Martedì mattina il Consiglio dell’Unione Europea, l’organo in cui siedono i rappresentanti dei governi dei 27 paesi membri, ha approvato in via definitiva il Nuovo Patto su migrazione e asilo, un importante insieme di riforme pensate per modificare in parte il cosiddetto “regolamento di Dublino”, la principale norma europea che regola la gestione di migranti e richiedenti asilo. La riforma era stata già approvata ad aprile dal Parlamento Europeo, ma perché entrasse ufficialmente in vigore mancava ancora il voto del Consiglio.
È la più importante ed estesa riforma degli ultimi anni in materia di immigrazione nell’Unione Europea, ed è frutto di un lungo negoziato durato quattro anni, su cui lo stesso Parlamento e i governi dell’Unione avevano trovato un accordo di massimalo scorso dicembre. La riforma è stata approvata dal Consiglio con i soli voti contrari dei rappresentanti di Ungheria e Polonia. Ora i paesi membri hanno due anni di tempo per implementare le regole previste dalla riforma nel proprio ordinamento giuridico.
In sintesi, il patto prevede norme sull’accoglienza più severe soprattutto per le persone migranti che arrivano in Europa dai paesi considerati “sicuri” (“sicuri” secondo criteri piuttosto controversi, stabiliti dagli stessi paesi d’accoglienza): sono le persone che già oggi hanno meno possibilità che la loro richiesta di protezione internazionale sia approvata. Il nuovo patto prevede misure che renderanno più facile espellerle e rimandarle nei loro paesi d’origine.
Il testo introduce anche un meccanismo limitato di trasferimento dei richiedenti asilo dai paesi di arrivo (quindi principalmente i paesi dell’Europa meridionale, tra cui l’Italia) a quelli interni. La riforma prevede che quando un paese dichiarerà di essere “sotto pressione” gli altri stati membri dovranno scegliere se accettare un certo numero di migranti, pagare una quota a un fondo comune dell’Unione Europea oppure fornire supporto operativo, inviando al paese personale o fornendo attrezzature tecniche.
Cos’è il regolamento di DublinoNegli ultimi anni il regolamento di Dublino era stato al centro di numerose controversie tra paesi europei: è una norma in vigore dal 1997, secondo cui il primo paese in cui una persona migrante arriva è anche quello che si occupa di esaminare la sua richiesta di asilo e dell’accoglienza. La maggior parte dei governi concordava sulla necessità di cambiare le regole, ma per anni non erano riusciti ad accordarsi sul modo in cui farlo.
Per esempio paesi come Italia e Grecia, cioè i principali stati d’ingresso dei richiedenti asilo che arrivano in Europa via mare, chiedevano da tempo l’eliminazione della regola che li rendeva i soli responsabili della registrazione dei migranti all’arrivo, o almeno l’introduzione di meccanismi obbligatori di “redistribuzione” delle persone migranti, di modo da non doversi occupare di tutte le richieste di protezione internazionale. Altri paesi, come quelli dell’Europa orientale, molto più ostili all’immigrazione, si opponevano invece a qualsiasi meccanismo che costringesse loro ad accogliere più persone migranti.
Come cambieràIl Nuovo Patto si basa su dieci leggi, fra cui le principali sono le seguenti. Il Patto introduce una modifica piuttosto importante nei percorsi di richiesta di asilo, stabilendone due possibili e rendendo più veloce il percorso di espulsione: la procedura tradizionale, che di solito richiede diversi mesi per essere completata, o una procedura accelerata che avviene alla frontiera e che dovrebbe durare al massimo 12 settimane, durante le quali le persone migranti dovrebbero essere tenute in strutture apposite.
I richiedenti asilo non possono scegliere quale dei due percorsi seguire, ma vengono divisi in base al loro profilo, stilato attraverso un nuovo e uniforme regolamento di screening: il testo prevede che questa “procedura di frontiera” venga usata principalmente per i richiedenti asilo che per qualche motivo vengono considerati un “pericolo” per i paesi dell’Unione, per coloro che provengono dai paesi considerati “sicuri” e per chi proviene da paesi che, anche per altri motivi, hanno un tasso molto basso (sotto il 20 per cento) di domande d’asilo accolte.
Se la loro richiesta verrà rifiutata, come è molto probabile in questi casi, i migranti dovranno essere espulsi verso il loro paese d’origine o un cosiddetto “paese terzo”, fra cui ci sono anche quelli da cui spesso partono per raggiungere i paesi europei: Tunisia, Libia, Turchia.
Diverse organizzazioni non governative che si occupano di diritti delle persone migranti hanno criticato la riforma anche perché durante le 12 settimane i richiedenti asilo saranno considerati legalmente non presenti sul territorio dell’Unione, nonostante fisicamente lo siano, e questo potrebbe aumentare ulteriormente il rischio che venga loro negato l’accesso a diritti e servizi. In più, valutare una richiesta d’asilo è un procedimento difficile e complesso e che difficilmente può essere completato in maniera accurata in così poco tempo.
Come funzionerà il meccanismo di solidarietàLa seconda importante riforma contenuta nel Patto riguarda l’istituzione del meccanismo di solidarietà “obbligatoria” fra i paesi di arrivo e i paesi interni dell’Unione. In alcuni particolari casi questi ultimi dovranno infatti decidere se accettare un certo numero di persone migranti, fornire assistenza operativa al paese di arrivo che si trova in difficoltà o versare 20mila euro per ogni richiedente che si rifiutano di accogliere in un fondo comune dell’Unione Europea.
I soldi versati in questo fondo non verranno solo redistribuiti fra i paesi di frontiera, più esposti ai flussi migratori, ma potranno essere utilizzati per finanziare «azioni nei paesi terzi o in relazione ad essi che hanno un impatto diretto sui flussi migratori verso l’UE», ossia paesi, come la Libia, da cui i migranti partono per raggiungere l’Europa. Negli ultimi anni l’Unione Europea ha stretto o promosso accordi con questi paesi in modo che le autorità locali li trattengano con la forza sul proprio territorio, molto spesso in condizioni disumane.
I paesi che si rifiuteranno di accogliere richiedenti asilo o versare dei contributi potrebbero incorrere in una procedura di infrazione, uno strumento molto comune usato dalla Commissione Europea, l’organo che nell’Unione Europea detiene il potere esecutivo, per far rispettare le regole agli stati membri.
Fonte: Il Post https://www.ilpost.it/2024/05/14/nuovo-patto-migrazione-asilo-unione-europea-approvato/
Mentre esce il Rapporto del Centro Astalli, il mondo è attraversato da una gravissima crisi internazionale che mette in discussione la visione del futuro. Il 2023 è stato un anno caratterizzato da sfide globali senza precedenti: tensioni geopolitiche, conflitti che hanno scosso diverse regioni in tutto il mondo, mentre politiche migratorie, restrittive, di chiusura – se non addirittura discriminatorie -, acuiscono precarietà, esclusione e marginalità delle persone migranti. Alto è il prezzo che stanno pagando i rifugiati anche in Italia per la mancanza di investimenti in protezione, accoglienza e inclusione: aumento delle vulnerabilità fisiche, sanitarie e psicologiche a seguito di viaggi sempre più lunghi e difficili, in mano ai trafficanti, in assenza di vie alternative legali di ingresso; ostacoli burocratici per l’accesso alla richiesta di protezione; un ridotto numero di posti in accoglienza; tagli ai costi dei servizi di inclusione; mancanza di opportunità abitative autonome e conseguente impossibilità a immaginare un futuro; marginalizzazione: sono solo alcune delle criticità che emergono dalla lettura del Rapporto annuale 2024 del Centro Astalli.
Aumentano marginalità e disuguaglianze: la precarietà delle persone rifugiate è la vera emergenza.
In tutti i servizi del Centro Astalli si sono fatti sentire forte gli effetti dell’inflazione e delle decretazioni d’urgenza emanate dal Governo in materia di immigrazione, che hanno fatto salire esponenzialmente i numeri delle richieste di aiuto per tutto l’arco dell’anno appena trascorso.
Sono sempre di più i rifugiati e i richiedenti asilo che vivono in strada, hanno sistemazioni precarie sul territorio di Roma (e non solo) e necessitano di un accompagnamento strutturato. Numerose anche le difficoltà manifestate da singoli e nuclei monoparentali nel far fronte al rincaro delle materie prime. Azioni di contrasto a situazioni di marginalità si dimostrano particolarmente urgenti nel caso di donne sole con figli (in aumento del 40%), in cui la madre detiene in modo esclusivo le responsabilità di accudimento e mantenimento, per cui è stato necessario, presso il servizio di orientamento e accompagnamento sociale, realizzare attività specifiche tese all’attivazione della rete istituzionale di riferimento, con i servizi socio- sanitari e le istituzioni scolastiche.
Gli accessi ai servizi di prima accoglienza (mense, docce, distribuzione vestiario, ambulatori) sono alti in tutti i territori. Più di 2.600 utenti hanno usufruito della mensa di Roma che ha distribuito oltre 67mila pasti (erano stati poco più di 46mila nel 2022, con un aumento del 45%): tra loro il 28% (1 persona su 3) è richiedente asilo. È aumentata la presenza di donne migranti, incremento dovuto al gran numero di ucraine, titolari di protezione temporanea, che dall’inizio del conflitto e per molto tempo a seguire non hanno avuto la necessità di rivolgersi a servizi di bassa soglia – probabilmente grazie alla campagna mediatica a loro sostegno -, ma anche di cittadini peruviani, colombiani e venezuelani, in fuga dai loro Paesi a causa di situazioni di violenza generalizzata e di insicurezza sociale.
A Palermo i volontari riscontrano un aumento della povertà assoluta: sono infatti raddoppiati gli accessi ai servizi di prima accoglienza offerti dall’Associazione.
A Trento, è stato potenziato il servizio dei dormitori notturni dove si è riusciti a dare accoglienza a 177 richiedenti asilo senza dimora.
Aumentano marginalità, disuguaglianze ma anche le complessità delle situazioni di cui le persone migranti sono portatrici.
I processi di semplificazione in atto nel tentativo di contenere le migrazioni, non solo sono destinati a fallire nel tempo, ma rendono gli spostamenti e i viaggi dei migranti ancora più mortali e difficili.
Sono 8.541 le persone che hanno perso la vita lungo le rotte migratorie di tutto il mondo nel corso del 2023, anno in cui sono stati registrati più morti in assoluto: 3.105 le persone morte e disperse nel mar Mediterraneo, più di 29mila in totale le vittime dal 2014 (dati OIM).
Le risposte politiche a queste tragedie hanno visto l’inasprimento del contrasto all’attività delle navi umanitarie, la realizzazione di accordi economici per dissuadere gli arrivi, aumentare i rimpatri e cooperare con regimi antidemocratici; l’emanazione di regole di accesso più rigide per i richiedenti asilo in Europa, compresi i minori, mettendo una seria ipoteca sul rispetto dei diritti di persone già duramente provate da situazioni caratterizzate da persecuzioni e violenze subite nei Paesi di origine e in quelli di transito. Strategia onerosa quella dell’esternalizzazione delle frontiere, unita alla pratica dei respingimenti e delle espulsioni illegali, con metodi brutali e coercitivi lungo le rotte europee, con la conseguenza che centinaia di migliaia di persone rimangono imprigionate in terre di mezzo, e vedono aumentare il carico dei traumi a cui sono sottoposti.
Lo stato generale di fragilità trova riscontro nelle quasi 10mila visite mediche, di base e specialistiche svolte presso il SaMiFo (+15% a fronte di un’utenza aumentata solo dell’1,6%). Oltre alla vulnerabilità evidente per persone portatrici di condizioni oggettive (anziani, minori, donne in gravidanza ecc.) o di diagnosi già acclarate, esiste nel mondo dei rifugiati una vulnerabilità più nascosta, spesso legata ai traumi vissuti e non ancora elaborati che per emergere e cominciare una cura ha bisogno di tempo, attenzione e di un’accoglienza dentro luoghi idonei. Pensare di riservare un’accoglienza (sia in termini di alloggio che di documenti) ai soli soggetti vulnerabili, significa scegliere di contribuire ad accrescere il numero delle persone vulnerabili.
L’accoglienza mancata: un duro colpo ai percorsi di integrazione dei migranti forzati
Dal 2017 al 2022, parallelamente alla diminuzione del numero degli sbarchi, il sistema di accoglienza dei titolari di protezione internazionale (vedi SAI) è stato progressivamente contratto, stravolto e svilito, lasciando fuori dalla sua competenza anche i richiedenti asilo. Negli anni si è rafforzato il ruolo dei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) e anche in questo caso, a livello politico, ci si è più volte espressi per un’ampia distribuzione degli ospiti in piccole strutture, per poi al contrario favorire grandi concentrazioni di persone e il taglio di molti servizi di inclusione. Tutto questo ha reso più difficoltosa l’emersione e la cura tempestiva delle vulnerabilità e, non a caso nei centri gestiti dal Centro Astalli in convenzione con il SAI, ma anche negli alloggi di semi-autonomia messi a disposizione da Congregazioni religiose, si registra un elevato numero di persone sempre più vulnerabili. Su un totale di 235 persone accolte dal Centro Astalli a Roma, 1 persona su 6 è stata vittima di tortura e violenza, e 1 persona su 5 ha una vulnerabilità sanitaria.
L’accoglienza da diritto sta diventando una concessione, e spesso intesa come luogo di confinamento più che occasione per ricominciare un’esistenza progettuale. Un sistema di accoglienza pubblico che si frammenta e rimanda le opportunità di inclusione a una “seconda fase” accessibile a pochi è lesivo di percorsi di accoglienza e integrazione. Se guardiamo al quadro d’insieme del 2023 dal globale al locale, la questione migratoria non viene certamente affrontata dal punto di vista delle persone che si mettono in viaggio.
La trasformazione del sistema di accoglienza in Italia ha inferto un duro colpo a quell’accoglienza diffusa che ha caratterizzato negli ultimi anni l’impegno di molte realtà a servizio dei migranti forzati.
Le realtà della Rete territoriale del Centro Astalli nel 2023 hanno accolto complessivamente 1.177 persone, secondo un modello di intervento che mette al centro la promozione della persona e che costruisce integrazione dal primo giorno.
Il tramonto del diritto di asilo: se la burocrazia diventa un’arma di discriminazione
Con il passare degli anni l’iter burocratico che affrontano i migranti forzati per il rilascio del permesso di soggiorno sta diventando sempre più lungo e farraginoso. Vite instabili si scontrano con i cambiamenti delle normative e delle prassi dei singoli uffici, che rendono ogni questione burocratica un potenziale labirinto senza uscita. Ad attese lunghe, anche dodici mesi per il rilascio di un documento temporaneo, idoneo ad esempio all’accesso a servizi pubblici e alla ricerca di lavoro, si sommano gli ostacoli amministrativi che ne derivano, come l’impossibilità dell’ottenimento dello SPID, dell’apertura di conti bancari, dell’attivazione di tirocini e contratti lavorativi.
Nel 2023 il Centro Astalli, grazie al sostegno dell’Elemosineria Vaticana, ha erogato contributi per il pagamento delle tasse necessarie al rilascio del permesso di soggiorno e titolo di viaggio per 463 rifugiati, perlopiù nuclei familiari originari dell’Afghanistan. Nel momento in cui le persone iniziano, con difficoltà, il loro percorso in Italia viene loro chiesto un pagamento non irrilevante.
Più soli, invisibili, marginalizzati, spaesati, numerosi sono stati i cittadini stranieri che si sono rivolti agli sportelli del servizio legale con permesso di soggiorno per Protezione speciale in scadenza.
Se pensiamo che in passato questa forma di protezione veniva concessa dalle Commissioni Territoriali allo scopo di “sanare” diversi tipi di situazioni, ci rendiamo facilmente conto delle conseguenze negative che le decisioni politiche prese avranno su molte persone.
→ Cfr. Prendersi cura (dati Accettazione, Servizio di orientamento legale), Inclusione sociale (dati Servizio di orientamento e accompagnamento sociale, Sportello di orientamento e ricerca lavoro), Progetti realizzati nel 2023
(Costruire la città futura con i rifugiati, AIDR), Rete territoriale
L’inclusione sociale dei rifugiati rappresenta un’opportunità di crescita per l’intera società
Promuovere l’integrazione dei rifugiati significa assumerne la corresponsabilità, mettendosi al fianco dei migranti, accogliendo e valorizzando le loro necessità e aspirazioni. I progetti realizzati sono stati in buona parte centrati sul potenziamento dei servizi e delle attività finalizzate a questo obiettivo. In molti casi, per rispondere a richieste di supporto di primaria importanza, quali la povertà alimentare, la sicurezza abitativa e l’accesso alle cure mediche, si è reso utile erogare contributi messi a disposizione grazie a progetti finanziati da enti pubblici e privati.
La lingua è un elemento indispensabile perché garantisce accesso all’istruzione, alla formazione professionale, al lavoro e alla socialità, essenziali nella costruzione del percorso verso l’autonomia e di una dimensione concreta di cittadinanza. In tutti i territori della Rete, è stato rafforzato il servizio della scuola di italiano, con un’attenzione particolare per i più piccoli per i quali sono stati attivati numerosi doposcuola.
Da sempre l’educazione è priorità caratterizzante l’azione dei gesuiti in favore dei rifugiati in tutto il mondo.
Garantire loro l’accesso e il diritto allo studio significa offrire un futuro diverso a molti giovani che spesso hanno conosciuto solo guerra, violenza e distruzione nella loro vita, per metterli nelle condizioni di investire con creatività sul proprio futuro.
Nel corso dell’anno il servizio di accompagnamento all’autonomia a Roma ha sostenuto 659 persone.
Diverse le possibilità di inserimento lavorativo, in particolare per i giovani tra i 18 e i 29 anni, ma spesso con contratti di breve durata, fenomeno che ha inciso negativamente sulla possibilità per i migranti di emanciparsi da una progressiva precarizzazione.
Promuovere l’autonomia delle persone rifugiate significa abbattere le barriere che si frappongono a un’integrazione piena e autonoma, per questo nel corso dell’anno sono state realizzate attività volte a favorire anche la loro inclusione finanziaria ed è proseguita l’attività di contrasto al digital divide con lo scopo di garantire l’accesso di rifugiati e richiedenti asilo ai servizi della Pubblica Amministrazione.
→ Cfr. Inclusione sociale (dati. Servizio di orientamento e accompagnamento sociale, Sportello lavoro e
accompagnamento all’autonomia), Progetti realizzati nel 2023 (Dot2Dot, Interculturazione, Stand together, Comunità
resilienti, Interconnessioni), Rete territoriale.
Oltre l’accoglienza: migranti e diritto all’abitare
Il diritto all’abitare rimane ancora per molti migranti forzati una chimera. I percorsi abitativi di chi esce dal sistema di accoglienza risultano sempre più ardui, spesso aggravati dall’assenza di reti di comunità solide sul territorio e dallo stigma criminalizzante che li accompagna nel discorso pubblico. In questo contesto, l’affitto breve a fini turistici, specialmente nelle grandi città, negli ultimi anni ha rappresentato un potenziale elemento di aggravamento del disagio abitativo delle fasce di popolazione più deboli.
Il mancato accesso al mercato della casa, insieme all’evidente insufficienza di percorsi di accompagnamento in uscita dall’accoglienza, finisce dunque per costringere le persone a situazioni di disagio abitativo estremo, quali la convivenza forzata o la vita per strada. Nel 2023, la Rete territoriale del Centro Astalli ha affrontato le sfide derivanti dall’inflazione e dalla conseguente marginalità economica e sociale che colpisce le persone richiedenti asilo e rifugiate cercando di favorire il raggiungimento di una stabilità lavorativa e abitativa e in generale degli strumenti (non solo economici) per orientarsi nel mercato della casa.
→ Cfr. Accoglienza, Inclusione sociale (dati: Servizio di orientamento e accompagnamento sociale), Progetti realizzati
nel 2023 (Home Sweet Home), Rete territoriale
Investiamo nel patrimonio sociale delle nostre comunità
La società italiana è una società multiculturale nella quale, tuttavia, oggi non assistiamo al moltiplicarsi di processi di coesione, scambio e incontro. Crediamo sia importante investire nel patrimonio sociale delle nostre comunità, valorizzando le diversità che le possono rendere più ricche e forti. In tutte le realtà della Rete territoriale del Centro Astalli si costruiscono ogni giorno spazi di cittadinanza e giustizia, cercando soluzioni che vengano incontro alle esigenze dei rifugiati e della società che li accoglie.
Nei progetti di sensibilizzazione sul diritto di asilo e sul dialogo interreligioso, realizzati in più di 200 istituti scolastici di 19 città italiane, sono stati coinvolti 31.441 studenti. Un numero che incoraggia e motiva nella costruzione di comunità in cui giovani italiani e migranti siano insieme protagonisti.
Siamo sostenuti in questo impegno dalla collaborazione convinta ed indispensabile di 737 volontari: italiani, stranieri, o seconde e terze generazioni di migranti in Italia e anche rifugiati, che desiderano impegnarsi per una società più aperta e più giusta.
→ Cfr. Attività culturali, Campagne e advocacy, Progetti realizzati nel 2023 (Nuove storia, One class, one world, Percorsi)
Progetti per le scuole, Volontariato, Rapporti con i media, Rapporti internazionali, Rete territoriale.
Il Centro Astalli in cifre
Utenti 2023: 22.000, di cui 11.000 a Roma
Volontari: 737
Enti della Rete Territoriale del Centro Astalli: 8
Pasti distribuiti presso la mensa di Via degli Astalli: 67.231
Persone ospitate in strutture d’accoglienza: 1.177
Studenti incontrati nell’ambito dei progetti Finestre e Incontri: 31.441
Amnesty International ha sollecitato gli Stati europei a fermare immediatamente i trasferimenti di rifugiati e richiedenti asilo del Caucaso del Nord verso la Russia, a causa del rischio di subire maltrattamenti e torture e di essere costretti ad andare a combattere nella guerra di aggressione contro l’Ucraina.
In una ricerca pubblicata oggi, dal titolo “Europa: il punto di non ritorno”, Amnesty ha denunciato che alcuni stati europei – tra i quali Croazia, Francia, Germania, Polonia e Romania – hanno estradato o stanno cercando di estradare richiedenti asilo fuggiti dalla persecuzione nel Caucaso del Nord e in cerca di salvezza in Europa.
“È scandaloso che, nonostante abbiano dichiarato di aver sospeso ogni forma di cooperazione giudiziaria con la Russia, a seguito della sua invasione dell’Ucraina, diversi stati europei stiano minacciando di rimandare persone nel Caucaso del Nord, esattamente nei luoghi dai quali erano fuggite a causa della persecuzione. Gli stati europei devono riconoscere che molte di queste persone, in caso di rimpatrio, rischierebbero arresti, rapimenti, maltrattamenti e torture, nonché l’arruolamento forzato”, ha dichiarato Nils Muiznieks, direttore di Amnesty International per l’Europa.
“La situazione, per coloro che sono fuggiti dal Caucaso del Nord, è notevolmente peggiorata a causa del deterioramento della situazione dei diritti umani in Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Vanno incontro a torture, sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie senza che nessuno sia chiamato a risponderne. Storicamente, negli stati europei, queste persone sono stigmatizzate e prese di mira con provvedimenti di espulsione e rimpatrio”, ha aggiunto Muiznieks.
Nel Caucaso del Nord, soprattutto in Cecenia, la situazione dei diritti umani è pessima. Chiunque esprima critiche, prenda parte ad attività in favore dei diritti umani e appartenga o venga percepito come appartenente alla comunità Lgbtqia+, rischia di essere colpito e lo stesso accade ad amici e parenti.
“Ti catturano in strada e hai due opzioni: vai in galera per 10 anni o cerchi di fuggire. Nelle prigioni cecene, è come se non esistessi più. Ma almeno puoi uscirne dopo 10 anni. Sempre meglio che essere arruolati, combattere e morire”, ha dichiarato ad Amnesty International un richiedente asilo della Cecenia.
Il ritiro della Russia dalla Convenzione europea dei diritti umani e la repressione in atto contro gli osservatori indipendenti sulla situazione dei diritti umani hanno enormemente aumentato il rischio di violazioni e hanno privato le vittime di importanti possibilità di chiedere giustizia.
I rischi sono aumentati dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre contro il sud d’Israele e dopo i bombardamenti israeliani a Gaza e i sempre più violenti attacchi, con arresti e uccisioni, contro i palestinesi della Cisgiordania occupata.
Il presidente Macron ha inoltre autorizzato il suo ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, a negoziare con le autorità russe i possibili trasferimenti. Ne sono in programma almeno 11.
“Da anni i governi e le istituzioni europee ignorano o sminuiscono i gravi rischi cui va incontro chiunque venga rimpatriato nel Caucaso del Nord. Questi rischi sono ora ancora più acuti ed è incomprensibile usare il pretesto delle tensioni in Medio Oriente per giustificare il ritorno in Russia dei richiedenti asilo”, ha sottolineato Muiznieks.
“I governi europei devono fermare immediatamente tutti i trasferimenti in Russia di persone che rischiano di subire torture o altre violazioni dei diritti umani e riconoscere che tali rischi sono assai più alti per le persone del Caucaso del Nord. L’Europa deve valutare in modo corretto i loro bisogni di protezione, alla luce della pessima situazione dei diritti umani in Russia e della guerra in corso contro l’Ucraina”, ha concluso Muiznieks.
Plastic toy men, barbed wire and eu flag, migrants crossing the border concept
Mercoledì gli Stati membri e il Parlamento europeo hanno raggiunto un importante accordo per riformare la politica migratoria del blocco, coronando uno sforzo ambizioso durato tre anni che a volte sembrava destinato a fallire.
L’ambito accordo, che è preliminare e deve ancora essere sottoposto a ratifica formale, è stato siglato dopo una maratona di colloqui iniziata lunedì pomeriggio, proseguita per tutto martedì e conclusasi mercoledì mattina, con un’intensità che riflette l’alta posta in gioco sul tavolo.
I negoziati si sono concentrati su una vasta e complessa gamma di questioni aperte che hanno richiesto compromessi da entrambe le parti, come i periodi di detenzione, la profilazione razziale, i minori non accompagnati, le operazioni di ricerca e salvataggio e la sorveglianza delle frontiere.
Il Consiglio, guidato dalla presidenza spagnola, ha difeso una posizione rigida volta a dare agli Stati membri il più ampio margine di manovra per gestire la migrazione, anche estendendo la proposta di procedura di asilo accelerata al maggior numero possibile di richiedenti, mentre il Parlamento ha insistito su disposizioni più rigorose rispettare i diritti fondamentali. Anche la Commissione Europea ha preso parte fornendo assistenza e orientamento.
Member states and the European Parliament struck on Wednesday a major deal to reform the bloc’s migration policy, capping off a three-year-long ambitious effort that at times seemed doomed to fail.
The sought-after agreement, which is preliminary and still needs to undergo formal ratification, was sealed after marathon talks that began on Monday afternoon, continued throughout Tuesday and concluded on Wednesday morning, an intensity that reflects the high stakes on the table.
Negotiations focused on a vast and complex array of open questions that required compromises on both sides, such as detention periods, racial profiling, unaccompanied minors, search-and-rescue operations and border surveillance.
The Council, led by the Spanish presidency, defended a rigid position to give member states the widest margin of manoeuvre to handle migration, including by extending a proposed fast-tracked asylum procedure to as many claimants as possible, while the Parliament insisted on stricter provisions to respect fundamental rights. The European Commission also took part, providing assistance and guidance.
With the winter break looming ever closer, the co-legislators were under increasing pressure to patch up their differences, which in some cases were profound, and achieve the eagerly anticipated breakthrough. Thanks to Wednesday’s leap, the bloc will be able to push forward five interlinked pieces of legislation that redefine the rules to collectively receive, manage and relocate the irregular arrival of migrants.
The laws, known as the New Pact on Migration and Asylum, were first unveiled in September 2020 in an attempt to turn the page on decades of ad-hoc crisis management, which saw governments take unilateral and uncoordinated measures to cope with a steep rise in asylum seekers.
These go-it-alone policies severely undermined the EU’s collective decision-making and left Brussels looking like an inconsequential bystander in what is arguably the most politically explosive issue on the agenda.
At its core, the New Pact is meant to establish predictable, clear-cut norms that bind all member states, regardless of their geographic location and economic weight. The ultimate goal is to find a balance between the responsibility of frontline nations, like Italy, Greece and Spain, which receive the bulk of asylum seekers, and the principle of solidarity that other countries should uphold.
“Migration is a European challenge that requires European solutions,” said European Commission President Ursula von der Leyen, who had made the reform a top priority for her five-year term. The New Pact “means that Europeans will decide who comes to the EU and who can stay, not the smugglers. It means protecting those in need.”
Roberta Metsola, the president of the European Parliament, hailed the moment as a “truly historic day” and spoke of “probably the most important legislative deal of this mandate” that had been “10 years in the making.”
“It was not easy,” Metsola said on Wednesday morning. “We have defied the odds and proven that Europe can deliver on the issue that matters to citizens.”
Metsola admitted the New Pact was not a “perfect package” and some “complex issues” remained unaddressed. “But what we do have on the table” is far better for all of us than what we have had previously,” she added.
Wednesday’s preliminary deal will now be translated into amended legal texts, which will have to be first approved by the Parliament and, later, by the Council.
Both roads could prove perilous. In the hemicycle, the Greens and the Left have already expressed disapproval about the agreement, suggesting they will not endorse it. And in the Council, last-minute demands from governments cannot be ruled out, given the extreme sensitivity of the issue. Nevertheless, the approval in the Council will be done by a qualified majority vote, meaning individual countries will not be able to veto.
The New Pact on Migration and Asylum is a legislative project with an all-encompassing approach that intends to piece together all the aspects of migration management, from the very moment migrants reach the bloc’s territory until the resolution of their requests for international protection.
Crucially, it does not alter the so-called “Dublin principle,” which says the responsibility for an asylum application lies first and foremost with the first country of arrival.
Overall, it is meant to cover the “internal dimension” of migration while the “external dimension” is addressed through tailor-made deals with neighbouring countries, like Turkey, Tunisia and Egypt.
The five laws contained in the New Pact are:
The negotiations between the Council and the Parliament had been playing out for months, first in separate talks on each legislative file and, most recently, in the so-called “jumbo” format, where the five draft laws were considered all at once under the mantra “nothing is agreed until everything is agreed.”
The discussions became an intense, time-consuming back-and-forth, with each side trying to hold their ground against the other’s demands. Juan Fernando López Aguilar, a third-term Spanish MEP who acts as rapporteur for the Crisis Regulation, described the process as a “real tug of war” with round-the-clock negotiations.
“We have not slept a wink in the last couple of days,” López Aguilar said.
Member states were bent on preserving the hard-fought compromise they had struck among themselves after years of fruitless and bitter debates to reform the bloc’s migration policy. The compromise was particularly delicate on the system of “mandatory solidarity” envisioned under the AMMR: countries had agreed on an annual quota of 30,000 relocations and a €20,000 contribution for each asylum seeker they reject.
But lawmakers resented the Council’s unyielding position and urged flexibility to meet halfway. Some of the last remaining differences were the scope of the 12-week border procedure, the detention of irregular applicants, a mechanism to monitor fundamental rights and the concept of third safe countries.
Poland and the Baltic states pushed for special rules to cope with the instrumentalisation of migrants, a phenomenon which themselves suffered first-hand in 2021 when Belarus orchestrated an influx of asylum seekers in retaliation for international sanctions.
Meanwhile, as talks gathered pace, humanitarian organisations stepped up their public campaign to warn the New Pact risks normalising large-scale detention and sending migrants back to countries where they face violence and persecution. The concerns were echoed on Wednesday morning, as details of the agreement emerged.
“The Pact does not solve the EU’s asylum issues; it actually limits access to asylum and rights for those seeking protection,” Caritas Europe said in a statement, warning that “widespread detention and poor reception standards” and “rushed asylum procedures with restricted safeguards and appeals” are likely to happen.
In an equally scathing reaction, Amnesty International predicted a “surge in suffering on every step” of an asylum seeker’s journey and denounced the 12-week border procedure as “substandard.” The pact’s Crisis Regulation has the potential of “breaching international law” and setting a “dangerous precedent for the right to asylum globally,” the organisation said.
Reacting to the criticism, Ylva Johansson, the European Commissioner for Home Affairs, who participated in the marathon talks, said the deal included a “cap” on the number of asylum seekers who can go through the fast-tracked procedure to avoid “any overcrowding.” If the limit is reached, migrants will be redirected to the traditional asylum procedure, which allows free movement across national territory. Legal counselling will be provided free of charge for the “whole process,” Johansson said.
“Migration is something normal. Migration has always been there and will be there. Our task (is) to manage migration in an orderly way – together,” the Commissioner said.
Implementing the New Pact, which will take months after the final texts are approved, will be inevitably hamstrung by the question of deportations. For years, the EU has struggled to convince countries of origin to take back the asylum seekers whose claims are unsuccessful, leaving many trapped in a legal limbo. Brussels is now trying a mix of tools to correct the situation, such as appointing a Return Coordinator to coordinate national policies and threatening visa restrictions on nations who refuse to cooperate.
“Of course, more needs to be done, but we are actually making progress in this area,” Johansson said.
Wednesday’s deal comes mere days after Frontex, the bloc’s border and coast guard agency, said irregular border crossings had surpassed 355,000 incidents in the first 11 months of the year, the highest number for that period since 2016.
The continued rise in border-crossing incidents injected momentum into the negotiations and pulled the New Pact out of the political limbo it had been stuck in since 2020.
di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Nel maggio del 2021 il Parlamento europeo ha votato una risoluzione per chiedere una legislazione Ue sulla migrazione legale che “attirerebbe i lavoratori, indebolirebbe i trafficanti di esseri umani, faciliterebbe l’integrazione e incoraggerebbe una migrazione più ordinata”. Nel testo è lo stesso Parlamento a sottolineare che dal 2015 le forme di migrazione legale figurano a malapena nello sviluppo della politica europea. In particolare il Nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo non include alcuna proposta specifica in merito. Ma si concentra molto sul controllo esterno della frontiera, su come cioè fermare i flussi verso l’Europa nei paesi di origine e transito. Mentre quando parla di sponsorship lo fa solo in relazione ai rimpatri.
Eppure secondo il Parlamento attivare vie legali e sicure sarebbe un’opportunità soprattutto per gli stati membri. Innanzitutto tenendo presente l’invecchiamento della popolazione e la contrazione della forza lavoro: “Le politiche dell’Ue e nazionali in materia di migrazione legale dovrebbero concentrarsi sul fornire una risposta alle carenze dei mercati del lavoro e delle competenze”, spiega il Parlamento Europeo in una nota, dove chiede che la legislazione in vigore sia rivista e che il campo di applicazione sia più ampio. Nel testo viene anche sottolineato il ruolo importante delle rimesse e i benefici che una migrazione sicura, regolare e ordinata comporta sia per i paesi d’origine che per quelli di accoglienza.
Ma ad oggi la possibilità di arrivare in Europa da alcuni paesi in maniera regolare (con un visto d’ingresso e un passaporto) è pressoché impossibile. Non solo per chi vuole migrare per migliorare la propria situazione economica, ma anche per i tanti migranti forzati, in fuga da guerre, persecuzione, violenze e violazioni dei diritti umani. Secondo i dati della Fondazione Migrantes nel 2022, anno segnato da nuovi e vecchi conflitti, dalla pandemia di Covid-19 e dal cambiamento climatico, il numero di persone in fuga ha superato la soglia dei 100 milioni in tutto il mondo. Ma oltre il 70% di chi lascia il proprio Paese cerca rifugio in uno Stato confinante e solo una piccola parte arriva in Europa. “Il 2022 è stato l’anno in cui la guerra d’Ucraina ha prodotto nel cuore d’Europa, nel giro di poche settimane, rifugiati e sfollati a milioni, come non si vedevano dai tempi della Seconda guerra mondiale. L’anno in cui l’Europa ha saputo accogliere, di nuovo, milioni di profughi senza perdere un decimale in benessere e “sicurezza”(oltre 4.400.000 le persone registrate per la protezione temporanea solo nell’UE fino all’inizio di ottobre). Ma anche l’anno in cui la stessa Ue e i suoi Paesi membri hanno fatto di tutto per tenere fuori dai propri confini, direttamente o per procura, decine di migliaia di migranti e rifugiati altrettanto bisognosi di protezione”.
Anche i dati degli arrivi tramite i resettlemnt e corridoi umanitari restano bassi. Secondo il report la stima globale dei rifugiati con necessità di reinsediamento (resettlement) da precari Paesi di primo asilo nel 2021 era pari a 1.445.000 persone, ma nell’anno ne sono stati effettivamente reinsediati in tutto il mondo 57.500, il 4% scarso. Sono 32.289, invece, i rifugiati effettivamente partiti per un reinsediamento nel periodo gennaio-agosto 2022. Nel 2023 la stima del fabbisogno supera i due milioni di persone (+ 36% rispetto al 2022) ma il numero dei posti messi a disposizione dai paesi, in base a un sistema di quote è di 29 mila persone.
Il paese che ha messo a disposizione più quote è la Germania con 6.500 posti per i resettlment e 12mila per le ammissioni umanitarie. La Germania ad oggi è anche il paese che accoglie più rifugiati in Europa. Sui reinsediamenti per il prossimo anno seguono la Francia con 3000 posti, la Spagna con 1200, la Svezia con 900, l’Irlanda con 800, l’Olanda con 737, l’Italia con 500 (e 850 ammissioni umanitarie). Non hanno messo a disposizioni posti, invece, i cosiddetti paesi del cosiddetto gruppo di Visegrad.
Per quanto riguarda il progetto dei corridoi umanitari a fare meglio è l’Italia, che per prima ha lanciato il progetto nel 2015. Secondo un report della Comunità di Sant’Egidio su oltre 5.800 persone arrivate in sicurezza in questi anni, la stragrande maggioranza ha trovato accoglienza nel nostro paese. Negli ultimi anni hanno aderito al progetto la Francia che ha accolto 532 persone, di cui 530 dal Libano e 2 dalla Grecia; il Belgio che ha accolto 150 persone dal Libano e dalla Turchia e Andorra che ha accolto 16 persone dal Libano.
A fine novembre 2022 la Commissaria per gli affari interni, Ylva Johansson, ha ospitato un Forum ad alto livello per promuovere una più stretta cooperazione con i paesi e le organizzazioni partner al fine di ampliare le vie sicure e legali per le persone bisognose di protezione. “Gli Stati membri sono stati incoraggiati a sviluppare tali percorsi complementari. La Commissione fornirà nuovi finanziamenti per i progetti transnazionali legati a questa priorità – ha detto la Commissaria -. La Commissione continuerà a lavorare per sfruttare l’esperienza dei paesi partner internazionali e di altre parti interessate”. All’inizio del 2023 la Commissione pubblicherà un invito a presentare proposte per azioni transnazionali dell’Unione nell’ambito del Fondo Asilo, migrazione e integrazione per sostenere la condivisione delle migliori pratiche e la creazione di partenariati per l’integrazione. Ciò includerà il finanziamento di progetti incentrati sulla sponsorizzazione della comunità e percorsi complementari legati al lavoro. Tutti passi rilevanti che segnalano un primo cambio di attenzione. Ma il cammino per giungere ad una “via sicura” verso l’Europa è ancora tutto in salita.
UNA VIA SICURA è un reportage in dieci puntate realizzato e pubblicato da Redattore Sociale in collaborazione con Acri. Il lavoro giornalistico, curato da Eleonora Camilli con il supporto grafico di Diego Marsicano e la supervisione di Stefano Caredda, affronta da più punti di vista il tema delle migrazioni, raccontando alcune delle esperienze supportate da Acri nel suo Progetto Migranti.
Foto in evidenza di Agenzia DIRE
Di Alessandro Puglia su Vita
La criminalizzazione del soccorso in mare torna prepotentemente sulla scena dei salvataggi nel Mediterraneo centrale nel 2022. In Italia al 23 dicembre secondo i dati del Ministero dell’Interno sono stati 101.127 i migranti sbarcati, numeri superiori rispetto al 2021 quando gli arrivi in Italia erano stati 64.612, soltanto 33.863 nel 2020. Dati che vanno contestualizzati davanti al costante evolversi dello scenario migratorio e alla pandemia Covid-19 che negli anni scorsi ha rallentato il numero delle partenze.
Sono invece 1.998 i migranti morti o dispersi nel Mediterraneo centrale secondo i dati del progetto Missing Migrants dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni, non considerando i naufragi che non è stato possibile documentare. Ai quasi 2mila morti tra cui almeno 88 minori si aggiunge il numero delle persone che vengono intercettate dalla guardia costiera libica e riportate nei centri di detenzione: oltre 23 mila nel 2022.
Al numero dei morti, vicino a quello del 2021 quando erano 2.062, al numero sempre crescente delle intercettazioni da parte delle autorità libiche, bisogna affiancare la percentuale dei soccorsi da parte delle Ong: soltanto il 14% secondo l’Ispi sul totale dei migranti arrivati in Italia (pari a più di 14mila persone tratte in salvo).
Ma in Italia c’è ancora chi parla di “pull-factor” e la criminalizzazione del soccorso in mare si ripresenta. Il nuovo governo Meloni dopo aver esordito con il criterio dello “sbarco selettivo” e l’espressione infelice di “carico residuale” dirotta ora le navi della società civile nei porti del Nord Italia, come accaduto negli ultimi sbarchi di Livorno nei confronti di 108 persone soccorse dalla nave Sea-Eye4 della Ong United4Rescue e precedentemente con la nave LifeSupport di Emergency che ha portato in salvo 142 naufraghi. Nelle prossime ore poi l’Esecutivo si appresta col decreto Sicurezza ha varare la tanto annuciata stretta sulle navi umanitarie.
«Le recenti operazioni delle navi di soccorso dimostrano che l’assegnazione veloce di un porto lontano ha un prezzo. I porti sicuri devono essere assegnati subito, ma con i porti molto a nord la volontà politica è di tenere le navi lontane dai soccorsi il più a lungo possibile», scrive Sea-Watch, Ong che dal 2014 ha portato in salvo oltre 35 mila persone e che oltre alle navi possiede due arei da ricognizione (Seabird 1 & 2) che permettono di monitorare le violazioni che avvengono nel MedIterraneo al pari di Pilotes Volontaires con i velivoli Colibrì.
L’impostazione del nuovo governo è ora anche quella di vietare alle navi Ong i soccorsi multipli: «Lo scopo di questi nuovi decreti è chiaro. Queste nuove regole hanno come obiettivo quello di diminuire le capacità di soccorso, mentre le persone, fuggendo, combattono per la propria vita. L’interruzione delle nostre missioni dopo ogni soccorso, anche se numericamente piccolo, e l’immediato ritorno a terra si tradurrà inevitabilmente in un aumento dei costi del carburante e in molto tempo perso», ha spiegato Hermine Poschmann di Mission Lifeline impegnata a dicembre nel Mediterraneo con la Sea Eye 4 e la Rise Above.
La flotta della società civile resiste. Nel 2022 la Geo Barents di Medici Senza Frontiere ha portato a termine 14 missioni nel 2022 salvando 3.742 persone, tra cui 1071 minori, 927 non accompagnati. Ad agosto è salpata per la sua prima missione la Sos Humanity che ha portato in salvo 855 persone e ancora altre navi come l’Astral e la Open Arms della omonima Ong spagnola che nel 2022 ha concluso 97 operazioni di soccorso o la Louise Michel che ha portato a termine quattro difficili operazioni di salvataggio e tornerà insieme alle altre sulla scena dei salvataggi nel 2023.
Marittimi, medici, soccorritori, psicologi, ostetriche, mediatori culturali: equipaggi di professionisti che ogni giorno in mare cercano di salvare vite umane.
Immagine in evidenza su Vita
Di Maurizio Ambrosini su Avvenire
Si scorgono spiragli di novità nelle politiche dell’immigrazione dei grandi Paesi della Ue. Per circa cinquant’anni, dal primo choc petrolifero degli anni 70 del secolo scorso, la nuova immigrazione per lavoro era stata ufficialmente bandita. Rimanevano aperte le porte agli immigrati qualificati, per esempio in ambito sanitario, a un certo numero d’immigrati stagionali, e poco altro. Nel nuovo secolo, l’immigrazione dai nuovi Paesi entrati nella Ue, come Polonia, Romania, Bulgaria – cittadini ammessi nel giro di qualche anno alla piena libertà di movimento – per un certo periodo ha soddisfatto le richieste dei mercati del lavoro dei Paesi della vecchia Ue bisognosi di manodopera, tra cui l’Italia. Altri canali, come i ricongiungimenti familiari (Francia) e l’accoglienza di rifugiati (Germania, Svezia), assumevano in modo indiretto anche il compito di rifornire di manodopera il sistema economico. Ora però, nel contesto post-pandemico, le vecchie ricette stanno mostrando la corda. I datori di lavoro un po’ ovunque lamentano di non trovare i lavoratori di cui hanno bisogno, e dall’Est europeo, a quanto pare, non arrivano più candidati in numero sufficiente. Così Germania, Francia e Spagna stanno correndo ai ripari.
La Germania, con la sua robusta economia, è stata la prima a imboccare, sebbene con prudenza, la strada di una nuova politica degli ingressi. Una nuova legge, varata nel 2022, punta ad attrarre lavoratori in possesso di competenze utili al sistema economico tedesco.
Persone dotate di diplomi che attestino la loro qualificazione, conoscano sufficientemente la lingua tedesca, dispongano di un alloggio, siano in grado di mantenersi durante il periodo di ricerca di un’occupazione. La legge viene ritenuta ancora timida da molti esperti, irta di complicazioni burocratiche. D’altronde la previsione governativa di ammettere 25mila lavoratori all’anno rimane lontana dalle stime dei fabbisogni, che superano il milione di posti vacanti. È importante però il segnale, in una materia in cui messaggi e narrazioni hanno più che mai il potere di plasmare le visioni e quindi le decisioni politiche. La Germania, peraltro, in modo più discreto, si è già dotata di un meccanismo per integrare nel sistema occupazionale i richiedenti asilo diniegati, mediante corsi di formazione e accordi con le imprese. Il governo francese ha recentemente assunto un’iniziativa che va nella medesima direzione.
A fronte di un sistema d’ingressi legali per lavoro restrittivo e inefficiente, i ministri dell’Interno e del Lavoro hanno anticipato una proposta, che verrà discussa nel 2023: l’introduzione di un permesso di soggiorno per i “mestieri sotto tensione”, destinato agli immigrati irregolari già presenti, che troverebbero impiego, o l’hanno già trovato informalmente, laddove manca manodopera. Si rafforzerebbe così la corsia già in vigore delle regolarizzazioni caso per caso. Forse un nuovo strumento normativo neppure servirebbe, ma la proposta ha un significato culturale: mostrare che la Francia è di nuovo pronta ad accettare l’immigrazione per lavoro.
La Spagna conferma a sua volta una maggiore apertura a soluzioni pragmatiche e liberali in materia di politiche migratorie. Nell’agosto 2022 ha introdotto nuove norme per agevolare l’ingresso di lavoratori da Paesi terzi richiesti dal sistema produttivo. Le complesse procedure fin qui previste sono state parecchio alleggerite, soprattutto per il settore edile. Anche per chi è entrato nel Paese per motivi di studio o per un tirocinio formativo è ora più facile lavorare legalmente. La Spagna dispone inoltre di procedure piuttosto generose per regolarizzare chi non dispone di un permesso di soggiorno idoneo, e per evitare che gli immigrati che perdono il lavoro cadano nell’irregolarità. I maggiori paesi della Ue si stanno quindi riaprendo all’immigrazione per lavoro.
Il governo italiano ha annunciato di voler alzare le quote d’ingresso previste con il decreto flussi in gestazione, portandole sopra le 80mila unità. Dopo alcuni tentennamenti, sta per confermare però i vincoli che voleva introdurre: verifica della disponibilità di disoccupati percettori di reddito di cittadinanza, addirittura allargata a tutto il territorio nazionale, e scambio tra quote d’ingresso e accettazione dei rimpatri degli immigrati espulsi. Sono due mosse sbagliate, che non rispondono alle crescenti esigenze delle imprese, dei servizi pubblici e delle famiglie e tendono a mantenere una sorta di riserva dal sapore xenofobo. Soprattutto, rivelano la mancanza di una visione lungimirante e inclusiva, in grado di manifestare l’interesse del nostro Paese ad accogliere e valorizzare nuove energie. Una necessità destinata a farsi sempre più urgente.
Di Maurizio Ambrosini su Avvenire.it
Italia e Francia si rinfacciano, dunque, accuse di disumanità e di irresponsabilità sul dossier sbarchi e rifugiati, offrendo un deprimente spettacolo di discordia e di contrapposizione in un momento in cui l’Europa dei diritti e dei valori universali dovrebbe essere più che mai unita.Ma che cosa c’è di vero nell’idea dell’Italia «lasciata sola» a fronteggiare gli afflussi di profughi? Non molto, in verità, se si allarga lo sguardo dagli approdi via mare (e dalla parte minima di essi derivanti dai salvataggi in mare operati da Ong internazionali) all’accoglienza delle persone in cerca di protezione internazionale: quelle in definitiva che comportano oneri di ospitalità e presa in carico da parte degli Stati riceventi.
Secondo Eurostat, nel 2021, sono arrivate ai governi della Ue 537mila prime richieste di asilo, aumentate del 28% rispetto al 2020, anno della pandemia. E ad accoglierne di più è stata come sempre la Germania (148.000), seguita proprio dalla Francia (104.000), poi dalla Spagna (62.000). L’Italia si è collocata al quarto posto, con 45.000 richieste di asilo: meno della metà dei cugini transalpini. Se guardiamo al rapporto con la numerosità della popolazione, la Svezia (25 richiedenti asilo ogni 1.000 abitanti), l’Austria (15), o la stessa Francia (6), sono più ospitali dell’Italia (3,5), collocata sotto la media dell’Europa Occidentale.Ci sono poi i cosiddetti “movimenti secondari” dei rifugiati che, arrivati sul territorio di uno Stato, si spostano in un altro e ripresentano una domanda di asilo: la Francia nel 2021 ne ha ricevuti 30.000, molti dei quali passati attraverso l’Italia. Il punto è che i profughi non arrivano solo dal mare, ma anche via terra, a piedi, in auto, con trasporti pubblici, oppure in aereo, come i venezuelani che sbarcano in Spagna. Gli sbarchi sono più drammatici e visibili, ma non prevalenti. È uno sguardo ristretto, disinformato o volutamente distorto, quello che vede soltanto i profughi che approdano sotto casa sua.
Parigi ha poi accettato volontariamente la ricollocazione di 3.500 persone sbarcate in Italia: impegno appunto volontario, attuato con lentezza e presumibile riluttanza, ma pur sempre gesto di buona volontà. La provocazione italiana, che ha rivendicato come una vittoria l’accoglienza della Ocean Viking in un porto francese («L’aria è cambiata»: il ministro Salvini su facebook), ha scatenato la contro-provocazione francese: niente più accoglienza volontaria. Chiedere solidarietà ai vicini per storia e geografia e poi bastonarli o irriderli non è mai una buona mossa, così come far finta di non vedere le frontiere ermeticamente chiuse e la solidarietà sistematicamente negata dai vicini ideologici (i Paesi con governi nazional-sovranisti).
Dove la Francia si muove su un terreno discusso e discutibile è il controllo dei confini terrestri: qui la libera circolazione attraverso le frontiere interne della Ue è stata di fatto ristretta, sono state introdotte forme di profilazione razziale, sono stati perseguitati gli attivisti, è stata messa a repentaglio la vita dei profughi in transito per un principio di difesa dei confini non meno assolutizzato, e disumano, di quello che l’Italia si è tornati a inalberare. Nessuno in Europa d’altronde ha la coscienza pulita, se si pensa alle discusse imprese di Frontex ai confini esterni, o agli accordi con Paesi di transito come Libia, Turchia, Marocco.Viviamo un tempo fosco in cui le persone in fuga diventano «armi di una guerra ibrida», ai confini della Polonia, «carico residuale» sulle coste italiane, «animali» nel linguaggio di Donald Trump. Si cercano e ottengono voti respingendo le persone, oppure deportandole da un’altra parte. Basti pensare al tentativo di Danimarca e Regno Unito di trasferire i richiedenti asilo in altri continenti.
Ma anche Ron DeSantis è diventato una celebrità trasportando sull’isola di Martha’s Vineyard 50 migranti senza documenti validi, perlopiù venezuelani, convinti di andare a Boston. Gli esseri umani bisognosi di protezione diventano strumento cinico e crudele di cattura del consenso politico. Vogliamo tenacemente sperare in un Occidente e in un’Europa migliori, di cui l’accoglienza ai profughi ucraini ha dato un esempio: non sia un’eccezione, ma un’anticipazione profetica di un mondo migliore e più umano.
Di Luca Rondi su Altreconomia
“Le violenze al confine sono nuovamente tornate a crescere. L’utilizzo di spray urticante, pallini di gomma sparati su persone inermi, giovani obbligati a mangiare le sigarette che avevano nello zaino, bambini divisi dai loro genitori. È il solito copione”. Giulia Moretto, attivista di No Name Kitchen (Nnk), descrive così quanto accade sul confine serbo-ungherese: da quella piccola porzione di confine, in cui un’alta rete metallica e un filo spinato separa i due Paesi, migliaia di persone, uomini, donne e bambini, ancora oggi tentano di entrare nell’Unione europea. La “rotta balcanica” -tante vie che collegano la Turchia al sogno europeo- vede il consueto cambiamento nelle traiettorie percorse dalle persone che tentano il game, come viene chiamato il tentativo di attraversamento della frontiera, in base a dove il confine sembra più permeabile. Quello che non cambia, però, sono la violenza e le chiusure realizzate dalle politiche di governi locali ed europei. Sabato 24 settembre la rete RiVolti ai Balcani ha fatto il “punto” su quanto accade nella regione dei Balcani. E non solo.
La “strategia” europea che vuole trasformare il diritto di asilo in un privilegio per chi è abbastanza forte da resistere ai soprusi non è attuata solamente dai Paesi autocratici dell’Est Europa. Così, quanto succede in Turchia, Grecia, Bosnia ed Erzegovina e Ungheria è collegato alle politiche di esclusione che troviamo anche nel nostro Paese. La “democratica” Italia oggi ostacola infatti sistematicamente l’accesso all’asilo su tutto il territorio. Come ricostruito anche su Altreconomia, chiedere oggi asilo per chi arriva in Italia via terra è un miraggio. “È come se ci fosse una sorta di colpa nel fatto di non essere stati soccorsi in mare o rintracciati nei pressi della frontiera – ha spiegato Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà di Trieste (Ics)-. Per chi incontra le forze dell’ordine al suo arrivo l’amministrazione provvede a collocarlo in un centro e permettergli di chiedere asilo, tutti gli altri, invece, si scontrano contro un muro di gomma che è difficile da bucare”.
Da Trieste a Torino, passando per Milano, Piacenza, Roma: il copione si ripete. “È una strategia di deterrenza evidente, non possiamo parlare di inefficienza. Non si fa presentare la richiesta d’asilo alla persona di modo che questa non abbia diritto all’accoglienza nonostante questo sia un diritto previsto dal nostro ordinamento. Tanto che i tribunali amministrativi stanno condannando per inadempienza le questure e le prefetture. In certi casi si va anche oltre: si chiede ai richiedenti asilo di presentare il proprio domicilio. In un paradosso per cui chi dovrebbe darti un tetto su cui stare, te lo chiede”. È la frontiera burocratica, che oggi lascia all’addiaccio migliaia di persone. “Attualmente abbiamo 275 persone in strada che sono richiedenti asilo ma non vengono accolti – racconta Maddalena Avòn, operatrice legale di Ics-. Dov’è lo stato di diritto? Che tutela stiamo offrendo a queste persone? Vivo in prima persona la sensazione di frustrazione per chi, dopo anni di cammino, pensa di aver concluso il viaggio e si ritrova senza nulla”.
Quel che è certo è che non sono i “numeri” a giustificare la difficoltà delle amministrazioni nel disbrigo delle procedure burocratiche. Sono stati circa duemila gli arrivi a Trieste in agosto. Un numero più elevato rispetto ai mesi precedenti che diventa problematico per chi lavora nell’emergenza ma che in termini assoluti resta una briciola per un Paese, l’Italia, che ha tra le percentuali più basse di richiedenti asilo per abitante. Che l’Italia non sia Paese di arrivo ma di transito lo sa bene anche Martina Cociglio, operatrice legale di Diaconia Valdese che opera nell’alta Val Susa, a Oulx. Qui, a meno di venti chilometri dal confine, il rifugio Massi fornisce sostegno e un pasto caldo a circa 70 persone a notte. Ad agosto sono transitate circa 800 persone, in prevalenza provenienti da Afghanistan, Iran e Marocco e con un’elevata percentuale di minori stranieri non accompagnati. La polizia francese presidia i confini e respinge chi tenta di attraversare.
“Privazione della libertà personale, mancanza di assistenza legale, impossibilità di mediazione, nessun esame individuale della domanda d’asilo: queste sono le principali violazioni dei diritti di chi vuole raggiungere parenti, amici in un altro Paese dell’Ue -racconta Cociglio-. Chi arriva qui è convinto che non esistano più i confini militarizzati e le barriere che ha incontrato fino al giorno prima di quando non era nel nostro Paese. E invece non è così”. I controlli sono stati ripristinati nel 2015 con la giustificazione delle minacce legate al terrorismo: oggi vengono rinnovati ogni sei mesi da parte del Consiglio di Stato francese, senza motivazioni attuali e in contrasto con quanto previsto dal Codice frontiere Schengen. “Il paradosso è che ha più tutele chi arriva in Francia da un Paese terzo, via aereo, rispetto a chi arriva da un altro Paese dell’Ue. In aeroporto vengono riconosciuti molti più diritti che in frontiera. Il tutto con una base pretestuosa: l’Austria nell’aprile 2022 è stata condannata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea per aver ripristinato per un periodo di tempo troppo lungo i controlli ai confini interni”.
Anche chi si vuole fermare e sceglie di tornare a Torino da Oulx, si scontra contro il “muro di gomma” dell’impossibilità di presentare richiesta d’asilo. Un’impossibilità che si riscontra anche nei porti italiani di Ancona, Venezia e Brindisi. Un altro “tassello” di una strategia di negazione del diritto d’asilo messa in atto dal nostro Paese. “Vengono respinti senza neanche aver messo i piedi sul territorio italiano -dice Anna Clementi, operatrice sociale dell’associazione Lungo la rotta balcanica-. Una volta intercettati sono riconsegnati al comandante della nave che li riporta al punto di partenza. Senza alcuna garanzia”.
Ed ecco il collegamento con quanto succede nei Balcani. Il punto di partenza è a Patrasso, in Grecia, dove le persone vivono la violenza della polizia sistematica verso chi vuole imbarcarsi tentando la traversata in container caricati su navi merci. “Vengono spessi chiusi in celle, a volte anche all’aperto, sotto il sole, e lasciati per ore senza un documento che giustifichi il loro trattenimento. Un ‘segnale’ che la polizia vuole mandare a tutti coloro che sono pronti a imbarcarsi”. Più in generale la Grecia continua a essere un “laboratorio per le politiche securitarie messe in atto dall’Ue”, spiega Andrea Contenta, ricercatore indipendente attivo nel Paese. “Il governo porta avanti una politica di apartheid nei confronti dei migranti. C’è una forte criminalizzazione della solidarietà e il tentativo di cambiare l’ordinamento giuridico per poter utilizzare i fondi dell’Ue per realizzare politiche illegali”.
Risalendo dalla Grecia verso i Balcani occidentali, le rotte percorse da chi è in transito sono cambiate. In Bosnia ed Erzegovina la situazione sembra più “tranquilla” rispetto al passato. Meno respingimenti al confine anche connessi a un cambio di approccio della polizia croata che permetterebbe alle persone di presentarsi nelle stazioni di polizia e ricevere un “foglio di via” con cui poter viaggiare e lasciare il Paese entro sette giorni. “È difficile capire il perché di questo repentino cambio di atteggiamento dal marzo 2022. Sicuramente la vicinanza delle elezioni nel Paese ha un’influenza su tutto questo”, racconta Tamara Cetkovic di Iscos Emilia-Romagna. In Bosnia ed Erzegovina le associazioni incontrano soprattutto famiglie provenienti dal Burundi, che scappano da una situazione molto violenta nel loro Paese, come ricostruito anche da Human rights watch, e che raggiungono in aereo la Serbia e poi tentano di entrare in Ue da diversi confini, oltre che minorenni provenienti da Afghanistan e Pakistan.
Lipa, il campo di confinamento “all’avanguardia” costruito anche dall’Ue, a cui RiVolti ai Balcani ha dedicato uno specifico dossier di approfondimento, oggi conta poche centinaia di presenze e probabilmente verrà sempre più utilizzato come hub per poter aumentare i rimpatri dei migranti verso i Paesi d’origine. Nonostante questo la criminalizzazione della solidarietà continua a colpire. “Il 22 settembre il Service for foreigners affairs del ministro degli Esteri bosniaco ha notificato alla nostra organizzazione uno sfratto per sgomberare una casa entro 48 ore che usiamo come appoggio per immagazzinare il materiale che arriva dalle donazioni -racconta Matilda Zacco di Nnk-. Un atto di intimidazione accompagnato da convocazioni presso le stazioni di polizia per essere interrogati. Sono venuti per trovare un motivo ‘illecito’ per giustificare lo sgombero: non hanno trovato nulla, ma l’obiettivo è stato comunque raggiunto”.
No Name Kitchen è attiva anche in Serbia dove nelle ultime settimane, come detto, si registra un aumento delle violenze. Al confine con l’Ungheria, da un lato, e con la Romania, dall’altro, le persone vengono brutalmente respinte dalla polizia. “È una violenza sistematica -racconta ancora Zacco-. Oltre alla polizia ungherese è presente anche quella austriaca, registriamo infatti moltissimi respingimenti a catena con le persone ‘riportate’ indietro dall’Austria. Abbiamo testimonianze di persone che hanno ricevuto la ‘benedizione’ cristiana e a cui sono state disegnate le croci sulla testa. È una situazione tremenda”. No Name Kitchen stima la presenza di circa 3mila persone nel Nord della Serbia: la difficoltà dell’attraversamento di quel confine, militarizzato e con la presenza di un’alta rete metallica, aumenta anche i profitti per chi contrabbanda i migranti. Il prezzo del confine sale, soprattutto per le famiglie.
Dalla Serbia o dalla Croazia, per chi arriva a Trieste dopo aver attraversato la Slovenia, comincia l’incubo italiano. Le riammissioni, la pagina buia del nostro Paese che ha visto nel 2020 oltre 1.200 persone respinte dal confine orientale verso le violenze della rotta balcanica, sembrano essere interrotte ma permangono gravi violazioni dei diritti. “Sì, è una frontiera in cui l’esercizio dei diritti fondamentali non è garantito -riprende Avòn di Ics- Si verificano situazioni gravi: minorenni registrati come maggiorenni nonostante la presenza di Ong al confine. E poi anche chi viene identificato come minorenne viene lasciato in strada”. Proprio in strada, in piazza della Libertà, continua il lavoro di Linea d’Ombra. “L’aumento degli arrivi e delle richieste degli ultimi mesi ci mette in difficoltà -spiegano Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir-. Questa piazza, la piazza del mondo, resta però il simbolo della resistenza. Di chi vuole cambiare le cose. È un patrimonio che resta di tutti e tutte”.
Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Un blocco navale per fermare gli arrivi di migranti verso l’Italia. E’ il piano proposto da Giorgia Meloni in vista delle elezioni politiche del prossimo 25 settembre. “Il blocco navale che propone Fratelli d’Italia è una missione militare europea, realizzata in accordo con le autorità libiche, per impedire ai barconi di immigrati di partire in direzione dell’Italia. Non si tratta di respingimenti, perché questi avvengono in mare aperto” si legge sul sito del partito di destra. Ma la proposta di un blocco navale è realizzabile davvero?
Stando all’articolo 42 dello Statuto delle Nazioni Unite il blocco navale non può essere attivato unilateralmente da uno Stato se non nei casi di legittima difesa, e cioè in caso di aggressione o guerra. Il contrasto all’immigrazione non rientra in nessuna delle fattispecie previste e dunque sarebbe illegale. Anzi, potrebbe essere equiparato a un atto di guerra da parte del nostro paese.
“Il blocco navale è un istituto preciso, regolato dal diritto di guerra e in questo momento c’è una guerra interna in Libia ma non c’è una guerra internazionale né contro l’Italia né contro l’Unione europea, quindi non ci sono i presupposti per evocare questa misura – spiega a Redattore Sociale Irini Papanicolopulu, professoressa associata di diritto internazionale all’università di Milano Bicocca – . Inoltre, non esiste un blocco navale concordato con il paese contro cui si fa. Ci sono casi specifici in cui può essere attuato, come nel caso di un conflitto armato, ma questo presuppone la perdita di neutralità da parte di chi lo opera. E’ a tutti gli effetti un atto ostile contro lo Stato verso cui si fa. E’, dunque, attualmente irrealizzabile”.
Secondo Papanicolopulu c’è probabilmente una confusione terminologica, si parla di “blocco navale” intendendo però “un’operazione di interdizione”. Che, però, allo stesso modo è possibile attuare solo ad alcune condizioni. “Nello specifico – spiega la docente – un’operazione di interdizione per fermare i migranti sarebbe contraria agli obblighi internazionali sia relativamente al diritto del mare che ai diritti umani”.
Nel 1997 l’allora governo Prodi mise in atto un’operazione per bloccare il flusso di profughi dall’Albania. L’operazione, chiamata impropriamente blocco navale, era realizzata di concerto con le autorità albanesi. Ma il 28 marzo dello stesso anno un’imbarcazione, la Kater I Rades, venne speronata dalla nave Sibilla della marina militare italiana nel tentativo di ostacolarne il passaggio. A bordo c’erano circa 150 persone, 83 persero la vita in mare. La tragedia, che rappresenta una delle pagine più buie della storia recente italiana, contribuì ad aprire un dibattito sui limiti del controllo delle frontiere da parte degli Stati. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati parlò di un blocco illegale da parte dell’Italia. E la misura venne sospesa.
“Anche l’operazione di interdizione navale è un istituto particolare che, proprio per il suo contenuto, può andare contro il diritto internazionale. In particolare va contro la libertà dei mari, cioè di navigazione, un principio secolare sancito dal diritto internazionale moderno – aggiunge la docente -. Solo in casi ben specifici e disciplinati dagli Stati si può fare. Tra le criticità c’è anche il diritto di passaggio inoffensivo nelle acque territoriali e la concreta liceità delle misure. In secondo luogo bisogna considerare la questione del rispetto dei diritti umani: c’è un trattato internazionale di cui fa parte perfino la Libia, il patto internazionale dei diritti civili e politici, che sancisce il principio per cui chiunque può lasciare un paese incluso il proprio”.
Non solo, ma ricorda Papanicolopulu, rispetto al 1997 la situazione è cambiata: “In questi vent’anni c’è stato uno sviluppo delle norme, diverse sentenze e trattati internazionali hanno offerto dei chiarimenti e ora il quadro è molto più definito, oltre ai principi generali abbiamo anche norme attuative che stabiliscono specifiche condizioni e limiti”.
E poi quali navi potrebbero passare e quali no? Cosa si fa con le navi mercantili? Inoltre, si potrebbe creare anche una situazione paradossale per il centrodestra: qualsiasi nave, anche da difesa, se incontra un’imbarcazione in distress ha l’obbligo di soccorso. E, dunque, se le navi chiamate a difendere i confini incontrassero un barchino carico di migranti in difficoltà sarebbero obbligate a prestare aiuto e a portare le persone nel porto più sicuro di sbarco. L’ipotesi di blocco navale o interdizione navale potrebbe così trasformarsi in una novella missione Mare nostrum. In caso contrario il nostro paese andrebbe incontro a nuove condanne: solo un mese fa la Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato la Grecia per un respingimento (e mancato soccorso) in mare.
Proprio per le polemiche nate dall’evocazione del “blocco navale” (su cui non si è detta d’accordo neanche la Lega) la stessa Giorgia Meloni in questi giorni ha cercato di spiegare la sua proposta, aggiustando il tiro: “Il tema degli sbarchi si deve affrontare col blocco navale, che altro non è che una missione europea, da concordare con le istituzioni europee, per trattare insieme alla Libia la possibilità che si fermino i barconi in partenza, l’apertura in Africa degli hotspot, la valutazione in Africa di chi ha diritto a essere rifugiato e di chi è irregolare, la distribuzione dei veri profughi e rispedire indietro gli altri. Occorre smetterla di considerare profughi e irregolari la stessa cosa: è una falsità costruita in questi anni dalla sinistra”, ha spiegato in una recente intervista a Studio Aperto.
L’obiettivo sembra dunque quello di rafforzare il Memorandum tra Italia e Libia, realizzato nel 2017 dall’allora governo Gentiloni, con l’aggiunta di hotspot per selezionare i richiedenti asilo nei paesi di transito extra europei. Una proposta che però contiene anch’essa dei limiti. “Questo tipo di proposte hanno tutte un retropensiero non espresso ma evidente: che si possa impedire il diritto di asilo come diritto di accesso individuale al territorio, selezionando i ‘veri rifugiati’ e bloccando le frontiere – spiega Gianfranco Schiavone, membro Asgi -. L’ipotesi è quello di un blocco navale realizzato sotto altre forme più o meno legali, ma tra l’ipotesi iniziale e quella apparentemente più ragionevole c’è una continuità di pensiero. Invece il diritto d’asilo prevede sempre il diritto di accesso al territorio dello Stato in cui si vuole chiedere protezione”.
Secondo Schiavone l’unica cosa che si può realmente fare è mettere in pratica procedure per facilitare l’ingresso dei richiedenti protezione internazionale, rilasciando visti umanitari. “Va esclusa la possibilità di un esame delle domande di asilo al di fuori del territorio in cui uno stato esercita la propria giurisdizione perché in tale contesto la domanda non può essere esaminata con tutte le garanzie necessarie, si pensi al diritto ad un ricorso effettivo – spiega -. Ciò che si può e si deve fare è riformare l’attuale normativa in modo da prevedere la presentazione di una domanda di asilo all’estero, si pensi a situazioni di chiaro pericolo, e il rilascio di visti di ingresso umanitari per il successivo pieno esame delle domande in Italia. Questa riforma ridurrebbe il numero di coloro che sono costretti ad affidarsi ai trafficanti per giungere in Italia e chiedere protezione. I paesi di transito però sono paesi dove ci sono scarse garanzie di rispetto dei diritti- aggiunge -. In Libia, poi, sarebbe impensabile un’ipotesi del genere”.
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