di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Nel maggio del 2021 il Parlamento europeo ha votato una risoluzione per chiedere una legislazione Ue sulla migrazione legale che “attirerebbe i lavoratori, indebolirebbe i trafficanti di esseri umani, faciliterebbe l’integrazione e incoraggerebbe una migrazione più ordinata”. Nel testo è lo stesso Parlamento a sottolineare che dal 2015 le forme di migrazione legale figurano a malapena nello sviluppo della politica europea. In particolare il Nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo non include alcuna proposta specifica in merito. Ma si concentra molto sul controllo esterno della frontiera, su come cioè fermare i flussi verso l’Europa nei paesi di origine e transito. Mentre quando parla di sponsorship lo fa solo in relazione ai rimpatri.
Eppure secondo il Parlamento attivare vie legali e sicure sarebbe un’opportunità soprattutto per gli stati membri. Innanzitutto tenendo presente l’invecchiamento della popolazione e la contrazione della forza lavoro: “Le politiche dell’Ue e nazionali in materia di migrazione legale dovrebbero concentrarsi sul fornire una risposta alle carenze dei mercati del lavoro e delle competenze”, spiega il Parlamento Europeo in una nota, dove chiede che la legislazione in vigore sia rivista e che il campo di applicazione sia più ampio. Nel testo viene anche sottolineato il ruolo importante delle rimesse e i benefici che una migrazione sicura, regolare e ordinata comporta sia per i paesi d’origine che per quelli di accoglienza.
Ma ad oggi la possibilità di arrivare in Europa da alcuni paesi in maniera regolare (con un visto d’ingresso e un passaporto) è pressoché impossibile. Non solo per chi vuole migrare per migliorare la propria situazione economica, ma anche per i tanti migranti forzati, in fuga da guerre, persecuzione, violenze e violazioni dei diritti umani. Secondo i dati della Fondazione Migrantes nel 2022, anno segnato da nuovi e vecchi conflitti, dalla pandemia di Covid-19 e dal cambiamento climatico, il numero di persone in fuga ha superato la soglia dei 100 milioni in tutto il mondo. Ma oltre il 70% di chi lascia il proprio Paese cerca rifugio in uno Stato confinante e solo una piccola parte arriva in Europa. “Il 2022 è stato l’anno in cui la guerra d’Ucraina ha prodotto nel cuore d’Europa, nel giro di poche settimane, rifugiati e sfollati a milioni, come non si vedevano dai tempi della Seconda guerra mondiale. L’anno in cui l’Europa ha saputo accogliere, di nuovo, milioni di profughi senza perdere un decimale in benessere e “sicurezza”(oltre 4.400.000 le persone registrate per la protezione temporanea solo nell’UE fino all’inizio di ottobre). Ma anche l’anno in cui la stessa Ue e i suoi Paesi membri hanno fatto di tutto per tenere fuori dai propri confini, direttamente o per procura, decine di migliaia di migranti e rifugiati altrettanto bisognosi di protezione”.
Anche i dati degli arrivi tramite i resettlemnt e corridoi umanitari restano bassi. Secondo il report la stima globale dei rifugiati con necessità di reinsediamento (resettlement) da precari Paesi di primo asilo nel 2021 era pari a 1.445.000 persone, ma nell’anno ne sono stati effettivamente reinsediati in tutto il mondo 57.500, il 4% scarso. Sono 32.289, invece, i rifugiati effettivamente partiti per un reinsediamento nel periodo gennaio-agosto 2022. Nel 2023 la stima del fabbisogno supera i due milioni di persone (+ 36% rispetto al 2022) ma il numero dei posti messi a disposizione dai paesi, in base a un sistema di quote è di 29 mila persone.
Il paese che ha messo a disposizione più quote è la Germania con 6.500 posti per i resettlment e 12mila per le ammissioni umanitarie. La Germania ad oggi è anche il paese che accoglie più rifugiati in Europa. Sui reinsediamenti per il prossimo anno seguono la Francia con 3000 posti, la Spagna con 1200, la Svezia con 900, l’Irlanda con 800, l’Olanda con 737, l’Italia con 500 (e 850 ammissioni umanitarie). Non hanno messo a disposizioni posti, invece, i cosiddetti paesi del cosiddetto gruppo di Visegrad.
Per quanto riguarda il progetto dei corridoi umanitari a fare meglio è l’Italia, che per prima ha lanciato il progetto nel 2015. Secondo un report della Comunità di Sant’Egidio su oltre 5.800 persone arrivate in sicurezza in questi anni, la stragrande maggioranza ha trovato accoglienza nel nostro paese. Negli ultimi anni hanno aderito al progetto la Francia che ha accolto 532 persone, di cui 530 dal Libano e 2 dalla Grecia; il Belgio che ha accolto 150 persone dal Libano e dalla Turchia e Andorra che ha accolto 16 persone dal Libano.
A fine novembre 2022 la Commissaria per gli affari interni, Ylva Johansson, ha ospitato un Forum ad alto livello per promuovere una più stretta cooperazione con i paesi e le organizzazioni partner al fine di ampliare le vie sicure e legali per le persone bisognose di protezione. “Gli Stati membri sono stati incoraggiati a sviluppare tali percorsi complementari. La Commissione fornirà nuovi finanziamenti per i progetti transnazionali legati a questa priorità – ha detto la Commissaria -. La Commissione continuerà a lavorare per sfruttare l’esperienza dei paesi partner internazionali e di altre parti interessate”. All’inizio del 2023 la Commissione pubblicherà un invito a presentare proposte per azioni transnazionali dell’Unione nell’ambito del Fondo Asilo, migrazione e integrazione per sostenere la condivisione delle migliori pratiche e la creazione di partenariati per l’integrazione. Ciò includerà il finanziamento di progetti incentrati sulla sponsorizzazione della comunità e percorsi complementari legati al lavoro. Tutti passi rilevanti che segnalano un primo cambio di attenzione. Ma il cammino per giungere ad una “via sicura” verso l’Europa è ancora tutto in salita.
UNA VIA SICURA è un reportage in dieci puntate realizzato e pubblicato da Redattore Sociale in collaborazione con Acri. Il lavoro giornalistico, curato da Eleonora Camilli con il supporto grafico di Diego Marsicano e la supervisione di Stefano Caredda, affronta da più punti di vista il tema delle migrazioni, raccontando alcune delle esperienze supportate da Acri nel suo Progetto Migranti.
Foto in evidenza di Agenzia DIRE
Di Alessandro Puglia su Vita
La criminalizzazione del soccorso in mare torna prepotentemente sulla scena dei salvataggi nel Mediterraneo centrale nel 2022. In Italia al 23 dicembre secondo i dati del Ministero dell’Interno sono stati 101.127 i migranti sbarcati, numeri superiori rispetto al 2021 quando gli arrivi in Italia erano stati 64.612, soltanto 33.863 nel 2020. Dati che vanno contestualizzati davanti al costante evolversi dello scenario migratorio e alla pandemia Covid-19 che negli anni scorsi ha rallentato il numero delle partenze.
Sono invece 1.998 i migranti morti o dispersi nel Mediterraneo centrale secondo i dati del progetto Missing Migrants dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni, non considerando i naufragi che non è stato possibile documentare. Ai quasi 2mila morti tra cui almeno 88 minori si aggiunge il numero delle persone che vengono intercettate dalla guardia costiera libica e riportate nei centri di detenzione: oltre 23 mila nel 2022.
Al numero dei morti, vicino a quello del 2021 quando erano 2.062, al numero sempre crescente delle intercettazioni da parte delle autorità libiche, bisogna affiancare la percentuale dei soccorsi da parte delle Ong: soltanto il 14% secondo l’Ispi sul totale dei migranti arrivati in Italia (pari a più di 14mila persone tratte in salvo).
Ma in Italia c’è ancora chi parla di “pull-factor” e la criminalizzazione del soccorso in mare si ripresenta. Il nuovo governo Meloni dopo aver esordito con il criterio dello “sbarco selettivo” e l’espressione infelice di “carico residuale” dirotta ora le navi della società civile nei porti del Nord Italia, come accaduto negli ultimi sbarchi di Livorno nei confronti di 108 persone soccorse dalla nave Sea-Eye4 della Ong United4Rescue e precedentemente con la nave LifeSupport di Emergency che ha portato in salvo 142 naufraghi. Nelle prossime ore poi l’Esecutivo si appresta col decreto Sicurezza ha varare la tanto annuciata stretta sulle navi umanitarie.
«Le recenti operazioni delle navi di soccorso dimostrano che l’assegnazione veloce di un porto lontano ha un prezzo. I porti sicuri devono essere assegnati subito, ma con i porti molto a nord la volontà politica è di tenere le navi lontane dai soccorsi il più a lungo possibile», scrive Sea-Watch, Ong che dal 2014 ha portato in salvo oltre 35 mila persone e che oltre alle navi possiede due arei da ricognizione (Seabird 1 & 2) che permettono di monitorare le violazioni che avvengono nel MedIterraneo al pari di Pilotes Volontaires con i velivoli Colibrì.
L’impostazione del nuovo governo è ora anche quella di vietare alle navi Ong i soccorsi multipli: «Lo scopo di questi nuovi decreti è chiaro. Queste nuove regole hanno come obiettivo quello di diminuire le capacità di soccorso, mentre le persone, fuggendo, combattono per la propria vita. L’interruzione delle nostre missioni dopo ogni soccorso, anche se numericamente piccolo, e l’immediato ritorno a terra si tradurrà inevitabilmente in un aumento dei costi del carburante e in molto tempo perso», ha spiegato Hermine Poschmann di Mission Lifeline impegnata a dicembre nel Mediterraneo con la Sea Eye 4 e la Rise Above.
La flotta della società civile resiste. Nel 2022 la Geo Barents di Medici Senza Frontiere ha portato a termine 14 missioni nel 2022 salvando 3.742 persone, tra cui 1071 minori, 927 non accompagnati. Ad agosto è salpata per la sua prima missione la Sos Humanity che ha portato in salvo 855 persone e ancora altre navi come l’Astral e la Open Arms della omonima Ong spagnola che nel 2022 ha concluso 97 operazioni di soccorso o la Louise Michel che ha portato a termine quattro difficili operazioni di salvataggio e tornerà insieme alle altre sulla scena dei salvataggi nel 2023.
Marittimi, medici, soccorritori, psicologi, ostetriche, mediatori culturali: equipaggi di professionisti che ogni giorno in mare cercano di salvare vite umane.
Immagine in evidenza su Vita
Di Maurizio Ambrosini su Avvenire
Si scorgono spiragli di novità nelle politiche dell’immigrazione dei grandi Paesi della Ue. Per circa cinquant’anni, dal primo choc petrolifero degli anni 70 del secolo scorso, la nuova immigrazione per lavoro era stata ufficialmente bandita. Rimanevano aperte le porte agli immigrati qualificati, per esempio in ambito sanitario, a un certo numero d’immigrati stagionali, e poco altro. Nel nuovo secolo, l’immigrazione dai nuovi Paesi entrati nella Ue, come Polonia, Romania, Bulgaria – cittadini ammessi nel giro di qualche anno alla piena libertà di movimento – per un certo periodo ha soddisfatto le richieste dei mercati del lavoro dei Paesi della vecchia Ue bisognosi di manodopera, tra cui l’Italia. Altri canali, come i ricongiungimenti familiari (Francia) e l’accoglienza di rifugiati (Germania, Svezia), assumevano in modo indiretto anche il compito di rifornire di manodopera il sistema economico. Ora però, nel contesto post-pandemico, le vecchie ricette stanno mostrando la corda. I datori di lavoro un po’ ovunque lamentano di non trovare i lavoratori di cui hanno bisogno, e dall’Est europeo, a quanto pare, non arrivano più candidati in numero sufficiente. Così Germania, Francia e Spagna stanno correndo ai ripari.
La Germania, con la sua robusta economia, è stata la prima a imboccare, sebbene con prudenza, la strada di una nuova politica degli ingressi. Una nuova legge, varata nel 2022, punta ad attrarre lavoratori in possesso di competenze utili al sistema economico tedesco.
Persone dotate di diplomi che attestino la loro qualificazione, conoscano sufficientemente la lingua tedesca, dispongano di un alloggio, siano in grado di mantenersi durante il periodo di ricerca di un’occupazione. La legge viene ritenuta ancora timida da molti esperti, irta di complicazioni burocratiche. D’altronde la previsione governativa di ammettere 25mila lavoratori all’anno rimane lontana dalle stime dei fabbisogni, che superano il milione di posti vacanti. È importante però il segnale, in una materia in cui messaggi e narrazioni hanno più che mai il potere di plasmare le visioni e quindi le decisioni politiche. La Germania, peraltro, in modo più discreto, si è già dotata di un meccanismo per integrare nel sistema occupazionale i richiedenti asilo diniegati, mediante corsi di formazione e accordi con le imprese. Il governo francese ha recentemente assunto un’iniziativa che va nella medesima direzione.
A fronte di un sistema d’ingressi legali per lavoro restrittivo e inefficiente, i ministri dell’Interno e del Lavoro hanno anticipato una proposta, che verrà discussa nel 2023: l’introduzione di un permesso di soggiorno per i “mestieri sotto tensione”, destinato agli immigrati irregolari già presenti, che troverebbero impiego, o l’hanno già trovato informalmente, laddove manca manodopera. Si rafforzerebbe così la corsia già in vigore delle regolarizzazioni caso per caso. Forse un nuovo strumento normativo neppure servirebbe, ma la proposta ha un significato culturale: mostrare che la Francia è di nuovo pronta ad accettare l’immigrazione per lavoro.
La Spagna conferma a sua volta una maggiore apertura a soluzioni pragmatiche e liberali in materia di politiche migratorie. Nell’agosto 2022 ha introdotto nuove norme per agevolare l’ingresso di lavoratori da Paesi terzi richiesti dal sistema produttivo. Le complesse procedure fin qui previste sono state parecchio alleggerite, soprattutto per il settore edile. Anche per chi è entrato nel Paese per motivi di studio o per un tirocinio formativo è ora più facile lavorare legalmente. La Spagna dispone inoltre di procedure piuttosto generose per regolarizzare chi non dispone di un permesso di soggiorno idoneo, e per evitare che gli immigrati che perdono il lavoro cadano nell’irregolarità. I maggiori paesi della Ue si stanno quindi riaprendo all’immigrazione per lavoro.
Il governo italiano ha annunciato di voler alzare le quote d’ingresso previste con il decreto flussi in gestazione, portandole sopra le 80mila unità. Dopo alcuni tentennamenti, sta per confermare però i vincoli che voleva introdurre: verifica della disponibilità di disoccupati percettori di reddito di cittadinanza, addirittura allargata a tutto il territorio nazionale, e scambio tra quote d’ingresso e accettazione dei rimpatri degli immigrati espulsi. Sono due mosse sbagliate, che non rispondono alle crescenti esigenze delle imprese, dei servizi pubblici e delle famiglie e tendono a mantenere una sorta di riserva dal sapore xenofobo. Soprattutto, rivelano la mancanza di una visione lungimirante e inclusiva, in grado di manifestare l’interesse del nostro Paese ad accogliere e valorizzare nuove energie. Una necessità destinata a farsi sempre più urgente.
Di Maurizio Ambrosini su Avvenire.it
Italia e Francia si rinfacciano, dunque, accuse di disumanità e di irresponsabilità sul dossier sbarchi e rifugiati, offrendo un deprimente spettacolo di discordia e di contrapposizione in un momento in cui l’Europa dei diritti e dei valori universali dovrebbe essere più che mai unita.Ma che cosa c’è di vero nell’idea dell’Italia «lasciata sola» a fronteggiare gli afflussi di profughi? Non molto, in verità, se si allarga lo sguardo dagli approdi via mare (e dalla parte minima di essi derivanti dai salvataggi in mare operati da Ong internazionali) all’accoglienza delle persone in cerca di protezione internazionale: quelle in definitiva che comportano oneri di ospitalità e presa in carico da parte degli Stati riceventi.
Secondo Eurostat, nel 2021, sono arrivate ai governi della Ue 537mila prime richieste di asilo, aumentate del 28% rispetto al 2020, anno della pandemia. E ad accoglierne di più è stata come sempre la Germania (148.000), seguita proprio dalla Francia (104.000), poi dalla Spagna (62.000). L’Italia si è collocata al quarto posto, con 45.000 richieste di asilo: meno della metà dei cugini transalpini. Se guardiamo al rapporto con la numerosità della popolazione, la Svezia (25 richiedenti asilo ogni 1.000 abitanti), l’Austria (15), o la stessa Francia (6), sono più ospitali dell’Italia (3,5), collocata sotto la media dell’Europa Occidentale.Ci sono poi i cosiddetti “movimenti secondari” dei rifugiati che, arrivati sul territorio di uno Stato, si spostano in un altro e ripresentano una domanda di asilo: la Francia nel 2021 ne ha ricevuti 30.000, molti dei quali passati attraverso l’Italia. Il punto è che i profughi non arrivano solo dal mare, ma anche via terra, a piedi, in auto, con trasporti pubblici, oppure in aereo, come i venezuelani che sbarcano in Spagna. Gli sbarchi sono più drammatici e visibili, ma non prevalenti. È uno sguardo ristretto, disinformato o volutamente distorto, quello che vede soltanto i profughi che approdano sotto casa sua.
Parigi ha poi accettato volontariamente la ricollocazione di 3.500 persone sbarcate in Italia: impegno appunto volontario, attuato con lentezza e presumibile riluttanza, ma pur sempre gesto di buona volontà. La provocazione italiana, che ha rivendicato come una vittoria l’accoglienza della Ocean Viking in un porto francese («L’aria è cambiata»: il ministro Salvini su facebook), ha scatenato la contro-provocazione francese: niente più accoglienza volontaria. Chiedere solidarietà ai vicini per storia e geografia e poi bastonarli o irriderli non è mai una buona mossa, così come far finta di non vedere le frontiere ermeticamente chiuse e la solidarietà sistematicamente negata dai vicini ideologici (i Paesi con governi nazional-sovranisti).
Dove la Francia si muove su un terreno discusso e discutibile è il controllo dei confini terrestri: qui la libera circolazione attraverso le frontiere interne della Ue è stata di fatto ristretta, sono state introdotte forme di profilazione razziale, sono stati perseguitati gli attivisti, è stata messa a repentaglio la vita dei profughi in transito per un principio di difesa dei confini non meno assolutizzato, e disumano, di quello che l’Italia si è tornati a inalberare. Nessuno in Europa d’altronde ha la coscienza pulita, se si pensa alle discusse imprese di Frontex ai confini esterni, o agli accordi con Paesi di transito come Libia, Turchia, Marocco.Viviamo un tempo fosco in cui le persone in fuga diventano «armi di una guerra ibrida», ai confini della Polonia, «carico residuale» sulle coste italiane, «animali» nel linguaggio di Donald Trump. Si cercano e ottengono voti respingendo le persone, oppure deportandole da un’altra parte. Basti pensare al tentativo di Danimarca e Regno Unito di trasferire i richiedenti asilo in altri continenti.
Ma anche Ron DeSantis è diventato una celebrità trasportando sull’isola di Martha’s Vineyard 50 migranti senza documenti validi, perlopiù venezuelani, convinti di andare a Boston. Gli esseri umani bisognosi di protezione diventano strumento cinico e crudele di cattura del consenso politico. Vogliamo tenacemente sperare in un Occidente e in un’Europa migliori, di cui l’accoglienza ai profughi ucraini ha dato un esempio: non sia un’eccezione, ma un’anticipazione profetica di un mondo migliore e più umano.
Di Luca Rondi su Altreconomia
“Le violenze al confine sono nuovamente tornate a crescere. L’utilizzo di spray urticante, pallini di gomma sparati su persone inermi, giovani obbligati a mangiare le sigarette che avevano nello zaino, bambini divisi dai loro genitori. È il solito copione”. Giulia Moretto, attivista di No Name Kitchen (Nnk), descrive così quanto accade sul confine serbo-ungherese: da quella piccola porzione di confine, in cui un’alta rete metallica e un filo spinato separa i due Paesi, migliaia di persone, uomini, donne e bambini, ancora oggi tentano di entrare nell’Unione europea. La “rotta balcanica” -tante vie che collegano la Turchia al sogno europeo- vede il consueto cambiamento nelle traiettorie percorse dalle persone che tentano il game, come viene chiamato il tentativo di attraversamento della frontiera, in base a dove il confine sembra più permeabile. Quello che non cambia, però, sono la violenza e le chiusure realizzate dalle politiche di governi locali ed europei. Sabato 24 settembre la rete RiVolti ai Balcani ha fatto il “punto” su quanto accade nella regione dei Balcani. E non solo.
La “strategia” europea che vuole trasformare il diritto di asilo in un privilegio per chi è abbastanza forte da resistere ai soprusi non è attuata solamente dai Paesi autocratici dell’Est Europa. Così, quanto succede in Turchia, Grecia, Bosnia ed Erzegovina e Ungheria è collegato alle politiche di esclusione che troviamo anche nel nostro Paese. La “democratica” Italia oggi ostacola infatti sistematicamente l’accesso all’asilo su tutto il territorio. Come ricostruito anche su Altreconomia, chiedere oggi asilo per chi arriva in Italia via terra è un miraggio. “È come se ci fosse una sorta di colpa nel fatto di non essere stati soccorsi in mare o rintracciati nei pressi della frontiera – ha spiegato Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà di Trieste (Ics)-. Per chi incontra le forze dell’ordine al suo arrivo l’amministrazione provvede a collocarlo in un centro e permettergli di chiedere asilo, tutti gli altri, invece, si scontrano contro un muro di gomma che è difficile da bucare”.
Da Trieste a Torino, passando per Milano, Piacenza, Roma: il copione si ripete. “È una strategia di deterrenza evidente, non possiamo parlare di inefficienza. Non si fa presentare la richiesta d’asilo alla persona di modo che questa non abbia diritto all’accoglienza nonostante questo sia un diritto previsto dal nostro ordinamento. Tanto che i tribunali amministrativi stanno condannando per inadempienza le questure e le prefetture. In certi casi si va anche oltre: si chiede ai richiedenti asilo di presentare il proprio domicilio. In un paradosso per cui chi dovrebbe darti un tetto su cui stare, te lo chiede”. È la frontiera burocratica, che oggi lascia all’addiaccio migliaia di persone. “Attualmente abbiamo 275 persone in strada che sono richiedenti asilo ma non vengono accolti – racconta Maddalena Avòn, operatrice legale di Ics-. Dov’è lo stato di diritto? Che tutela stiamo offrendo a queste persone? Vivo in prima persona la sensazione di frustrazione per chi, dopo anni di cammino, pensa di aver concluso il viaggio e si ritrova senza nulla”.
Quel che è certo è che non sono i “numeri” a giustificare la difficoltà delle amministrazioni nel disbrigo delle procedure burocratiche. Sono stati circa duemila gli arrivi a Trieste in agosto. Un numero più elevato rispetto ai mesi precedenti che diventa problematico per chi lavora nell’emergenza ma che in termini assoluti resta una briciola per un Paese, l’Italia, che ha tra le percentuali più basse di richiedenti asilo per abitante. Che l’Italia non sia Paese di arrivo ma di transito lo sa bene anche Martina Cociglio, operatrice legale di Diaconia Valdese che opera nell’alta Val Susa, a Oulx. Qui, a meno di venti chilometri dal confine, il rifugio Massi fornisce sostegno e un pasto caldo a circa 70 persone a notte. Ad agosto sono transitate circa 800 persone, in prevalenza provenienti da Afghanistan, Iran e Marocco e con un’elevata percentuale di minori stranieri non accompagnati. La polizia francese presidia i confini e respinge chi tenta di attraversare.
“Privazione della libertà personale, mancanza di assistenza legale, impossibilità di mediazione, nessun esame individuale della domanda d’asilo: queste sono le principali violazioni dei diritti di chi vuole raggiungere parenti, amici in un altro Paese dell’Ue -racconta Cociglio-. Chi arriva qui è convinto che non esistano più i confini militarizzati e le barriere che ha incontrato fino al giorno prima di quando non era nel nostro Paese. E invece non è così”. I controlli sono stati ripristinati nel 2015 con la giustificazione delle minacce legate al terrorismo: oggi vengono rinnovati ogni sei mesi da parte del Consiglio di Stato francese, senza motivazioni attuali e in contrasto con quanto previsto dal Codice frontiere Schengen. “Il paradosso è che ha più tutele chi arriva in Francia da un Paese terzo, via aereo, rispetto a chi arriva da un altro Paese dell’Ue. In aeroporto vengono riconosciuti molti più diritti che in frontiera. Il tutto con una base pretestuosa: l’Austria nell’aprile 2022 è stata condannata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea per aver ripristinato per un periodo di tempo troppo lungo i controlli ai confini interni”.
Anche chi si vuole fermare e sceglie di tornare a Torino da Oulx, si scontra contro il “muro di gomma” dell’impossibilità di presentare richiesta d’asilo. Un’impossibilità che si riscontra anche nei porti italiani di Ancona, Venezia e Brindisi. Un altro “tassello” di una strategia di negazione del diritto d’asilo messa in atto dal nostro Paese. “Vengono respinti senza neanche aver messo i piedi sul territorio italiano -dice Anna Clementi, operatrice sociale dell’associazione Lungo la rotta balcanica-. Una volta intercettati sono riconsegnati al comandante della nave che li riporta al punto di partenza. Senza alcuna garanzia”.
Ed ecco il collegamento con quanto succede nei Balcani. Il punto di partenza è a Patrasso, in Grecia, dove le persone vivono la violenza della polizia sistematica verso chi vuole imbarcarsi tentando la traversata in container caricati su navi merci. “Vengono spessi chiusi in celle, a volte anche all’aperto, sotto il sole, e lasciati per ore senza un documento che giustifichi il loro trattenimento. Un ‘segnale’ che la polizia vuole mandare a tutti coloro che sono pronti a imbarcarsi”. Più in generale la Grecia continua a essere un “laboratorio per le politiche securitarie messe in atto dall’Ue”, spiega Andrea Contenta, ricercatore indipendente attivo nel Paese. “Il governo porta avanti una politica di apartheid nei confronti dei migranti. C’è una forte criminalizzazione della solidarietà e il tentativo di cambiare l’ordinamento giuridico per poter utilizzare i fondi dell’Ue per realizzare politiche illegali”.
Risalendo dalla Grecia verso i Balcani occidentali, le rotte percorse da chi è in transito sono cambiate. In Bosnia ed Erzegovina la situazione sembra più “tranquilla” rispetto al passato. Meno respingimenti al confine anche connessi a un cambio di approccio della polizia croata che permetterebbe alle persone di presentarsi nelle stazioni di polizia e ricevere un “foglio di via” con cui poter viaggiare e lasciare il Paese entro sette giorni. “È difficile capire il perché di questo repentino cambio di atteggiamento dal marzo 2022. Sicuramente la vicinanza delle elezioni nel Paese ha un’influenza su tutto questo”, racconta Tamara Cetkovic di Iscos Emilia-Romagna. In Bosnia ed Erzegovina le associazioni incontrano soprattutto famiglie provenienti dal Burundi, che scappano da una situazione molto violenta nel loro Paese, come ricostruito anche da Human rights watch, e che raggiungono in aereo la Serbia e poi tentano di entrare in Ue da diversi confini, oltre che minorenni provenienti da Afghanistan e Pakistan.
Lipa, il campo di confinamento “all’avanguardia” costruito anche dall’Ue, a cui RiVolti ai Balcani ha dedicato uno specifico dossier di approfondimento, oggi conta poche centinaia di presenze e probabilmente verrà sempre più utilizzato come hub per poter aumentare i rimpatri dei migranti verso i Paesi d’origine. Nonostante questo la criminalizzazione della solidarietà continua a colpire. “Il 22 settembre il Service for foreigners affairs del ministro degli Esteri bosniaco ha notificato alla nostra organizzazione uno sfratto per sgomberare una casa entro 48 ore che usiamo come appoggio per immagazzinare il materiale che arriva dalle donazioni -racconta Matilda Zacco di Nnk-. Un atto di intimidazione accompagnato da convocazioni presso le stazioni di polizia per essere interrogati. Sono venuti per trovare un motivo ‘illecito’ per giustificare lo sgombero: non hanno trovato nulla, ma l’obiettivo è stato comunque raggiunto”.
No Name Kitchen è attiva anche in Serbia dove nelle ultime settimane, come detto, si registra un aumento delle violenze. Al confine con l’Ungheria, da un lato, e con la Romania, dall’altro, le persone vengono brutalmente respinte dalla polizia. “È una violenza sistematica -racconta ancora Zacco-. Oltre alla polizia ungherese è presente anche quella austriaca, registriamo infatti moltissimi respingimenti a catena con le persone ‘riportate’ indietro dall’Austria. Abbiamo testimonianze di persone che hanno ricevuto la ‘benedizione’ cristiana e a cui sono state disegnate le croci sulla testa. È una situazione tremenda”. No Name Kitchen stima la presenza di circa 3mila persone nel Nord della Serbia: la difficoltà dell’attraversamento di quel confine, militarizzato e con la presenza di un’alta rete metallica, aumenta anche i profitti per chi contrabbanda i migranti. Il prezzo del confine sale, soprattutto per le famiglie.
Dalla Serbia o dalla Croazia, per chi arriva a Trieste dopo aver attraversato la Slovenia, comincia l’incubo italiano. Le riammissioni, la pagina buia del nostro Paese che ha visto nel 2020 oltre 1.200 persone respinte dal confine orientale verso le violenze della rotta balcanica, sembrano essere interrotte ma permangono gravi violazioni dei diritti. “Sì, è una frontiera in cui l’esercizio dei diritti fondamentali non è garantito -riprende Avòn di Ics- Si verificano situazioni gravi: minorenni registrati come maggiorenni nonostante la presenza di Ong al confine. E poi anche chi viene identificato come minorenne viene lasciato in strada”. Proprio in strada, in piazza della Libertà, continua il lavoro di Linea d’Ombra. “L’aumento degli arrivi e delle richieste degli ultimi mesi ci mette in difficoltà -spiegano Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir-. Questa piazza, la piazza del mondo, resta però il simbolo della resistenza. Di chi vuole cambiare le cose. È un patrimonio che resta di tutti e tutte”.
Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Un blocco navale per fermare gli arrivi di migranti verso l’Italia. E’ il piano proposto da Giorgia Meloni in vista delle elezioni politiche del prossimo 25 settembre. “Il blocco navale che propone Fratelli d’Italia è una missione militare europea, realizzata in accordo con le autorità libiche, per impedire ai barconi di immigrati di partire in direzione dell’Italia. Non si tratta di respingimenti, perché questi avvengono in mare aperto” si legge sul sito del partito di destra. Ma la proposta di un blocco navale è realizzabile davvero?
Stando all’articolo 42 dello Statuto delle Nazioni Unite il blocco navale non può essere attivato unilateralmente da uno Stato se non nei casi di legittima difesa, e cioè in caso di aggressione o guerra. Il contrasto all’immigrazione non rientra in nessuna delle fattispecie previste e dunque sarebbe illegale. Anzi, potrebbe essere equiparato a un atto di guerra da parte del nostro paese.
“Il blocco navale è un istituto preciso, regolato dal diritto di guerra e in questo momento c’è una guerra interna in Libia ma non c’è una guerra internazionale né contro l’Italia né contro l’Unione europea, quindi non ci sono i presupposti per evocare questa misura – spiega a Redattore Sociale Irini Papanicolopulu, professoressa associata di diritto internazionale all’università di Milano Bicocca – . Inoltre, non esiste un blocco navale concordato con il paese contro cui si fa. Ci sono casi specifici in cui può essere attuato, come nel caso di un conflitto armato, ma questo presuppone la perdita di neutralità da parte di chi lo opera. E’ a tutti gli effetti un atto ostile contro lo Stato verso cui si fa. E’, dunque, attualmente irrealizzabile”.
Secondo Papanicolopulu c’è probabilmente una confusione terminologica, si parla di “blocco navale” intendendo però “un’operazione di interdizione”. Che, però, allo stesso modo è possibile attuare solo ad alcune condizioni. “Nello specifico – spiega la docente – un’operazione di interdizione per fermare i migranti sarebbe contraria agli obblighi internazionali sia relativamente al diritto del mare che ai diritti umani”.
Nel 1997 l’allora governo Prodi mise in atto un’operazione per bloccare il flusso di profughi dall’Albania. L’operazione, chiamata impropriamente blocco navale, era realizzata di concerto con le autorità albanesi. Ma il 28 marzo dello stesso anno un’imbarcazione, la Kater I Rades, venne speronata dalla nave Sibilla della marina militare italiana nel tentativo di ostacolarne il passaggio. A bordo c’erano circa 150 persone, 83 persero la vita in mare. La tragedia, che rappresenta una delle pagine più buie della storia recente italiana, contribuì ad aprire un dibattito sui limiti del controllo delle frontiere da parte degli Stati. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati parlò di un blocco illegale da parte dell’Italia. E la misura venne sospesa.
“Anche l’operazione di interdizione navale è un istituto particolare che, proprio per il suo contenuto, può andare contro il diritto internazionale. In particolare va contro la libertà dei mari, cioè di navigazione, un principio secolare sancito dal diritto internazionale moderno – aggiunge la docente -. Solo in casi ben specifici e disciplinati dagli Stati si può fare. Tra le criticità c’è anche il diritto di passaggio inoffensivo nelle acque territoriali e la concreta liceità delle misure. In secondo luogo bisogna considerare la questione del rispetto dei diritti umani: c’è un trattato internazionale di cui fa parte perfino la Libia, il patto internazionale dei diritti civili e politici, che sancisce il principio per cui chiunque può lasciare un paese incluso il proprio”.
Non solo, ma ricorda Papanicolopulu, rispetto al 1997 la situazione è cambiata: “In questi vent’anni c’è stato uno sviluppo delle norme, diverse sentenze e trattati internazionali hanno offerto dei chiarimenti e ora il quadro è molto più definito, oltre ai principi generali abbiamo anche norme attuative che stabiliscono specifiche condizioni e limiti”.
E poi quali navi potrebbero passare e quali no? Cosa si fa con le navi mercantili? Inoltre, si potrebbe creare anche una situazione paradossale per il centrodestra: qualsiasi nave, anche da difesa, se incontra un’imbarcazione in distress ha l’obbligo di soccorso. E, dunque, se le navi chiamate a difendere i confini incontrassero un barchino carico di migranti in difficoltà sarebbero obbligate a prestare aiuto e a portare le persone nel porto più sicuro di sbarco. L’ipotesi di blocco navale o interdizione navale potrebbe così trasformarsi in una novella missione Mare nostrum. In caso contrario il nostro paese andrebbe incontro a nuove condanne: solo un mese fa la Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato la Grecia per un respingimento (e mancato soccorso) in mare.
Proprio per le polemiche nate dall’evocazione del “blocco navale” (su cui non si è detta d’accordo neanche la Lega) la stessa Giorgia Meloni in questi giorni ha cercato di spiegare la sua proposta, aggiustando il tiro: “Il tema degli sbarchi si deve affrontare col blocco navale, che altro non è che una missione europea, da concordare con le istituzioni europee, per trattare insieme alla Libia la possibilità che si fermino i barconi in partenza, l’apertura in Africa degli hotspot, la valutazione in Africa di chi ha diritto a essere rifugiato e di chi è irregolare, la distribuzione dei veri profughi e rispedire indietro gli altri. Occorre smetterla di considerare profughi e irregolari la stessa cosa: è una falsità costruita in questi anni dalla sinistra”, ha spiegato in una recente intervista a Studio Aperto.
L’obiettivo sembra dunque quello di rafforzare il Memorandum tra Italia e Libia, realizzato nel 2017 dall’allora governo Gentiloni, con l’aggiunta di hotspot per selezionare i richiedenti asilo nei paesi di transito extra europei. Una proposta che però contiene anch’essa dei limiti. “Questo tipo di proposte hanno tutte un retropensiero non espresso ma evidente: che si possa impedire il diritto di asilo come diritto di accesso individuale al territorio, selezionando i ‘veri rifugiati’ e bloccando le frontiere – spiega Gianfranco Schiavone, membro Asgi -. L’ipotesi è quello di un blocco navale realizzato sotto altre forme più o meno legali, ma tra l’ipotesi iniziale e quella apparentemente più ragionevole c’è una continuità di pensiero. Invece il diritto d’asilo prevede sempre il diritto di accesso al territorio dello Stato in cui si vuole chiedere protezione”.
Secondo Schiavone l’unica cosa che si può realmente fare è mettere in pratica procedure per facilitare l’ingresso dei richiedenti protezione internazionale, rilasciando visti umanitari. “Va esclusa la possibilità di un esame delle domande di asilo al di fuori del territorio in cui uno stato esercita la propria giurisdizione perché in tale contesto la domanda non può essere esaminata con tutte le garanzie necessarie, si pensi al diritto ad un ricorso effettivo – spiega -. Ciò che si può e si deve fare è riformare l’attuale normativa in modo da prevedere la presentazione di una domanda di asilo all’estero, si pensi a situazioni di chiaro pericolo, e il rilascio di visti di ingresso umanitari per il successivo pieno esame delle domande in Italia. Questa riforma ridurrebbe il numero di coloro che sono costretti ad affidarsi ai trafficanti per giungere in Italia e chiedere protezione. I paesi di transito però sono paesi dove ci sono scarse garanzie di rispetto dei diritti- aggiunge -. In Libia, poi, sarebbe impensabile un’ipotesi del genere”.
Superare il sistema binario tra la gestione dello Stato e quella degli enti locali, bloccare la proliferazione dei centri di accoglienza straordinaria, garantire standard adeguati e uniformi, valorizzare il ruolo delle famiglie, attuare una progettazione condivisa, istituire una modalità permanente di consultazione del terzo settore. Sono sei le proposte per riformare il sistema di accoglienza italiano, presentate oggi (22/06/2022) dal Tavolo Asilo in una conferenza stampa a Roma.
“La nostra proposta nasce da un’indagine che abbiamo realizzato interrogando gli operatori e le operatrici che lavorano nei progetti territoriali – spiega Filippo Miraglia di Arci e coordinatore del Tavolo Asilo e immigrazione -. Quest’anno ricorrono i vent’anni della legge Bossi-Fini, una delle riforme legislative peggiori della storia dell’immigrazione in materia di asilo. In quella riforma, che puntava a ridurre lo spazio dei diritti degli stranieri, legandone la presenza a un contratto di lavoro, gli ultimi due articoli introducevano il sistema di accoglienza unico per richiedenti asilo e rifugiati. Eppure in tutti questi anni non si è riusciti ad abbandonare un approccio emergenziale per strutturare un sistema che risponda realmente alle esigenze del nostro paese e delle persone che arrivano qui a chiedere protezione – aggiunge Miraglia -. Le recenti vicende legate alla crisi ucraina hanno dimostrato che il sistema non è in grado di rispondere adeguatamente, il Governo ha affidato la gestione alla Protezione civile e a distanza di 4 mesi la risposta è stata marginale. La stragrande maggioranza delle persone è accolta da privati, amici e parenti”.
La proposta dettagliata di riforma dell’accoglienza parte da un punto fondamentale: superare il sistema binario. Come spiega Gianfranco Schiavone presidente dell’Ics di Trieste e membro di Asgi, “oggi c’è una chiara distinzione di competenza tra stato e autonomie locali. Ma nella prassi vige una confusione totale su chi deve fare cosa”. Per questo il Tavolo Asilo chiede un trasferimento delle funzioni amministrative ai Comuni per la gestione ordinaria dell’accoglienza territoriale e trasformare il Sai (Sitema di accoglienza e integrazione) da programma a sistema unico. Inoltre, secondo le organizzazioni che compongono il Tavolo bisogna superare la volontarietà da parte degli enti locali nell’assumere la scelta su se e quando aderire nonché uscire dal sistema di accoglienza. “Questo ha impedito negli anni che il sistema si sviluppasse, diventando un programma nazionale di accoglienza diffusa e integrata – aggiunge Schiavone -. E’ altresì difficile per un amministratore locale coscienzioso aderire a un progetto di accoglienza se è in un territorio in cui altri non lo fanno anche per ragioni elettorali e di propaganda. Tutti, invece, devono essere chiamati a fare la loro parte”.
In secondo luogo si chiede di fermare l’infinita proliferazione dei cas, i centri prefettizzi per l’accoglienza straordinaria ed attuare un programma nazionale per il loro progressivo superamento. Per farlo sarà necessario investire le regioni della responsabilità di attuare il trasferimento delle competenze, anche attraverso l’istituzione di una cabina di regia regionale che coinvolga le prefetture, Anci e una rappresentanza del terzo settore. Si chiede anche di adottare subito alcune concrete misure di incentivo agli enti locali che intendono aderire al Sai, prevedendo in particolare l’assegnazione di un contributo economico periodico pluriennale.
Il terzo punto della riforma riguarda la modifica dei capitolati di gestione dei cas per garantire standard adeguati ed uniformi su tutto il territorio. Si chiede poi di superare la logica dello scambio utilitaristico nella gestione dei servizi di accoglienza e attuare una progettazione condivisa tra enti locali e il terzo settore. Il quinto punto riguarda il riconoscimento del valore e la promozione dell’accoglienza in famiglia all’interno del sistema istituzionale. “Dai primi anni 2000 si sono sviluppate esperienze indipendenti all’interno delle famiglie italiane ma ad oggi tutto questo rimane a livello di sperimentazione – sottolinea Fabiana Musicco, direttrice di Refugees Welcome -. Vogliamo invece che siano considerate all’interno di un piano accoglienza”. Infine, la riforma pensata dal Tavolo asilo si chiude con la richiesta dell’istituzione in modalità permanente di consultazione degli enti di terzo settore.
Immagine in evidenza di Redattore Sociale
Di Alessandro Luparello su Voci Globali
“In molti Paesi europei, negli ultimi anni i difensori dei diritti umani e le organizzazioni della società civile che hanno aiutato rifugiati e migranti sono stati sottoposti a procedimenti penali infondati, limitazioni indebite alle loro attività, intimidazioni, vessazioni e campagne denigratorie. Le loro azioni di assistenza e solidarietà li hanno messi in rotta di collisione con le politiche europee sulla migrazione, che hanno l’obiettivo di impedire a rifugiati e migranti di raggiungere l’Unione Europea, di trattenere quelli che riescono a entrare in Europa nel Paese di primo arrivo e di espellerne quanti più possibile verso i loro Paesi d’origine.”
“Soccorrendo rifugiati e migranti in pericolo in mare o sulle montagne, offrendo loro riparo e cibo, documentando gli abusi della polizia e delle guardie di frontiera e opponendosi alle espulsioni illegali, i difensori dei diritti umani hanno svelato la crudeltà delle politiche sull’immigrazione e sono diventati essi stessi bersagli delle autorità. I leader politici e le forze di sicurezza hanno trattato atti di umanità come minacce all’ordine pubblico, ostacolando ulteriormente il loro lavoro e costringendoli a impiegare le loro scarse risorse e le loro energie per difendersi in tribunale.”
Ecco l’inizio, inequivocabile nelle affermazioni e nei termini, della sintesi del rapporto “Punire la compassione: solidarietà sotto processo nella Fortezza Europa”, pubblicato a marzo 2020 da Amnesty International.
Queste frasi riassumono la prepotente e pervasiva deriva xenofoba e di chiusura asfittica (e violenta) dei confini cui assistiamo in Europa, e in Italia. Il tutto, osserviamo, passa attraverso una narrativa d’odio verso l’altro, il diverso, lo straniero e, per riflesso, verso chiunque si muova in suo aiuto per il rispetto dei diritti universali e per umano senso di fratellanza e sorellanza.
Ma è sempre stato così? In Italia, almeno, è indubbio un cambio di passo, una modifica del linguaggio che ha seguito il deciso indirizzo politico e ha comportato un significativo impatto sull’opinione pubblica. Ricordiamo bene come la narrativa mediatica, politica e informativa, sia scivolata velocissimamente dalla retorica degli “angeli del mare” a quella -delirante e falsa ma strumentale- dei “taxi del mare” (rimanendo nel campo delle operazioni di salvataggio nel Mediterraneo delle persone migranti).
Proviamo a capirne di più parlando con Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato che opera attivamente nella difesa dei migranti e dei richiedenti asilo, in collaborazione con diverse ONG, e con Luca Casarini, capomissione di Mediterranea Saving Humans e che è stato direttamente oggetto di inchieste legate alla sua attività di salvataggio di persone in mare.
Partiamo proprio dal linguaggio. Quanto è stato importante, nel cambio della percezione generale dei cittadini, la modifica del linguaggio usato dalla politica e veicolato/amplificato attraverso i canali di comunicazione?
Luca Casarini afferma senza esitazioni che è stato fondamentale.“Pensiamo appunto alla formula, introdotta da Di Maio, dei ‘taxi del mare’. È quello il momento – cristallizzato in uno slogan per i media- nel quale l’umanitario diventa un campo di conflitto e non più un ‘contradditorio ma tollerabile’ terreno di relazione tra istituzioni e società civile. Si rende esplicito e radicale, da parte dello Stato, il tentativo di ‘dividere’ il lavoro e l’impegno umanitario in ‘sussidiario’, e dunque buono, e ‘sovversivo’, e quindi cattivo.
I danni di un’operazione del genere, alimentata dalla grancassa dei media, sono incalcolabili sul piano culturale e sociale. Ovviamente, per legittimare il processo di criminalizzazione dell’umanitario, c’è bisogno di ‘spersonalizzare’ le vittime delle violazioni dei diritti umani: devono essere solo numeri, non persone con volti, storie, nomi, parenti e famiglie.”
La spersonalizzazione e disumanizzazione delle persone è appunto un passaggio cruciale e fondante di quella narrativa che ci consente di attaccare l’altro, finalmente scevri da dubbi etici e dal controllo delle coscienze, autoassolvendoci da ogni disumanità e crudeltà che altrimenti -riconoscendola- non saremmo in grado di tollerare in noi stessi.
Fulvio Vassallo Paleologo precisa che “purtroppo il linguaggio discriminatorio non si è limitato ai media ma è entrato nel corpo di provvedimenti delle procure siciliane che hanno indagato e chiesto il rinvio a giudizio delle ONG accusate di facilitare l’ingresso ‘clandestino’ dei naufraghi soccorsi in mare. Molte persone che avrebbero potuto trovare salvezza in Europa continuano ancora oggi ad essere internate nei centri di detenzione in Libia, o abbandonate in mare”.
E aggiunge che “utilizzare espressioni come ‘migranti sottratti alla guardia costiera libica’ – nel corpo di importanti provvedimenti di richiesta di rinvio a giudizio di operatori umanitari (come nel caso Iuventa) che hanno soccorso in mare migliaia di vite – equivale a dare una valenza sanzionatoria all’espressione ‘taxi del mare’, in assenza di qualsiasi base legale e dopo che questa vergognosa definizione è stata ampiamente smentita dai fatti documentati nei numerosi processi nei quali le indagini contro le ONG sono state archiviate”.
Ma se dovessimo individuare -semplificando – un momento specifico in cui maggiormente si è costruito e manifestato un cambio di approccio delle Istituzioni italiane ed europee al fenomeno migratorio e alla comunicazione dello stesso verso i cittadini, quale potremmo identificare?
Una dettagliata risposta arriva da Fulvio Vassallo Paleologo: “L’anno della svolta è il 2017. Dal 2014 in poi gli arrivi via mare in Italia si erano moltiplicati, soprattutto per effetto della crisi siriana, con 170.000 persone arrivate nel 2014 e 153.000 persone arrivate nel 2015 (secondo dati dell’UNHCR e del Ministero dell’interno); nel 2016, dopo gli accordi stipulati dai Paesi dell’Unione Europea con la Turchia e la chiusura quasi completa delle rotte sull’Egeo, erano stati soccorsi nel Mediterraneo centrale oltre 180.000 profughi, poi sbarcati in Italia e provenienti in gran parte dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Pakistan e dall’Iraq, numero che nel 2017 era destinato a crollare, soprattutto dopo la stipula del Memorandum d’intesa tra Italia e Governo di Tripoli del 2 febbraio 2017.
La criminalizzazione di persone e organizzazioni che prestano assistenza agli immigrati in Europa è espressione della chiusura delle vie di ingresso legale, anche per ragioni umanitarie, e della crescente difficoltà di accedere alla procedura di asilo in frontiera e di soggiornare legalmente. I processi di criminalizzazione, soprattutto a livello mediatico, hanno riguardato prima i cosiddetti ‘clandestini’, poi coloro che gli prestavano soccorso, infine i cittadini solidali, le associazioni di volontariato e i singoli amministratori locali, che prestavano assistenza a terra, fino ad intaccare il principio di separazione dei poteri, la libertà di informazione ed i diritti di difesa. È finito compromesso lo stesso esercizio della giurisdizione sotto una pressione politica e mediatica senza precedenti.
A partire dal 2017, anno della stipula del Memorandum d’intesa tra Italia e Governo di Tripoli si è sviluppata una forte attività di indagine nei confronti dei rappresentanti delle ONG che operavano attività di monitoraggio e soccorso nel Mediterraneo centrale con diversi sequestri preventivi e con procedimenti penali che sono stati archiviati o che rimangono ancora nella fase delle indagini preliminari”.
Anche Luca Casarini individua lo stesso momento storico: “Mi sembra che uno dei momenti ‘topici’ degli ultimi anni, che può rappresentare bene un ‘cambio di narrazione’ da parte delle istituzioni in merito al fenomeno migratorio, si possa ascrivere alla famosa intervista su Repubblica del 29 agosto del 2017 dell’allora ministro degli interni Marco Minniti nella quale affermava ‘sui migranti ho temuto per la tenuta democratica del Paese’”.
Proprio a questo proposito, quanto peso hanno avuto l’aumento del numero degli arrivi, sulle nostre coste, di persone in percorso migratorio e – appunto – la ‘paura per la tenuta democratica’ e quanto invece la progressiva chiusura degli Stati europei?
Ancora Luca Casarini: “Ci voleva la guerra in Ucraina per far capire che la questione dei ‘numeri’ è tutta una montatura. Siamo un Paese di 60 milioni di abitanti in un continente di 500 milioni. Stiamo parlando di arrivi alle frontiere, anche negli anni di punta che non sono gli ultimi dieci, di numeri gestibilissimi. Non vi sono invasioni, non vi sono esodi di popolazioni intere, niente come ciò che abbiamo gestito in una settimana per l’Ucraina. E comunque, il fenomeno dello spostamento di esseri umani nel mondo riguarda poco meno di 100 milioni di persone. In un pianeta di 7 miliardi.
È un fenomeno strutturale, permanente e incentivato solo e solamente dalle scelte politiche, economiche ed energetiche della parte che si mangia l’80% delle risorse disponibili e che è il 20% della popolazione mondiale, concentrata nel Nord del pianeta. Di fronte a questo abbiamo anche il coraggio di meravigliarci? Di fare le ‘povere vittime’ dell’immigrazione incontrollata? Inondiamo il mondo di armi e di guerre, devastiamo interi Paesi per succhiargli petrolio, gas, diamanti, minerali e li riduciamo a dei luoghi invivibili, dove non si può nemmeno piantare una patata, e poi ci lamentiamo?
Produciamo tanta CO2 da alzare la temperatura globale fino a desertificare, ogni giorno, centinaia di chilometri quadrati di terre. Disboschiamo le grandi foreste al ritmo di una Lombardia al giorno, ma siamo davvero senza vergogna a tal punto da proferire ancora parola su questo?”.
“Adempiere gli obblighi di soccorso sanciti da un Regolamento europeo” – aggiunge Fulvio Vassallo Paleologo – “non può comportare rischi per la tenuta democratica di un Paese. Sono comunque molto più gravi i rischi, che spesso comprendono il sacrificio della vita umana in mare, per le persone abbandonate in acque internazionali senza che gli Stati inviino mezzi di soccorso o assumano i compiti di coordinamento delle operazioni di salvataggio previsti dalle Convenzioni internazionali”.
La criminalizzazione, giocata su più tavoli, ha riguardato e continua a riguardare attiviste e attivisti, associazioni, organizzazioni (peraltro altrimenti molto stimate, come Medici Senza Frontiere) impegnate nella solidarietà, nel soccorso, nell’aiuto alle persone in percorso migratorio.
E questo nonostante alcune palesi evidenze, più volte dimostrate, come il fatto che – senza il soccorso operato da ONG e attivisti (in supplenza degli Stati assenti) – le persone sarebbero probabilmente morte (il Mediterraneo è la rotta migratoria più mortale al mondo). O come il fatto che il numero di persone che tenta di attraversare il Mediterraneo verso l’Europa non dipende dall’eventuale presenza di navi SaR al largo (cfr. ricerche ISPI sul non-pull-factor delle navi delle ONG) . O come il fatto che, nel complesso delle persone che mettono piede sul territorio italiano all’interno di un percorso migratorio, il numero di persone che sbarcano da una nave SaR di una ONG è sostanzialmente marginale.
Perchè, nonostante queste palesi evidenze e nonostante finora tutte le (tante) accuse si siano rivelate infondate e strumentali, la retorica diffusa, la propaganda politica e l’attenzione mediatica continuano ad attaccare – anche attraverso fake news e hate speech – le ONG o comunque chiunque (professionista, attivista, associazione, ecc) operi nel campo della solidarietà?
Risponde Fulvio Vassallo Paleologo: “Le politiche di contrasto della libertà di emigrazione e del diritto di chiedere asilo in un Paese sicuro, in tempi in cui le guerre permanenti e le devastazioni ambientali privano i popoli di qualsiasi speranza di futuro, sono il terreno sul quale Governi di segno diverso hanno progressivamente eroso il principio di eguaglianza tra le persone e la portata effettiva dei diritti umani. Le frontiere sbarrate non hanno solo precluso l’ingresso ai migranti in fuga, ma hanno anticipato, o riprodotto, nuovi muri su scala internazionale riportando in auge la corsa agli armamenti e la divisione del mondo in blocchi contrapposti. Queste politiche hanno utilizzato la falsificazione come strumento di attacco contro le persone in movimento e poi contro quanti prestavano loro assistenza.
E alla fine hanno portato ad accordi con Stati nei quali non vi era alcuna garanzia per i diritti umani, accordi che oggi pesano anche per la loro forza di ricatto sulla soluzione delle crisi belliche più virulente. Le politiche di sicurezza nazionale, o di difesa dei confini hanno di fatto cancellato il diritto di chiedere asilo (sancito dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati come diritto di accedere ad un territorio sicuro) e hanno creato le premesse per la discriminazione e la marginalizzazione degli ultimi arrivati, fino alla criminalizzazione dei sopravvissuti e dei soccorritori”.
Le libertà movimento e di richiedere asilo, adesso richiamate dall’avvocato Paleologo e presenti (articoli 13 e 14) nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, sono anche oggetto dell’appello “Passaporti, basta privilegi” promosso proprio da Voci Globali per rivedere la politica dei visti e garantire libertà di movimento a tutti i cittadini del mondo.
In conclusione chiediamo, ancora a Fulvio Vassallo Paleologo, quale sia la sua personale visione sulle reali cause del fenomeno di criminalizzazione della solidarietà.
“In questa fase storica sembrano destinate ad aumentare le diseguaglianze tra i migranti forzati a seconda del Paese di origine, e addirittura del colore della pelle, pure se provenienti dall’Ucraina. Ma sarebbe davvero impossibile garantire a tutti i migranti forzati in arrivo in Italia un trattamento equo ed un’accoglienza sul territorio nazionale coerenti con il riconoscimento dei loro diritti fondamentali sanciti dalle Convenzioni internazionali?
Invece si alimenta la retorica dell’invasione, adesso anche con un’allarme sulla crisi alimentare globale derivante dal blocco dei porti ucraini.Come se la devastazione ambientale prodotta da decenni di sfruttamento da parte dei Paesi più ricchi non avesse già prodotto la migrazione forzata di milioni di persone, private del loro ambiente vitale. E molto spesso la maggior parte delle persone che fuggono dalle aree di crisi rimane nei Paesi limitrofi e non trova risorse e canali di accesso verso l’Europa.
Non esistono canali legali di ingresso e il rafforzamento dei trafficanti internazionali è una conseguenza diretta delle politiche migratorie dei paesi di destinazione che puntano tutto sul ‘contrasto dell’immigrazione clandestina’, senza consentire visti di ingresso e vie di fuga per i potenziali richiedenti asilo”.
L’avvocato Paleologo ha fatto riferimento alle diseguaglianze tra i migranti. Dato che Mediterranea è stata protagonista anche di un altro tipo di azione solidale dal basso, quella dei #SafePassage di sostegno alla popolazione Ucraina, chiediamo a Luca Casarini se ha notato, dal punto di vista politico e mediatico, un diverso atteggiamento verso Mediterranea rispetto a quello “subito” per via delle missioni in mare.
“Sì”, risponde Casarini. “Loro sono bianchi di pelle. Sono profughi di una guerra dove siamo alleati con lo Stato del loro Paese di origine. Loro sono strumentalizzati al contrario: quanto è brava l’Europa, l’Italia. Invece a Sud ci sono neri, africani, il simbolo razzista per antonomasia. Eppure sono tutti e tutte profughi. Noi siamo anche in Ucraina, perché la lotta a fianco della popolazione civile di un Paese aggredito da un esercito è la nostra bussola, la nostra resistenza. Ma proprio per questo lottiamo contro la disparità di trattamento delle persone. Tutti devono essere trattati come trattiamo i profughi ucraini”.
Concludendo, chiediamo a Luca Casarini di consegnarci un messaggio per contrastare la rassegnazione alle ingiustizie anche quando la loro forza e pervasività sono (o sembrano) soverchianti.
“La ‘Cospirazione del Bene’: è questo il messaggio. Creare un mondo diverso, non avere paura di opporsi ai potenti, alle loro leggi sbagliate, ai loro criminali modi di violare quelle giuste. Disobbedire a questo orrore, e obbedire a qualcosa di più grande, l’amore per i nostri fratelli e sorelle che soffrono. Noi di Mediterranea diciamo: ‘Noi li soccorriamo, loro ci salvano’. È così. Per salvarci tutti e tutte, dobbiamo lottare, combattere con negli occhi il sorriso di un bambino che ti abbraccia dopo che l’hai tirato su dall’acqua. Niente è più importante”.
Niente è più importante.
Foto in evidenza di Alessandro Luparello
Sembra, stando a certe polemiche, che a un flusso di rifugiati ‘buono’ e ben accetto, quello proveniente dall’Ucraina (125mila persone secondo gli ultimi dati), se ne accompagni un altro, cattivo, o comunque sgradito: quelli che arrivano via mare da Sud e da Sud-Est (20mila sbarcati nel 2022, fino ai primi di giugno). Eppure, ha ricordato la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese in un recente incontro con i sindaci calabresi, particolarmente coinvolti negli arrivi (quasi 4mila persone sbarcate nella Regione dall’inizio dell’anno) crescono soprattutto gli approdi dall’Afghanistan.
Se l’Ucraina è devastata dalla guerra, è un po’ difficile sostenere che l’Afghanistan sia un’isola di pace e di rispetto dei diritti umani.
Proprio le generose mobilitazioni in favore dei profughi ucraini dovrebbero insegnare che la soglia di tolleranza, oltre la quale i rifugiati diventano troppi e ingestibili, risiede nel nostro sguardo, non nei numeri in sé. Dipende dalla nostra apertura, della mente e del cuore: da quanto li percepiamo come parte della nostra stessa umanità, come persone ingiustamente perseguitate e costrette alla fuga. Insinuare che gli afghani non lo siano è un arduo esercizio politico e retorico.
Accogliere tuttavia comporta degli oneri, non v’è dubbio. È importante quanto affermato dalla ministra al riguardo: rafforzamento delle strutture di accoglienza, coinvolgimento di organizzazioni della società civile, rimborsi ai Comuni delle spese che sosterranno. I rifugiati arrivano e chiedono accoglienza in luoghi precisi: l’integrazione è necessariamente locale, come la risposta alle esigenze delle persone. Decisiva quindi, come nella gestione dei profughi ucraini, è l’attivazione di forme di accoglienza diffusa e di reti di partenariato sul territorio, basate sulla collaborazione tra istituzioni pubbliche e soggetti sociali chiamati a partecipare a un impegno condiviso. E necessario è anche l’aiuto dello Stato per rendere sostenibile l’accoglienza nel medio-lungo periodo, con le diverse misure d’integrazione da attivare: corsi di lingua, scuola per i minori, formazione professionale, assistenza sanitaria, orientamento al lavoro. Accelerando, con idonee misure di accompagnamento, l’incontro tra profughi pronti a inserirsi nel sistema occupazionale e settori dell’economia bisognosi di manodopera, come è avvenuto con l’accordo firmato a maggio da governo e parti sociali per l’inserimento di 3mila rifugiati nel settore delle costruzioni, formandoli mediante le Scuole edili a gestione congiunta.
Un terzo messaggio riguarda l’Unione Europea. Come ha ricordato Lamorgese, chi arriva in Italia arriva in Europa. La soluzione però non è una qualche redistribuzione di quote di profughi da assistere. Diversi altri Paesi della Ue, infatti, accolgono più rifugiati di noi, in assoluto e in rapporto alla popolazione.
Guardando alle prime domande di asilo (Eurostat), nel 2021 ci precedono Germania (148.200), Francia (103.800), Spagna (62.100). L’Italia è a quota 43.900, seguita da vicino dalla ‘piccola’ Austria (36.700). Ma il punto principale è che le persone non sono rifiuti ingombranti da smaltire, negoziando la suddivisione dell’onere tra i Paesi interessati.
Prendendo spunto anche a questo proposito dal caso ucraino, dovremmo invece impegnarci a sostenere il loro diritto di scegliere dove intendono insediarsi per costruire la loro nuova vita, mandando una buona volta al macero le Convenzioni di Dublino che li bloccano nel Paese di primo ingresso.
L’accoglienza dei profughi ucraini ci sta impartendo una lezione preziosa, su di loro, su di noi, sulla nostra capacità di accogliere. Facciamo in modo che si estenda anche a chi fugge da altre guerre e catastrofi umanitarie.
Immagine in evidenza di Ansa
Su Riforma.it
Continuano i corridoi umanitari anche per i profughi vittime di conflitti diversi da quello dell’Ucraina. Sono atterrati venerdì mattina 27 maggio a Fiumicino, con un volo proveniente da Beirut, 41 rifugiati siriani che hanno vissuto anni nei campi profughi della Valle della Bekaa e del nord Libano o in alloggi precari delle periferie di Beirut e Tripoli. Si tratta di famiglie e singoli che negli ultimi mesi hanno sofferto un pesante peggioramento delle loro condizioni di vita, non solo a causa della pandemia, ma anche della gravissima crisi politica, economica e sociale che sta attraversando il Libano.
A questo primo gruppo si sono aggiutne stamane 30 maggio altre 22 persone, per un totale di 63 persone. Tra di loro 23 sono minori che a causa della situazione precaria del Libano per lo più non frequentano la scuola e alcuni malati che verranno presi in cura negli ospedali italiani. Il nuovo arrivo permetterà anche la realizzazione di alcuni ricongiungimenti familiari con parenti che erano giunti in precedenza nel nostro paese con i corridoi umanitari.
Il loro ingresso in Italia è stato reso possibile attraverso il sistema dei Corridoi umanitari promossi da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e Tavola Valdese, in accordo coi Ministeri dell’Interno e degli Esteri, che dal febbraio 2016 hanno portato in salvo nel nostro Paese, dal Libano, oltre 2.300 persone. Complessivamente in Europa con i corridoi umanitari sono giunti più di 4.600 richiedenti asilo.
I nuclei familiari giunti questa mattina saranno accolti anche da associazioni, parrocchie, comunità e singoli cittadini in diverse regioni italiane (Sardegna, Lazio, Lombardia, Calabria, Sicilia, Toscana, Piemonte, Puglia, Emilia Romagna, Trentino) e verranno avviati in un percorso di integrazione: per i minori attraverso l’immediata iscrizione a scuola e per gli adulti, subito con l’apprendimento della lingua italiana e, una volta ottenuto lo status di rifugiato, l’inserimento nel mondo lavorativo. I corridoi umanitari, interamente autofinanziati (dalla raccolta fondi di Sant’Egidio e l’8 per mille della Tavola valdese) e realizzati grazie a una rete di accoglienza diffusa, rappresentano una best practice che coniuga solidarietà e sicurezza.
Ricevi aggiornamenti iscrivendoti qui:
Quiz: quanto ne sai dei rifugiati nel mondo?
Le migrazioni nel 2021, il nuovo fact-checking di Ispi
© 2014 Carta di Roma developed by Orange Pixel srlAutorizzazione del Tribunale di Roma n° 148/2015 del 24 luglio 2015. - Sede legale: Corso Vittorio Emanuele II 349, 00186, Roma. - Direttore responsabile: Domenica Canchano.