrebbe parlare con i giornalisti per comunicare loro tutto il suo grande dolore, la sua impotenza nell’impossibilità di spostarsi. Ritorniamo a Crotone direttamente al Museo Pitagora. Appena scendo dalla macchina di Anna, inviata di Agorà, veniamo circondati da otto sopravvissuti giovanissimi afghani, che vengono da Amburgo. Hanno voglia di comunicare, raccontare l’inferno che hanno visto un anno fa, nel momento della strage. Uno di loro appartiene a quella famiglia di 21 persone sulla nave, di cui 16 sono morti e solo cinque sopravvissuti. Si mettono in fila per cercare di raccontare a turno quello che è successo. Inizia Mohammad, 25 anni, laureato in economia a Herat. Il padre si trova ancora in carcere, arrestato dai talebani, faceva parte dell’esercito afghano, anche il fratello. I talebani avevano dato a lui due scelte: o fare parte dell’esercito dei talebani o avrebbero arrestato anche lui. Improvvisamente di nascosto è scappato in Iran e quindi in Turchia. Anche Harun Mohammadi ha vissuto questo stesso meccanismo: anche lui non aveva finito Giurisprudenza quando sono arrivati i talebani. Il padre è scappato subito perché aveva lavorato con la NATO, lui un mese dopo con tutta la famiglia. In Iran non avevano documenti, quindi erano irregolari e dovevano sempre nascondersi. Dopo alcuni mesi, è partito anche lui per la Turchia, da dove pagando un trafficante, si arriva sulle coste dell’Italia con un barcone. Quella notte, terribile, se la ricordano bene, fino al momento della strage nella tempesta dove la memoria si offusca. Mohammad si ricorda di essere risalito a galla di avere visto i corpi dei bambini che galleggiavano ormai senza vita, sentiva le urla delle persone disperate. Insieme ad altri sei lui era riuscito ad aggrapparsi ad un’asse di legno. Ogni volta che un’onda arrivava con forza perdeva un paio di compagni, finche è rimasto da solo. Appena uscito dall’acqua,ricorda, si è buttato per terra e aveva parlato con qualcuno che poco dopo non parlava e respirava più. Un’esperienza terribile. Ora questi giovani sopravvissuti parlano della loro vita difficile in Germania. Fino a tre mesi fa le istituzioni tedesche non erano a conoscenza della loro provenienza dal naufragio di Cutro, non avevano nessuna assistenza psicologica, abitano ancora in un centro di accoglienza dove solo per avere una visita medica occorre un mese. Anche per un appuntamento con il medico di base occorrono dieci giorni. Per loro, come per altri sopravvissuti, il problema principale è il ricongiungimento famigliare, che gli era stato promesso dal governo. Con così tanto dolore, tanta rabbia dentro, per i sopravvissuti e per noi parenti delle vittime, non era certo facile tornare in quel luogo. Alcuni non ce la facevano a sopportare tutto questo, ci sono stati tanti malori. Davanti alle telecamere si cercava di trattenere il pianto, ma rientri nelle nostre stanze, il buio ci soffocava e c’erano fiumi di lacrime. Ci consolava ancora una volta l’appoggio, solidarietà, umanità della popolazione locale, dei volontari, delle associazioni che ci hanno accompagnato. Insieme a noi hanno pianto, hanno urlato, hanno camminato sotto la pioggia e ci hanno appoggiato nelle nostre forti richieste di giustizia, verità sulle responsabilità di chi non ha subito soccorso, basta morti nel mare, di organizzare canali sicuri per i ricongiungimenti famigliari, che non debba succedere mai più una simile strage.
Di Alessandro Puglia su Vita
La criminalizzazione del soccorso in mare torna prepotentemente sulla scena dei salvataggi nel Mediterraneo centrale nel 2022. In Italia al 23 dicembre secondo i dati del Ministero dell’Interno sono stati 101.127 i migranti sbarcati, numeri superiori rispetto al 2021 quando gli arrivi in Italia erano stati 64.612, soltanto 33.863 nel 2020. Dati che vanno contestualizzati davanti al costante evolversi dello scenario migratorio e alla pandemia Covid-19 che negli anni scorsi ha rallentato il numero delle partenze.
Sono invece 1.998 i migranti morti o dispersi nel Mediterraneo centrale secondo i dati del progetto Missing Migrants dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni, non considerando i naufragi che non è stato possibile documentare. Ai quasi 2mila morti tra cui almeno 88 minori si aggiunge il numero delle persone che vengono intercettate dalla guardia costiera libica e riportate nei centri di detenzione: oltre 23 mila nel 2022.
Al numero dei morti, vicino a quello del 2021 quando erano 2.062, al numero sempre crescente delle intercettazioni da parte delle autorità libiche, bisogna affiancare la percentuale dei soccorsi da parte delle Ong: soltanto il 14% secondo l’Ispi sul totale dei migranti arrivati in Italia (pari a più di 14mila persone tratte in salvo).
Ma in Italia c’è ancora chi parla di “pull-factor” e la criminalizzazione del soccorso in mare si ripresenta. Il nuovo governo Meloni dopo aver esordito con il criterio dello “sbarco selettivo” e l’espressione infelice di “carico residuale” dirotta ora le navi della società civile nei porti del Nord Italia, come accaduto negli ultimi sbarchi di Livorno nei confronti di 108 persone soccorse dalla nave Sea-Eye4 della Ong United4Rescue e precedentemente con la nave LifeSupport di Emergency che ha portato in salvo 142 naufraghi. Nelle prossime ore poi l’Esecutivo si appresta col decreto Sicurezza ha varare la tanto annuciata stretta sulle navi umanitarie.
«Le recenti operazioni delle navi di soccorso dimostrano che l’assegnazione veloce di un porto lontano ha un prezzo. I porti sicuri devono essere assegnati subito, ma con i porti molto a nord la volontà politica è di tenere le navi lontane dai soccorsi il più a lungo possibile», scrive Sea-Watch, Ong che dal 2014 ha portato in salvo oltre 35 mila persone e che oltre alle navi possiede due arei da ricognizione (Seabird 1 & 2) che permettono di monitorare le violazioni che avvengono nel MedIterraneo al pari di Pilotes Volontaires con i velivoli Colibrì.
L’impostazione del nuovo governo è ora anche quella di vietare alle navi Ong i soccorsi multipli: «Lo scopo di questi nuovi decreti è chiaro. Queste nuove regole hanno come obiettivo quello di diminuire le capacità di soccorso, mentre le persone, fuggendo, combattono per la propria vita. L’interruzione delle nostre missioni dopo ogni soccorso, anche se numericamente piccolo, e l’immediato ritorno a terra si tradurrà inevitabilmente in un aumento dei costi del carburante e in molto tempo perso», ha spiegato Hermine Poschmann di Mission Lifeline impegnata a dicembre nel Mediterraneo con la Sea Eye 4 e la Rise Above.
La flotta della società civile resiste. Nel 2022 la Geo Barents di Medici Senza Frontiere ha portato a termine 14 missioni nel 2022 salvando 3.742 persone, tra cui 1071 minori, 927 non accompagnati. Ad agosto è salpata per la sua prima missione la Sos Humanity che ha portato in salvo 855 persone e ancora altre navi come l’Astral e la Open Arms della omonima Ong spagnola che nel 2022 ha concluso 97 operazioni di soccorso o la Louise Michel che ha portato a termine quattro difficili operazioni di salvataggio e tornerà insieme alle altre sulla scena dei salvataggi nel 2023.
Marittimi, medici, soccorritori, psicologi, ostetriche, mediatori culturali: equipaggi di professionisti che ogni giorno in mare cercano di salvare vite umane.
Immagine in evidenza su Vita
Di Annalisa Camilli su Internazionale
La Commissione europea ha detto che il meccanismo di solidarietà tra i paesi europei rimarrà attivo, nonostante Parigi abbia rifiutato di ricollocare 3.500 richiedenti asilo dall’Italia, dopo che Roma a sua volta ha negato un porto di sbarco alla nave umanitaria Ocean Viking, che aveva salvato 234 persone lungo la rotta del Mediterraneo centrale. La nave umanitaria alla fine ha attraccato a Tolone, in Francia, dopo tre settimane di stand-off in mare.
La Francia ha contemporaneamente annunciato che non parteciperà più al meccanismo di ricollocamento, approvato nel giugno 2022 per emendare il regolamento di Dublino, ovvero le norme comuni europee secondo cui a prendere in carico le domande di asilo devono essere i primi paesi di ingresso in Europa. Il piano prevedeva inizialmente il ricollocamento di diecimila persone, poi diventate ottomila, che avrebbero dovuto essere trasferite dai paesi di approdo, come Italia e Grecia, in altri tredici paesi europei che avevano volontariamente aderito al progetto.
Da giugno tuttavia solo 117 persone sono state trasferite: di queste 38 sono andate in Francia dall’Italia alla fine di agosto. Altre 74 hanno lasciato l’Italia l’11 ottobre dirette verso le città tedesche di Hannover e Berlino. La Francia ha detto che ne avrebbe accolte altre cinquecento entro la fine del 2022. Il 13 novembre il portavoce del governo francese Olivier Véran ha chiesto all’Europa di reagire contro l’Italia. “La nostra risposta è stata umanitaria e abbiamo permesso alla nave di attraccare a Tolone”, ha detto. “Ma la seconda risposta è ricordare all’Italia i suoi obblighi, e se si rifiuta di farlo, prendere in considerazione ogni misura utile”.
L’Italia contro le ongIl 12 novembre è stata pubblicata una dichiarazione congiunta dei ministri dell’interno di Italia, Grecia, Malta e Cipro in cui si lamentano della lentezza del meccanismo di ricollocamento europeo e chiedono che non siano solo i paesi del sud dell’Europa ad accogliere gli sbarchi. “Non possiamo sottoscrivere l’idea che i paesi di primo ingresso siano gli unici punti di approdo europei per i migranti illegali”, è scritto nella comunicazione.
Nella lettera ci sono anche considerazioni poco fondate sulla condotta delle organizzazioni non governative che operano soccorsi, e che sono accusate di agire in maniera illegale e senza coordinarsi con le navi umanitarie. “Ribadiamo la nostra posizione sul fatto che il modus operandi di queste navi private non è in linea con lo spirito della cornice giuridica internazionale sulle operazioni di search and rescue, che dovrebbe essere rispettata”.
Questo è stato anche il punto su cui ha insistito il ministro degli esteri italiano Antonio Tajani, durante il Consiglio europeo dei ministri degli esteri il 14 novembre. Tajani ha chiesto “un codice di condotta” europeo che regoli l’operato delle navi umanitarie. Inoltre ha accusato le ong di agire in collusione con i trafficanti di esseri umani. “Un conto è il soccorso in mare, altra cosa è avere un appuntamento in mezzo al mare, una cosa completamente diversa”, ha detto Tajani, che ha incontrato a Bruxelles gli altri ministri degli esteri e la presidente del parlamento europeo Roberta Metsola.
“La verità vera è che dovrebbero essere le navi mercantili a fare il soccorso in mare; evidentemente ci sono delle ong che fanno un lavoro diverso per lasciare libere le navi mercantili dall’obbligo di soccorrere le persone in mare”, ha proseguito Tajani. Le accuse del ministro degli esteri ripetono quelle già mosse dai governi italiani alle ong tra il 2017 e il 2018. Nessuna accusa di collusione tra ong e trafficanti si è rivelata fondata fino a questo momento e l’Italia ha già approvato un codice di condotta per le ong (nel 2017) che tuttavia non può scavalcare il soccorso in mare prescritto dalle convenzioni internazionali di cui l’Italia è firmataria.
La risposta europea è stata molto ferma e non ha lasciato spazio alle richieste italiane: la Commissione europea ha dichiarato che il primo obbligo dei paesi è salvare vite in mare senza fare differenze tra navi delle ong e altri navi.
Tra l’altro l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), ha dichiarato che solo il 15 per cento dei migranti arrivati via mare in Italia è stato salvato dalle navi umanitarie. Tutti gli altri sono stati soccorsi dalla guardia costiera italiana e da altre navi di soccorso o sono arrivati autonomamente. Il 14 novembre, mentre non erano presenti navi umanitarie nel Mediterraneo centrale, sono arrivate in Italia mille persone. Uno studio sistematico di Matteo Villa dell’Ispi e di Eugenio Cusumano condotto sui dati del periodo 2014-2019 smentisce la teoria che lega la presenza delle navi delle ong in mare a un numero maggiore di partenze di migranti. E Villa puntualizza che anche “nei primi quattro mesi e mezzo del 2021 la media di migranti partiti ogni giorno dalle coste libiche è di 125 con le ong presenti nell’area Sar del paese nordafricano e 135 senza”. Questo dimostra che le navi umanitarie non rappresentano un fattore di attrazione per i migranti che sono determinati a partire.
La Commissione europea ha anche convocato un incontro di emergenza tra i ministri dell’interno europei per risolvere le controversie sull’immigrazione. Margaritis Schinas, vicepresidente della commissione, ha affermato che si sta pensando a un piano di emergenza per allentare le tensioni. “Non possiamo permettere che due stati membri si combattano in pubblico e creino un’altra crisi politica sulla migrazione”, ha detto in un’’intervista a Politico. Nel frattempo l’Italia pensa a una nuova stretta sulle ong che dovrebbe arrivare nei prossimi giorni con l’approvazione di nuovi decreti.
Immagine in evidenza di Vincenzo Circosta/Afp
Di Nello Scavo su Avvenire.it
Si dice che le parole plasmano il mondo. Non sempre in meglio. Specie se sono parole infarcite di menzogna, di tornaconto, usate per scavare fossati e tenere a distanza i morsi della coscienza.A chi verrebbe in mente di definire degli esseri umani «carico residuale»? Ci vorrebbe un Primo Levi per farsi spiegare cos’è un «carico residuale» fatto di carne umana, di anime ferite, di sguardi spersi, di famiglie separate: mamme e figli a terra, papà da rispedire ai mittenti da cui scappano. «Le parole erano originariamente incantesimi, e la parola ha conservato ancora oggi molto del suo antico potere magico.
Con le parole un uomo può renderne felice un altro o spingerlo alla disperazione». Chissà se i nuovi governanti e legislatori hanno mai letto Freud. O hanno ascoltato almeno un po’ papa Francesco, che a certe parole ha restituito il peso che fingiamo di non sentire più: «La cultura dello scarto, che colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura».
È «il carico residuale», in fondo non è che un altro nome dato agli «scartati». La neolingua orwelliana si arricchisce così di nuove allocuzioni. Con l’obiettivo non dichiarato di confondere la realtà rimescolando proprio le parole e il loro senso. Ma le parole sono anche rivelatrici. Diversi decenni dopo, quando ancora una volta in Europa risuonano le sirene antiaeree e il disprezzo dell’altro è di nuovo elevato ad arma di guerra con cui giustificare i colpi di fucile e le peggiori depravazioni, in quel Mediterraneo culla delle civiltà da chissà quale abisso vengono a galla editti ministeriali che sembrano vergati da doganieri addetti allo smistamento di qualche mercanzia.
Intervistato da Rtl 102.5 , ieri Matteo Salvini ha detto: «Bisogna stroncare il traffico non solo di esseri umani, ma anche di armi e droga». Esattamente ciò che “Avvenire” denuncia da anni, con nomi, cognomi, rivelando connessioni internazionali, legami che vanno dalla politica libica a quei faccendieri maltesi con un pied-à-terre nei palazzi del potere e coinvolti nell’omicidio di Daphne Caruana Galizia, fino ai mammasantissima della mafia siciliana. Prove passate al vaglio della magistratura nazionale e internazionale. Quel “Libyagate” che continua ad essere alimentato dalla “trattativa” tra Roma e Tripoli, sfociata nel memorandum d’intesa varato nel 2017 e confermato per due volte dai nostri governi.
Anche quello attuale, che appena cinque giorni fa ha lasciato che “il patto della vergogna” si rinnovasse d’inerzia. Nessuna parola, ancora una volta, viene spesa contro i crimini commessi in Libia dalle autorità del Paese e denunciati (se non bastassero anni di inchieste giornalistiche) da una ventina di rapporti firmati dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres e da 23 dossier della Procura internazionale dell’Aja. Ma del resto, se si tratta di «carico residuale», che senso ha sprecare anche una sola parola per loro?
Il Garante nazionale, nell’urgenza di salvaguardare l’incolumità fisica e psichica delle persone soccorse in mare da alcune navi battenti bandiera norvegese e tedesca, ribadisce fermamente la necessità che i diritti fondamentali delle persone prevalgano sulle controversie tra Stati.
Come già in passato e quale proprio dovere in quanto Meccanismo nazionale di prevenzione di trattamenti inumani o degradanti in virtù di un trattato ONU ratificato dall’Italia, ricorda a tutte le parti coinvolte i rischi che un mancato celere sbarco in un porto sicuro comporta, non solo per la salute delle persone ma anche sul piano della responsabilità in sede internazionale. A bordo delle navi in attesa si trovano centinaia di minori non accompagnati e persone vulnerabili provate da una lunga e travagliata permanenza in mare. Una situazione che deve terminare.
Se, in base ai trattati internazionali, gli Stati di bandiera delle navi in attesa di sbarco non hanno un obbligo di coordinamento delle operazioni di soccorso, è però vero che lascia stupiti la generale indisponibilità degli Stati membri a partecipare alla redistribuzione delle persone soccorse, una volta terminata la fase di salvataggio. Ancora una volta viene a mancare lo spirito che è alla base dei valori fondanti dell’Unione Europea.
Il Garante nazionale riafferma la propria censura di ogni tentativo di leggere primariamente con le lenti della contrapposizione politica il tema della salvaguardia dei diritti umani, trasformando le persone, comprese quelle più vulnerabili, in strumenti per affermare una propria visione della realtà, anche se astrattamente legittima.
Foto in evidenza di Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale
Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Un blocco navale per fermare gli arrivi di migranti verso l’Italia. E’ il piano proposto da Giorgia Meloni in vista delle elezioni politiche del prossimo 25 settembre. “Il blocco navale che propone Fratelli d’Italia è una missione militare europea, realizzata in accordo con le autorità libiche, per impedire ai barconi di immigrati di partire in direzione dell’Italia. Non si tratta di respingimenti, perché questi avvengono in mare aperto” si legge sul sito del partito di destra. Ma la proposta di un blocco navale è realizzabile davvero?
Stando all’articolo 42 dello Statuto delle Nazioni Unite il blocco navale non può essere attivato unilateralmente da uno Stato se non nei casi di legittima difesa, e cioè in caso di aggressione o guerra. Il contrasto all’immigrazione non rientra in nessuna delle fattispecie previste e dunque sarebbe illegale. Anzi, potrebbe essere equiparato a un atto di guerra da parte del nostro paese.
“Il blocco navale è un istituto preciso, regolato dal diritto di guerra e in questo momento c’è una guerra interna in Libia ma non c’è una guerra internazionale né contro l’Italia né contro l’Unione europea, quindi non ci sono i presupposti per evocare questa misura – spiega a Redattore Sociale Irini Papanicolopulu, professoressa associata di diritto internazionale all’università di Milano Bicocca – . Inoltre, non esiste un blocco navale concordato con il paese contro cui si fa. Ci sono casi specifici in cui può essere attuato, come nel caso di un conflitto armato, ma questo presuppone la perdita di neutralità da parte di chi lo opera. E’ a tutti gli effetti un atto ostile contro lo Stato verso cui si fa. E’, dunque, attualmente irrealizzabile”.
Secondo Papanicolopulu c’è probabilmente una confusione terminologica, si parla di “blocco navale” intendendo però “un’operazione di interdizione”. Che, però, allo stesso modo è possibile attuare solo ad alcune condizioni. “Nello specifico – spiega la docente – un’operazione di interdizione per fermare i migranti sarebbe contraria agli obblighi internazionali sia relativamente al diritto del mare che ai diritti umani”.
Nel 1997 l’allora governo Prodi mise in atto un’operazione per bloccare il flusso di profughi dall’Albania. L’operazione, chiamata impropriamente blocco navale, era realizzata di concerto con le autorità albanesi. Ma il 28 marzo dello stesso anno un’imbarcazione, la Kater I Rades, venne speronata dalla nave Sibilla della marina militare italiana nel tentativo di ostacolarne il passaggio. A bordo c’erano circa 150 persone, 83 persero la vita in mare. La tragedia, che rappresenta una delle pagine più buie della storia recente italiana, contribuì ad aprire un dibattito sui limiti del controllo delle frontiere da parte degli Stati. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati parlò di un blocco illegale da parte dell’Italia. E la misura venne sospesa.
“Anche l’operazione di interdizione navale è un istituto particolare che, proprio per il suo contenuto, può andare contro il diritto internazionale. In particolare va contro la libertà dei mari, cioè di navigazione, un principio secolare sancito dal diritto internazionale moderno – aggiunge la docente -. Solo in casi ben specifici e disciplinati dagli Stati si può fare. Tra le criticità c’è anche il diritto di passaggio inoffensivo nelle acque territoriali e la concreta liceità delle misure. In secondo luogo bisogna considerare la questione del rispetto dei diritti umani: c’è un trattato internazionale di cui fa parte perfino la Libia, il patto internazionale dei diritti civili e politici, che sancisce il principio per cui chiunque può lasciare un paese incluso il proprio”.
Non solo, ma ricorda Papanicolopulu, rispetto al 1997 la situazione è cambiata: “In questi vent’anni c’è stato uno sviluppo delle norme, diverse sentenze e trattati internazionali hanno offerto dei chiarimenti e ora il quadro è molto più definito, oltre ai principi generali abbiamo anche norme attuative che stabiliscono specifiche condizioni e limiti”.
E poi quali navi potrebbero passare e quali no? Cosa si fa con le navi mercantili? Inoltre, si potrebbe creare anche una situazione paradossale per il centrodestra: qualsiasi nave, anche da difesa, se incontra un’imbarcazione in distress ha l’obbligo di soccorso. E, dunque, se le navi chiamate a difendere i confini incontrassero un barchino carico di migranti in difficoltà sarebbero obbligate a prestare aiuto e a portare le persone nel porto più sicuro di sbarco. L’ipotesi di blocco navale o interdizione navale potrebbe così trasformarsi in una novella missione Mare nostrum. In caso contrario il nostro paese andrebbe incontro a nuove condanne: solo un mese fa la Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato la Grecia per un respingimento (e mancato soccorso) in mare.
Proprio per le polemiche nate dall’evocazione del “blocco navale” (su cui non si è detta d’accordo neanche la Lega) la stessa Giorgia Meloni in questi giorni ha cercato di spiegare la sua proposta, aggiustando il tiro: “Il tema degli sbarchi si deve affrontare col blocco navale, che altro non è che una missione europea, da concordare con le istituzioni europee, per trattare insieme alla Libia la possibilità che si fermino i barconi in partenza, l’apertura in Africa degli hotspot, la valutazione in Africa di chi ha diritto a essere rifugiato e di chi è irregolare, la distribuzione dei veri profughi e rispedire indietro gli altri. Occorre smetterla di considerare profughi e irregolari la stessa cosa: è una falsità costruita in questi anni dalla sinistra”, ha spiegato in una recente intervista a Studio Aperto.
L’obiettivo sembra dunque quello di rafforzare il Memorandum tra Italia e Libia, realizzato nel 2017 dall’allora governo Gentiloni, con l’aggiunta di hotspot per selezionare i richiedenti asilo nei paesi di transito extra europei. Una proposta che però contiene anch’essa dei limiti. “Questo tipo di proposte hanno tutte un retropensiero non espresso ma evidente: che si possa impedire il diritto di asilo come diritto di accesso individuale al territorio, selezionando i ‘veri rifugiati’ e bloccando le frontiere – spiega Gianfranco Schiavone, membro Asgi -. L’ipotesi è quello di un blocco navale realizzato sotto altre forme più o meno legali, ma tra l’ipotesi iniziale e quella apparentemente più ragionevole c’è una continuità di pensiero. Invece il diritto d’asilo prevede sempre il diritto di accesso al territorio dello Stato in cui si vuole chiedere protezione”.
Secondo Schiavone l’unica cosa che si può realmente fare è mettere in pratica procedure per facilitare l’ingresso dei richiedenti protezione internazionale, rilasciando visti umanitari. “Va esclusa la possibilità di un esame delle domande di asilo al di fuori del territorio in cui uno stato esercita la propria giurisdizione perché in tale contesto la domanda non può essere esaminata con tutte le garanzie necessarie, si pensi al diritto ad un ricorso effettivo – spiega -. Ciò che si può e si deve fare è riformare l’attuale normativa in modo da prevedere la presentazione di una domanda di asilo all’estero, si pensi a situazioni di chiaro pericolo, e il rilascio di visti di ingresso umanitari per il successivo pieno esame delle domande in Italia. Questa riforma ridurrebbe il numero di coloro che sono costretti ad affidarsi ai trafficanti per giungere in Italia e chiedere protezione. I paesi di transito però sono paesi dove ci sono scarse garanzie di rispetto dei diritti- aggiunge -. In Libia, poi, sarebbe impensabile un’ipotesi del genere”.
Sono 41.506 i migranti sbarcati in Italia nei primi otto mesi dell’anno. Undicimila in più rispetto al 1 agosto dello scorso anno, quando erano 29.350. Al primo posto nelle nazionalità di provenienza c’è la Tunisia (7.513), seguono Egitto (6.663), Bangladesh (6.151), Afghanistan (3.308) e Siria (2.370). I minori non accompagnati sono 4.345, in calo rispetto ai 10.053 dello stesso periodo del 2021. Eppure l’aumento generale degli sbarchi è già al centro della campagna elettorale in vista del voto del prossimo 25 settembre. Non a caso, il leader della Lega Matteo Salvini ha scelto Lampedusa tra le prime tappe del suo tour. Ma l’Italia è davvero di fronte a un’emergenza immigrazione?
Stando ai numeri, “l’aumento c’è ma è un aumento relativo, cioè su numeri bassi: parliamo di 40mila persone rispetto ai 29mila dello scorso anno. Basti pensare che tra il 2014 e il 2017 a fine luglio gli arrivi erano intorno ai 90-95mla- spiega Flavio Di Giacomo, portavoce di Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni) -. La ripresa degli sbarchi dipende dal periodo estivo, dal mare particolarmente calmo. Inoltre, la situazione in Libia è peggiorata, i migranti sono sempre di più vittime di violenze, abuse e violazioni dei diritti umani. E c’è un sistema di controllo del territorio meno efficace rispetto al passato, chi può fuggire dalla Libia cerca di farlo e può farlo”. Non solo, ma sul totale degli arrivi incide anche la rotta turco-calabra, attraverso la quale arrivano anche molti afgani in fuga dal regime dei talebani. “Il problema non è nei numeri, le persone fuggono per le condizioni in cui si trovano a stare, anche chi parte come migrante economico arrivato in Libia diventa un soggetto vulnerabile perché nel paese di transito subisce violazioni dei diritti umani ed è spesso vittima di tortura e tratta – aggiunge Di Giacomo -. C’è poi una situazione difficile in Tunisia e in Egitto”.
E poi c’è la questione dell’isola di Lampedusa, ormai da anni in perenne “emergenza” durante la stagione estiva. Qui arrivano per la maggior parte persone con sbarchi autonomi, cioè non intercettati in mare dalle navi della marina militare italiana o delle ong. Secondo i dati dell’Osservatorio Lampedusa di Mediterranean Hope, il progetto della Federazione delle Chiese evangeliche, sul totale di 41mila arrivi circa la metà (ventimila) è stato registrato a Lampedusa. Di questi novemila sono avvenuti nel solo mese di luglio anche per le condizioni meteomarine particolarmente favorevoli.
“Il mare è buono e le persone si mettono in mare. E continueranno a farlo: è una situazione che vediamo ripetersi ogni anno. Ma parliamo di numeri piccoli anche se comparati agli arrivi di questi mesi dei profughi dall’Ucraina – spiega Giovanni D’Ambrosio, operatore di Mediterranean Hope che lavora sull’isola siciliana -. In queste settimane abbiamo visto arrivare anche molte famiglie con minori o minori non accompagnati. In particolare dalla Tunisia arrivano persone stremate dalla crisi in corso del paese, non vedono più alcuna prospettiva di futuro e lì. Dall’Egitto invece vediamo arrivare persone che fuggono da un governo autoritario. Molti ci hanno detto di aver provato a ottenere un visto, non ci sono riusciti e l’unica alternativa è stata quella di prendere il mare e mettersi in pericolo”.
Per Mediterranean Hope, Lampedusa non può diventare il punto in cui vengono fatti convergere i flussi migratori del Mediterraneo centrale, “non ha i servizi idonei per far fronte alle vulnerabilità e alle esigenze dei migranti che arrivano” spiega ancora D’Ambrosio. L’hotspot, infatti, reso inagibile da un incendio negli anni scorsi, ha una capienza massima che si aggira intorno ai 300 posti, ma nelle scorse settimane le presenze hanno sfiorato anche le mille unità. Con il sovraffollamento le condizioni di accoglienza erano al limite: con famiglie e bambini costretti a dormire fuori, carenza di servizi igienici e scarsità di cibo. Per questo le organizzazioni chiedono che venga organizzato un sistema di trasferimenti rapidi dall’isola alla terraferma. “L’emergenza è in Libia, in Tunisia, nel Mediterraneo centrale. Noi operiamo qui dal 2014 e continuiamo a ribadire che le soluzioni si possono trovare: corridoi umanitari, accesso a vie sicure e legali e sostegno a chi salva la vita in mare. A Lampedusa bisogna attivare trasferimenti veloci, con le navi o attraverso ponti aerei”.
L’altra emergenza invisibile è quella delle morti in mare. Circa 700 i dispersi nei primi mesi dell’anno. Per questo le ong che operano per il salvataggio in mare (Sos Mediterranèe, Medici Senza Frontiere e Sea-Watch) hanno lanciato un appello per chiedere con urgenza l’avvio di un’attività di ricerca e soccorso (SAR) gestita a livello europeo nel Mediterraneo centrale.
Da una settimana la Geo Barents, nave umanitaria, attende l’indicazione di un porto sicuro con 659 persone a bordo. “Il mancato impegno a livello europeo di un’attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, oltre ai ritardi nell’assegnazione di un luogo sicuro di sbarco, hanno minato l’integrità e la capacità del sistema di ricerca e soccorso e quindi la possibilità di salvare vite umane – spiegano le ong -. Sebbene abbiamo sempre cercato di coordinare le nostre operazioni, come previsto dal diritto marittimo, le autorità navali libiche non hanno quasi mai risposto, trascurando il loro obbligo legale di coordinare l’assistenza. Inoltre, quando intervengono e intercettano le imbarcazioni in difficoltà, le autorità libiche rimpatriano sistematicamente e forzatamente i sopravvissuti in Libia, un paese che secondo le Nazioni Unite non può essere considerato un luogo sicuro.
Nonostante la grave mancanza di adeguate risorse per la ricerca e il soccorso in questo tratto di mare, le persone continuano a fuggire dalla Libia via mare, rischiando la vita per cercare salvezza. Nella stagione estiva, quando le condizioni meteorologiche sono più favorevoli per tentare un viaggio così pericoloso, le partenze dalla Libia sono più frequenti ed è quindi necessaria una flotta di ricerca e soccorso adeguata”.
La richiesta è di mettere a disposizione una flotta adeguata di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale gestita a livello istituzionale, e che fornisca una risposta tempestiva e adeguata a tutte le richieste di sos, unitamente a una pianificazione degli sbarchi dei sopravvissuti.
Foto in evidenza di Francesco Malavolta su Redattore Sociale
di Anna Spena, Matteo Riva e Paolo Manzo su Vita.it
I numeri non racchiudono le vite. Ma con le migrazioni forzate funziona così: ci muoviamo quasi alla cieca, non esistono dati ufficiali, dati aderenti alla realtà che possano in qualche modo circoscrivere un fenomeno. Camminiamo tra le stime, per lo più al ribasso. E le facce delle persone, con le loro vite, le perdiamo per strada. Quante sono le Lesbo, le Lampedusa, le frontiere di terra dai Balcani fino al Messico che non conosciamo? Che succede non solo in Italia, ma in Medio Oriente, Africa, in America Latina? Una risposta certa, come dicevamo, un dato certo, non esiste. Iniziamo però da una stima verosimile: alla fine del 2021, secondo il rapporto statistico annuale dell’UNHCR Global Trends, le persone in fuga da guerre, violenze, persecuzioni e violazioni di diritti umani risultavano essere 89,3 milioni. Da allora, l’invasione russa dell’Ucraina – che ha causato uno degli esodi forzati di più ampia portata e quello in più rapida espansione dalla Seconda Guerra Mondiale – e altre emergenze, dall’Africa all’Afghanistan ad altre aree del mondo, hanno portato la cifra a superare la drammatica soglia dei 100 milioni. La Turchia ha ospitato quasi 3,8 milioni di rifugiati, la popolazione più numerosa al mondo.
Dall’inizio dell’anno sono sbarcate sulle coste italiane (dato aggiornato al 14 luglio 2022 ndr) 31.675 i migranti. Non significa che in Italia hanno provato ad arrivare poco più di 30mila persone, significa che queste sono quelle arrivate vive. Quante sono state riportate in Libia? Quante sono morte in mare? Ma non esistono solo le frontiere di mare, anche quelle di terra. E lì tenere traccia è più complesso: ci si muove in gruppi più piccoli, su viaggi della speranza che durano mesi, spesso anni, e toccano diversi Paesi. Quello che sappiamo è che delle zone specifiche sono diventate un limbo e lì i migranti si bloccano e spesso non riescono ad andare avanti, a volte, neanche a tornare indietro.
È l’isola più estesa dell’arcipelago delle Pelagie. Per la sua posizione tra le coste nordafricane e il sud d’Europa, Lampedusa negli ultimi venticinque anni è stata una delle principali mete delle rotte dei migranti nel Mediterraneo. Il primo sbarco è stato registarto a metà ottobre del 1992 e ha coinvolto 71 maghrebini. È qui che il 3 ottobre 2013 un’imbarcazione carica di persone è naufragata a poche miglia dall’imboccatura del porto causando 366 morti e oltre 20 dispersi. In seguito a questo tragico evento, su proposta di un comitato appositamente costituito, il 15 aprile 2015 la Camera dei Deputati ha approvato con 287 voti favorevoli, 72 contrari e 20 astenuti l’istituzione, per il 3 ottobre, di una “Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione”. Qui la macchina dell’accoglienza è fluida o si inceppa a seconda del momento politico e del numero di sbarchi. Oggi vacilla: all’interno dell’hotspot di Lampedusa non si erano mai visti numeri così alti negli ultimi anni. Nella struttura di Contrada Imbriacola ci sono al momento oltre 2000 persone davanti a una capienza limite di 450-500 persone. Si tratta di sbarchi autonomi o di barconi che vengono accompagnati in porto da motovedette della guardia costiera o della guardia di finanza. I luoghi di partenza sono sempre Libia o Tunisia. E cresce il numero di minori non accompagnati.
Dall’inizio dell’anno sono oltre 4mila, nel 2021 erano stati settemila il numero totale delle persone sbarcate, i migranti arrivati nel porto calabrese o nelle spiagge vicine. L’estate scorsa gli sbarchi sono arrivati a una media di quattro al giorno. Arrivano su barche a vela pilotate dagli scafisti. Arrivano da Siria, Afghanistan, Iran, ma anche Bangladesh e Palestina. Un numero quello degli arrivi sulla Locride che di anno in anno cresce rapidamente e che ha avuto un’impennata tra il 2020 e il 2021. Chi arriva a Roccella Jonica lo fa principalmente dalla rotta della Turchia.
La Rotta Balcanica è una rotta dimenticata. Non interessa all’Italia. Non fa il rumore mediatico dei barconi che attraversano il Mediterraneo. E quei profughi che si mettono in marcia e attraversano i confini di sei o sette Paesi prima di raggiungere l’Europa – quando e se ci riescono – sono marginali. Perché loro in Italia non vogliono restare. Convenzionalmente la rotta inizia in Grecia, fisicamente finisce in Italia, a Trieste. Ma il viaggio di chi fugge inizia molti chilometri prima per finire poi nel Nord Europa. Quanti sono quelli che ogni anno si mettono in marcia per percorrerla non lo sappiamo. Ma a Trieste, nel 2021, sono state registrate 7500 persone, poco più di seimila sono entrate nei percorsi di accoglienza. A loro va aggiunto almeno un terzo che non viene registrato, quindi, l’ipotesi più plausibile, è che ogni anno le persone che transitano per la città e che poi spesso proseguono il viaggio per l’Europa del Nord siano circa 10mila.
Ultimo comune italiano prima del confine francese, Ventimiglia è un luogo di frontiera. 25mila abitanti e 30mila migranti che ogni anno qui arrivano, si fermano, provano ad oltrepassare il confine per raggungere la Francia e vengono rispediti indietro alla frontiera. Dal 2011, dopo la primavera araba, i flussi si sono intensificati. Vivere in un luogo di confine significa avere a che fare con questi fenomeni, trovarsi il mondo a casa. Ventimiglia è diventata la “Lampedusa del nord” dal 2015. Quando la Francia ha letteralmente chiuso ogni punto di passaggio e i valichi di frontiera sono stati militarizzati per fermare e scoraggiare i flussi migratori. Nel 2020 tra Ventimiglia e Mentone sono state respinte 22mila persone. In alcuni giorni i respingimenti dalla Francia riguardano anche più di 100 persone. Da quando è stato smantellato il Campo Roja, a inizio pandemia, a Ventimiglia non c’è nulla di istituzionale per la primissima accoglienza di chi passa da qui per andare in Francia.
È stato per anni il primo punto d’approdo dei profughi del Medio Oriente. Il campo di Moria pensato per duemila persone ne ha “imprigionate” fino a 20mila insieme nel 2020. A Lesbo ci sono migliaia di rifugiati dall’Afghanistan, dall’Iraq, dal Congo e da decine di altri Paesi. La notte tra l’8 e il 9 settembre 2020, un incendio devastò devastò il campo di Moria. All’indomani dell’incendio di Moria, le autorità Greche ed Europee avevano promesso che le condizioni di accoglienza sarebbero migliorate, ma le condizioni non sono migliorate.
Nel nord della Francia, nella zona di Calais, dove i migranti tentano la traversata verso il Regno Unito, la strategia dello Stato rimane da anni sempre la stessa: espellere le persone dagli insediamenti informali. Nel 2021, Human Rights Observers (HRO) ha registrato 1.226 espulsioni, cioè 102 espulsioni al mese. Più di tre al giorno. Queste espulsioni si inseriscono nel contesto della strategia “Zéro point de fixation” delle autorità. Lo scopo è quello di evitare a tutti i costi che un accampamento diventi troppo grande, costringendo le persone a spostarsi.
La Rotta Balcanica in Bosnia Erzegovina si blocca: i migranti non devono arrivare in Croazia. Il Paese che, insieme alla Turchia, “difende le frontiere europee”. Ma le difende da chi? La maggior parte dei profughi in Bosnia Erzegovina sono concentrati nel cantone di Una- Sana, al confine con la Croazia. Ce ne sono circa seimila – i numeri ufficiali non esistono – e sono concentrati nelle città di Bihač e Velika Kladusa. Tra aperture e chiusure dei campi profughi ufficiali è difficile tenere traccia delle persone. La maggior parte dei profughi vive negli squat, strutture fatiscenti e abbandonate. Stanno lì in attesa di provare il “game”, l’espressione che utilizzano per indicare il passaggio tra la Bosnia e la Croazia, a volte lo provano anche 20 volta prima di riuscire. E ogni volta sono gioco nella mani della polizia: violenze, rapine, uomini mascherati e vestiti di nero che fanno inginocchiare i rifugiati con le mani legate dietro la schiena per picchiarli con lunghi bastoni. Così si fingono svenuti come unica forma di autodifesa, ma la polizia continua, gli butta l’acqua addosso per svegliarli. La Croazia è la frontiera più dura per l’ingresso in Europa assieme a quella sul fiume Evros tra Turchia da una parte, e Grecia o Bulgaria dall’altra.
Partiamo da due dati sintetici: nel Paese ci sono 621mila migranti, di oltre 43 nazionalità diverse (dati Oim aggiornati a novembre 2021). Uomini, donne e bambini andati incontro alla detenzione arbitraria, alla tortura, a trattamenti crudeli, inumani e degradanti, agli stupri e alle violenze sessuali, ai lavori forzati e alle uccisioni illegali; 4300 persone si trovano nei centri di detenzione. L’unica cosa che sappiamo è che la Libia non è un Paese sicuro. Nel rapporto pubblicato da Medici Senza Frontiere “Out of Libya” vengono descritti tutti i punti deboli dei meccanismi di protezione esistenti per le persone bloccate nel Paese. I pochi canali legali verso paesi sicuri messi a punto da UNHCR e dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) sono lenti e restrittivi. Possono accedere alla registrazione solo le persone di 9 nazionalità, l’accesso alla registrazione è quasi inesistente al di fuori di Tripoli e nei centri di detenzione e i posti di ricollocamento nei paesi di destinazione sono limitati. Delle circa 40mila persone registrate con il programma di ricollocamento dell’UNHCR, solo 1.662 hanno lasciato la Libia lo scorso anno, mentre 3mila sono partite con il programma di rimpatrio volontario dell’OIM. Negli ultimi cinque anni sono state oltre 82mila le persone intercettate in mare e riportate in Libia, e allora perché continua il Memorandum tra i due Paesi, tra l’Italia e la Libia? L’assistenza dell’Unione europea ai guardacoste libici è iniziata nel 2016, così come gli intercettamenti in mare. La cooperazione è poi aumentata considerevolmente con l’adozione di un Memorandum d’intesa bilaterale, firmato da Italia e Libia il 2 febbraio 2017, e con l’adozione della Dichiarazione di Malta. Questi accordi costituiscono la base di una costante cooperazione che affida il pattugliamento del Mediterraneo centrale ai guardacoste libici, attraverso la fornitura di motovedette, di un centro di coordinamento marittimo e di attività di formazione. Gli accordi sono stati seguiti dall’istituzione della zona SAR libica, un’ampia area marittima in cui i guardacoste libici sono responsabili del coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso. Queste azioni, in grandissima parte realizzate dall’Italia e finanziate dall’Unione europea, come ha denucniato più volte Amnesty International, hanno da allora consentito alle autorità libiche di riportare sulla terraferma persone intercettate in mare, nonostante sia illegale riportare persone in un luogo nel quale rischiano di subire gravi violazioni dei diritti umani.
Ogni mese, in media, vengono espulse dall’Algeria e dalla Libia 2000 persone, alcune con ferite gravi, sopravvissute a episodi di stupro, e con forti traumi. Al momento dell’espulsione, le persone vengono abbandonate in mezzo al deserto al confine tra Algeria e Niger, in un luogo chiamato “Punto Zero”, a 15 km dalla città di Assamaka. Secondo i dati forniti dall’Ong Alarm Phone Sahara, circa 8.207 persone sono state espulse dall’Algeria verso il Niger nel primo trimestre del 2022. Un numero simile dovrebbe riguardare quelli espulsi dalla Libia.
I rifugiati presenti in Libano sono tantissimi ma nessuno è riconosciuto dal governo, che non ha mai firmato la convenzione di Ginevra sui profughi, dunque non riconosce lo status di rifugiato, per questo non ci sono campi strutturati, e per questo il problema dell’accoglienza è stato – anche – un problema di parole: come li chiamiamo? Profughi? Visitatori? Vivono da diversi anni in campi profughi informali nati in tutto il Paese, nelle tende, negli edifici abbandonati, nei garage senza finestre sul ciglio della strada. Le stime parlano di un milione e mezzo di persone. Sono per lo più profughi siriani che non possono tornare a casa: una casa ormai non ce l’hanno più o chi è scappato è ricercato dal governo di Assad e quindi non può più tornare indietro.Per capire fino in fondo il peso di questo numero bisogna guardare ad un altro dato, quello dei cittadini libanesi, poco più di sei milioni di abitanti per un Paese grande quanto l’Abruzzo. La situazione è ancora più drammatica da quando – con l’aggraversi della situaizone interna nel 2019 – l’80% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, la lira libanese si è svalutata del 90%. Il Libano è un Paese che sta collassando, sotto tutti i punti di vista e i profughi siriani insieme a lui.
Un quarto della popolazione mondiale dei rifugiati è siriana: 6,8 milioni di persone. A loro si aggiungono 7 milioni di sfollati interni, la più grande popolazione di sfollati interni del mondo. La crisi in Siria è ormai giunta al suo undicesimo anno e, in molte zone, i bisogni umanitari sono ancora elevatissimi. Nel 2020 i rapporti di forza sono cambiati ed il governo siriano che ha consolidato il controllo su vaste aree di territorio tra cui Homs, Ghouta orientale, Damasco meridionale e Daraa, mentre la situazione per i civili rimane estremamente instabile. Sono in corso conflitti e sfollamenti nei governatorati settentrionali, con il rischio di ulteriori escalation e insicurezza nel resto del Paese. La recessione dell’economia siriana, la svalutazione, l’aumento dei prezzi, il tasso di disoccupazione elevato hanno portato ad un grande aumento dell’insicurezza alimentare, che ad agosto 2021, ultimo dato disponibile, colpisce 12.8 milioni di persone.
Lo scorso 24 giugno 2000 i migranti hanno cercato di raggiungere la Spagna attraverso l’enclace di Melilla. Le vittime sarebbero almeno 37. Il canale televisivo Melilla afferma che i migranti che non sono riusciti a entrare sono tornati sulla montagna di Gurugú, dove la polizia marocchina sta smantellando diversi insediamenti. Gli immigrati sono prevalentemente di origine subsahariana e il Marocco si sta trasformando in da Paese di emigrazione a Paese di transito.
È una delle rotte di traffico di persone più pericolose al mondo. È una fitta foresta pluviale montuosa e paludosa di 25mila km quadrati, un corridoio controllato dal narcotraffico dove hanno il loro habitat naturale feroci giaguari, serpenti velenosi ed avvoltoi pronti ad attaccare chi giace a terra, morente. Il viaggio a piedi può durare dai 5 ai 15 giorni, a seconda delle condizioni atmosferiche, della resistenza fisica dei migranti e dell’abilità delle guide, i “coyote” che accompagnano dietro lauti compensi gruppi di disperati provenienti da tutto il mondo, dall’Africa, dall’Asia meridionale, dal Medio Oriente e dai Caraibi, che rischiano la vita nella speranza di raggiungere il “sogno americano” negli Stati Uniti. La maggior parte dei 140mila migranti nel 2021, 19mila dei quali bambini, proveniva da Haiti, mentre quest’anno il gruppo più numeroso è composto da venezuelani.
Quando escono dal Darien Gap, a bordo di canoe a motore, i migranti vengono portati a La Peñita, un villaggio che funge da centro di smistamento. Di fronte al centinaio di abitanti, qui si radunano ogni giorno sino a 1.200 migranti, per lo più in tende ed hangar, mentre un grande magazzino è stato riconvertito in un dormitorio. Per loro, tra cui moltissime donne e bambini, ci sono solo una dozzina di bagni chimici portatili, tutti in condizioni igieniche pessime. In una roulotte, i migranti consegnano i loro passaporti e si fanno scansionare l’iride e prendere le impronte digitali. Dopo le informazioni vengono inviate al sistema di registrazione biometrica degli Stati Uniti. La maggior parte dei migranti è controllata entro un paio di settimane e, poi, aspetta il proprio turno per salire a bordo di un autobus che li porterà in un campo profughi al confine con il Costa Rica.
I venezuelani che sono fuggiti dal loro paese dal 2013, quando l’attuale presidente Nicolás Maduro ha assunto il potere ereditato da Hugo Chávez, sono già oltre sei milioni, un quarto dell’intera popolazione, secondo le statistiche ONU. Due milioni di loro si sono rifugiati nella confinante Colombia, il secondo paese al mondo dopo la Turchia, e un milione in Perù. Il motivo per cui sono emigrati non è dovuto a una guerra, come i 7,2 milioni in fuga dall’Ucraina o i 6,8 milioni dalla Siria, ma per mancanza di cibo perché oggi il Venezuela ha gli stipendi più bassi al mondo, pari a 4 euro al mese. Eduardo Stein, il rappresentante speciale congiunto dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati e dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni Nazioni Unite ha avvertito che, se le cose non miglioreranno a Caracas, entro fine 2022 saranno 8,9 milioni i rifugiati venezuelani sparsi in 17 paesi dell’America Latina.
Tapachula è forse la più importante delle tante Lampedusa latinoamericane ed è una bomba a orologeria che potrebbe esplodere in qualsiasi momento a causa dell’elevato numero di persone che arrivano in questa città del Chiapas dopo avere attraversato la frontiera dal Guatemala. Situata vicino al confine, con appena 190mila abitanti ospita ben 40mila disperati, soprattutto venezuelani na anche molti cubani e haitiani, bloccati come fossero in un carcere dove non hanno alcuna possibilità di alloggio o di lavoro. In termini di richieste di asilo, l’anno scorso il Messico è stato il terzo paese al mondo a riceverne di più, con 131.400 richieste, superato solo dagli Stati Uniti con 188.900 e dalla Germania con 148mila.
Lo stato della Roraima è la porta d’ingresso per decine di migliaia di venezuelani in fuga dalla crisi economica. Oggi circa il 25% dei bambini nelle scuole e negli asili nido della capiutale Boa Vista sono di origine venezuelana. Negli ultimi 5 anni il Brasile ha concesso lo status di rifugiato a 287.000 venezuelani. Secondo i dati dell’Operazione Accoglienza, cui partner fondamentale è AVSI, sul totale dei venezuelani riconosciuti come rifugiati, circa 64mila sono stati distribuiti in 778 comuni verde-oro. Sono 600mila i venezuelani entrati in Brasile dalla Roraima negli ultimi anni.
Tra il 1 gennaio e il 30 giugno, il Guatemala ha accolto 42.313 cittadini rimpatriati forzatamente dagli Stati Uniti e dal Messico. Di questi, quasi il 20 per cento sono del dipartimento di Huehuetenango e, una volta espulsi a forza, hanno deciso di tornare al luogo di origine ma, sicuramente, molti riproveranno a raggiungere il “sogno americano”. Negli Stati Uniti oggi vivono circa tre milioni di guatemaltechi, la maggior parte dei quali sono irregolari. Sulle montagne di Huehuetenango, le più alte del paese a 1.900 metri sul livello del mare e nel cuore dei tropici, da 200 anni cresce uno dei migliori caffè del mondo. Il 10% dei migranti che parte da questo dipartimento guatemalteco che si trova nella regione nord-occidentale e confina con il Messico è composto da minori.
Le cifre mostrano una incredibile crescita del 57mila % dell’afflusso di cubani rispetto allo scorso anno. Tutti entrano dal dipartimento di El Paraiso da confinante Nicaragua, che lo scorso novembre ha eliminato l’obbligo del visto per gli abitanti dell’Avana, unico paese ad averlo fatto in America latina, il che spiega questo vero e proprio boom. Da allora, sempre più cubani arrivano in Honduras da dove iniziano un difficile viaggio attraverso l’America Centrale e il Messico fino a raggiungere il confine con gli Stati Uniti.
Un anno dopo le proteste dell’11 luglio 2021, l’esodo dei migranti cubani è esploso, con un aumento di 10 volte rispetto all’anno precedente, secondo la US Customs and Border Protection. Il fenomeno è iniziato lo scorso novembre, quando i presidenti di Cuba e Nicaragua hanno eliminato i visti prima necessari ai cubani per andare a Managua con l’obiettivo di facilitare il meccanismo di uscita e abbassare la tensione che si era creata sull’isola con le manifestazioni di massa e la successiva repressione. Una strategia simile a quella di Fidel Castro che tre decenni fa, quando lo scontento sociale all’Avana stava per esplodere, aprì il rubinetto dell’emigrazione e ci fu lo storico esodo del 1980, che vide la partenza di 125.000 cubani dal porto di Mariel su centinaia di barche. Anche adesso le proteste hanno trovato la loro valvola di sfogo in quella che è stata ribattezzata la “Mariel silenziosa”, un fenomeno migratorio che ha battuto ogni record.
1238 migranti sono morti o scomparsi nelle Americhe l’anno scorso mentre attraversavano le frontiere nella speranza di una vita migliore, e più della metà dei decessi e delle sparizioni sono avvenuti al confine tra Stati Uniti e Messico, secondo uno studio del Missing Migrants Project, un’iniziativa sostenuta dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, l’OIM. È il numero più alto di decessi di sempre. Tra i corpi identificati, i messicani deceduti sono 154, seguiti da 129 guatemaltechi e 94 venezuelani.
La migrazione dal Messico era diminuita tra il 2009 e il 2019, con un numero maggiore di messicani che lasciano gli Stati Uniti rispetto a quelli che arrivavano. Dal 2020, la combinazione tra la crescente violenza in Messico e il peggioramento della sua economia ha portato al primo aumento della migrazione messicana da 10 anni a questa parte. Il numero di messicani arrestati negli Stati Uniti è aumentato del 50% tra il 2019 e il 2020, passando da circa 170.000 a quasi 255.000. E la cifra continua a crescere: finora quest’anno ne sono stati fermati quasi 400.000.
Nelle ultime settimane si è intensificato il numero di nicaraguensi in fuga dal Paese a causa dell’irrigidimento del regime di Daniel Ortega di fronte alle proteste sociali e all’applicazione di leggi che puniscono i dissidenti con il carcere. La maggior parte di essi si concentra in Costa Rica, la destinazione più vicina e familiare, una frontiera già da tempo rovente. “Si stima che ci siano tra i 350.000 e i 400.000 esuli nicaraguensi in Costa Rica”, ha dichiarato Mariano Rosa del Movimento Socialista dei Lavoratori (MST), che dirige la Commissione internazionale per la vita e la libertà dei prigionieri politici in Nicaragua.
Trinidad e Tobago è la nazione caraibica più vicina al Venezuela, situate a soli 24 chilometri dal povero stato settentrionale venezuelano di Sucre, dove i settori del turismo e del petrolio sono crollati. Su queste isole oltre 30.000 venezuelani sono arrivati negli ultimi tre anni rischiando la vita nelle mani di contrabbandieri e trafficanti di esseri umani. Coloro che sopravvivono ai naufragi e agli scontri violenti con le pattuglie di frontiera, che non esitano ad uccidere, non ricevono protezione all’arrivo e le donne sono molto spesso vittime della tratta e costrette alla schiavitù sessuale, spesso con la complicità dei corrotti funzionari locali. Trinidad è a detta dell’ONU lo stato che peggio tratta i migranti in fuga dal Venezuela.
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