Di Luca Rondi su Altreconomia
I respingimenti illegali al confine stanno diventando sempre di più un “normale” strumento di gestione del fenomeno migratorio nell’Unione europea. Lo dimostrano i dati contenuti nel nuovo rapporto pubblicato a metà dicembre 2021 dal Protecting rights at borders (Prab) con riferimento alla Bosnia ed Erzegovina: nonostante siano state appena 10.593 le persone in transito nel Paese tra gennaio e novembre 2021 – in diminuzione rispetto alle 29.488 del 2019 -, nello stesso periodo il numero di pushback registrati al confine con la Croazia nel 2021 sono stati 8.812. Ovvero il 74% degli 11.901 totali. “Stanno diventando accettabili e in una certa misura queste pratiche ricevono approvazione da parti degli Stati membri dell’Unione europea” si legge nel documento frutto del lavoro di nove organizzazioni (tra queste, Danish Refugee Council, Asgi, Diaconia Valdese, Hungarian Helsinki Committee, Humanitarian Center for Integration and Tolerance, Macedonian Young Lawyers Association, Greek Council for Refugees) che tutelano i diritti umani in sei diversi Paesi e che hanno fornito i dati aggiornati registrati tra luglio e novembre 2021.
Nel periodo dell’analisi sono 6.336 i migranti e richiedenti asilo che dichiarano di aver subito un respingimento illegittimo. La punta dell’iceberg secondo i curatori del report. La maggior parte, come detto, al confine tra Croazia e Bosnia ed Erzegovina (4.905) e dalla Serbia che con mille casi registrati lungo i suoi confini conferma il cambiamento delle rotte che le persone in transito seguono nei Balcani.
Avvalorano questa lettura anche le statistiche fornite da Frontex, l’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee. Un dato su tutti è significativo. Nel 2015 in Albania venivano registrati meno di 2mila ingressi irregolari, nel 2021 questi sono diventati 12mila. Secondo la polizia albanese, il Paese ha visto un aumento del numero di persone che attraversa il Kosovo nella speranza di raggiungere la Serbia e da lì l’Unione europea attraverso due possibilità: la Romania o l’Ungheria. Secondo le testimonianze raccolte dal Prab, il 90% degli ingressi sul territorio romeno avviene a piedi lungo il confine con i villaggi Majdan e Rabe. “Una volta identificati dalla polizia, gli intervistati riferiscono molto spesso di essere stati picchiati, minacciati, di essersi visti negare l’accesso all’asilo e di essere stati espulsi verso la Serbia” si legge nel report, in cui vengono non a caso segnalati 592 casi di pushback illegittimi al confine serbo-romeno. Allo stesso modo, in Ungheria, dove la maggioranza fa ingresso nel Paese a piedi e viene espulsa verso il territorio serbo in numeri considerevoli: le statistiche ufficiali della polizia ungherese parlano di 11.392 respingimenti nel mese di settembre, circa 10mila in ottobre e 9mila in novembre.
Per quanto riguarda le persone coinvolte nei respingimenti, il Prab sottolinea l’elevato numero di persone vulnerabili che subiscono le pratiche illegittime – il 18% dei casi registrati riguarda famiglie con minori – e anche il coinvolgimento di chi avrebbe diritto ad ottenere l’asilo. La seconda nazionalità più coinvolta nelle pratiche di respingimento – dopo quella pakistana (2.220 casi) – è quella afghana (2.027): la violenza sui confini non ha risparmiato neanche le persone in fuga da Kabul che cercano protezione in Europa. Tra agosto e novembre 2021 un totale di 1.696 afghani dichiarano di aver subito un respingimento dalla Croazia alla Bosnia-Erzegovina, comprese 61 persone che hanno subito un respingimento a catena dalla Slovenia, attraverso la Croazia alla Bosnia-Erzegovina. Un numero che include 65 minori stranieri non accompagnati (Msna) e 154 famiglie con 163 bambini. “Le promesse di assistere coloro che affrontano una terribile situazione umanitaria in Afghanistan dovrebbero andare di pari passo di pari passo con la fornitura di un effettivo accesso alla protezione per coloro che sono bloccati alle porte dell’Ue – si legge nel report -. Indipendentemente dal fatto che le persone provenienti dall’Afghanistan siano entrate nei Paesi dell’Unione europea irregolarmente, l’accesso alle procedure di asilo individuale e alla protezione deve essere garantito”.
La situazione descritta dimostra come la Croazia sia ancora lontana dal garantire una gestione dei confini rispettosa dei diritti fondamentali delle persone che vi transitano. Per fermare l’ingresso del Paese nell’area Schenghen non è bastata però né la condanna della Corte di giustizia dell’Unione europea nei confronti del ministero dell’Interno croato per la morte della piccola Madina, né la recente pubblicazione del report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura che smaschera le sistematiche violenze lungo i confini croati. Il 9 dicembre 2021 il Consiglio europeo ha dichiarato che il governo di Zagabria “soddisfa le condizioni necessarie per la piena acquisizione dell’acquis di Schenghen”. In attesa del parere, non vincolante, del Parlamento europeo e degli altri Stati membri rispetto a tale decisione preoccupano non solo le denunce ma anche l’efficacia del meccanismo di monitoraggio dei diritti umani alle frontiere previsto dalle autorità croate. La pubblicazione del primo rapporto di questo organo – fortemente criticato per composizione e modalità operative (ne avevamo parlato qui) – ha positivamente stupito le associazioni impegnate sul campo evidenziando che la polizia effettua respingimenti, impedisce alle persone di fare domanda d’asilo e sottolineando che l’onere della prova in relazione all’ammissibilità delle persone sul territorio spetta allo Stato. Ma in breve tempo la versione pubblicata è stata modificata evitando qualsiasi riferimento a violazioni sistematiche dei diritti fondamentali. “I cambiamenti di linguaggio del rapporto aggiornato sono eccezionalmente problematici – si legge nel report del Prab -. Non solo l’indipendenza del rapporto e del meccanismo viene messa in discussione, ma serve sottolineare come meccanismi inadeguati possano essere usati per mascherare le violazioni dei diritti umani”.
Il Prab cita anche l’Italia con riferimento alle frontiere interne. Su Ventimiglia si segnala una mancanza di assistenza di base e una risposta umanitaria “estremamente carente”. Nel report si segnalano inoltre “rischi specifici per la sicurezza e il benessere mentale tra i migranti vulnerabili come minori, donne che viaggiano da sole e donne con bambini che sono state trattenute insieme a uomini soli, aumentando i rischi di violenza di genere”. Sul confine italo-francese settentrionale, invece, si segnalano soprattutto persone provenienti da Afghanistan, Pakistan e Iran che denunciano casi di detenzione arbitraria per diverse ore da parte delle autorità francesi così come maltrattamenti fisici e verbali. “Inoltre, la modifica dei trasporti pubblici ha lasciato le persone in movimento bloccate a Oulx per diversi giorni nel Rifugio Fraternità Massi, causando sovraffollamento, mancanza di spazio e tensioni”.
Resta alta l’attenzione anche sulla frontiera orientale italo-slovena. Le riammissioni informali attive restano formalmente sospese ma sopravvivono i pattugliamenti misti al confine di cui abbiamo parlato anche su Altreconomia. Non solo. Il Prabsegnala 10 persone respinte a catena verso la Bosnia ed Erzegovina attraverso la Croazia e la Slovenia. Un caso riportato anche dal Border violence monitoring network (Bvmn) – una rete di Ong che mensilmente aggiorna il numero di respingimenti di migranti e richiedenti asilo lungo i confini europei – nel report di novembre che riporta la testimonianza di un gruppo di cittadini pakistani che il 5 novembre 2021 sarebbe stato prima trattenuto nelle vicinanze di Trieste e poi respinto a catena fino a Bihać. Una situazione da monitorare anche in considerazione della dichiarata volontà del prefetto di Trieste di riprendere le pratiche delle riammissioni.
“L’esistenza di casi, non più rari, in cui persone con uno status legale come gli interpreti o altri vengono respinte – conclude il Prab – riflette ulteriormente la normalizzazione dei respingimenti come strumento di gestione delle frontiere. Mentre queste pratiche devono semplicemente smettere di esistere, l’installazione di un efficace e indipendente meccanismo di monitoraggio, che non sia una foglia di fico, può essere uno strumento per ritenere i colpevoli responsabili e garantire accesso alla giustizia alle vittime”.
Foto in evidenza di Diaconia Valdese, tratto dal report Prab
Su Nigrizia
Avin aveva 38 anni e un figlio in grembo, morto da venti giorni, quando è deceduta per setticemia. All’arrivo in ospedale la sua temperatura corporea misurava 27 gradi. Troppo freddo, troppa fame, troppa sete in quel bosco in cui si nascondeva, insieme al marito Murad e ai suoi altri cinque figli, dai primi di novembre. Partiti dal Kurdistan iracheno, i sette ambivano semplicemente a una vita migliore. Per questo si erano messi in viaggio, cercando di varcare l’ennesima frontiera.
Avin è solo l’ennesima morte avvenuta in quel confine bielorusso, dove è difficile stimare il numero delle persone che transitano e sostano. Secondo il governo polacco, queste ultime sarebbero 5mila. Ma come si può dirlo con certezza? Da mesi, in quel tratto di confine che separa la Bielorussia dalla Polonia, non è consentito l’accesso a nessuno che non abbia il lasciapassare della polizia di frontiera. Divieto assoluto per chiunque, soprattutto per giornalisti, personale delle ong, dell’Unhcr, associazioni di aiuto umanitario. Persino a cinque europarlamentari è stato negato il passaggio qualche giorno fa.
In questo confine, secondo Grupa Granica – una sigla che mette insieme 14 associazioni polacche che si occupano di migranti e svolgono azione di monitoraggio e denuncia lungo la frontiera –, quando finirà l’inverno, si scioglierà la neve e verranno rimosse le restrizioni all’accesso, si scopriranno tanti cadaveri.
Intanto però, nessuno deve essere testimone di quel che davvero accade tra quei boschi. Nessuno deve portare aiuto e conforto dove, da agosto, centinaia e centinaia di profughi iracheni, afghani, siriani, yemeniti, somali transitano. Alcuni già richiusi nei centri di detenzione gestiti dalla polizia di frontiera, altri, tantissimi, in movimento in mezzo alle foreste tra Bielorussia e Polonia, ma anche Lituania e Lettonia.
E proprio tra i boschi polacchi, dal 10 dicembre, si aprirà la caccia al cinghiale. La notizia dell’autorizzazione da parte del governo, arrivata qualche giorno fa, ha destato le proteste di varie associazioni della società civile e umanitarie: una decisione irresponsabile e inumana, troppo il rischio per chi si muove nello stesso sottobosco, cercando di sfuggire ai controlli della polizia. Sono 14mila gli agenti che pattugliano quel lato del confine polacco.
E tra chi pattuglia c’è anche chi si blinda, respinge e rimpatria. La Polonia ha già iniziato a costruire la recinzione che dovrebbe separarla dalla Bielorussia: il muro di filo spinato, lungo 180 chilometri e alto 5,5 metri, dovrebbe essere finito entro metà 2022. Prima dunque di quello lituano, per cui sono stati stanziati 152 milioni di euro. Il muro della Lituania, che va a integrare il mucchio di filo spinato che già esiste, sarà dotato di attrezzature sofisticate di videosorveglianza, sarà lungo 500 chilometri e concluso entro settembre del prossimo anno.
E mentre si erigono barriere, per venire incontro a questi paesi, la commissione europea ha proposto, i primi di dicembre, misure eccezionali e temporanee che consentono a Polonia, Lettonia e Lituania di rimpatriare con maggiore flessibilità chi entra irregolarmente dal confine bielorusso. Procedure rapide che, riconosciute dalle istituzioni europee, finiscono, secondo Amnesty International, per normalizzare la disumanizzazione dei rimpatri.
Foto in evidenza di Nigrizia
Su Open Migration
Quando l’8 agosto 1991 la nave Vlora apparve nel porto di Bari col suo enorme carico umano, l’Italia poteva dirsi un paese che conosceva poco il fenomeno dell’immigrazione.
Anche se già dalla prima metà degli anni ‘70 il saldo migratorio – la differenza tra partenze di emigranti e rientri o arrivi di nuovi immigrati – inizierà prima a calare e poi a diventare positivo (i 170.000 permessi di soggiorno validi nel 1973 raddoppiano nel 1982 e tra il 1988 e il 1990 superano stabilmente i 600 mila) politica, media e comunità scientifica raccontavano ancora un paese di emigranti e questa era la percezione generale.
L’arrivo della Vlora a Bari farà da detonatore a una nuova percezione che sostituirà la precedente, e seppure rappresenterà un caso limite pronto a pervadere l’immaginario collettivo fino ai nostri giorni, dal punto di vista storico non rappresenta neppure il primo caso di arrivo in massa di migranti nel nostro paese.
L’e-book di Open Migrantion A trent’anni dallo sbarco della Vlora. Breve viaggio nell’Italia che si è scoperta Paese di immigrazione vuole raccontare con occhio ormai storico quell’evento e quelli che seguirono. Un lavoro che raccoglie oltre 20 approfondimenti dalle due sponde dell’Adriatico, che vuole raccontare anche tutti i modelli, gli schemi e le risposte inaugurate allora e riproposti ancora oggi, a distanza di 3 decenni. Una lettura per raccontare l’Italia di allora e quella di oggi che, per usare le parole del curatore Tommaso Fusco, dovrebbe “soprattutto renderci impossibile parlare ancora di emergenza” quando affrontiamo il tema migrazione.
Per leggere l’e-book di Open Migration clicca qui.
Di Pierre Haski su France Inter, traduzione di Andrea Sparacino su Internazionale
La morte di 27 migranti nella Manica ha creato un trauma: l’ennesimo, saremmo tentati di dire senza cinismo. La settimana scorsa 75 migranti avevano perso la vita nel Mediterraneo dopo essere partiti dalla Libia a bordo di un barcone sovraffollato, portando a 1.300 il numero di morti dall’inizio dell’anno. Il tutto nell’indifferenza più assoluta. Due settimane fa, alla frontiera tra Polonia e Bielorussia, altri migranti, strumentalizzati dal dittatore di Minsk, sono stati sballottati da una parte all’altra del confine, e alcuni sono morti in quella terra di nessuno congelata.
L’unica conclusione che si possa trarre da queste tragedie che si ripetono in quasi tutte le frontiere esterne dell’Europa è che noi, abitanti della potente e ricca Europa (Regno Unito compreso, per una volta) non abbiamo ancora una risposta al problema. Eppure è da anni che questo dramma coinvolge l’Europa, dai naufragi di Lampedusa ai campi profughi simili a prigioni di Samos, in Grecia, dalle alte barriere dell’enclave spagnola di Ceuta all’indegna giungla francese di Calais.
I motivi di questa impasse non mancano: timore di un ritorno dei venti populisti, differenze di vedute tra i vari paesi europei, egoismi nazionali o semplicemente paura dell’”altro”.
Il caso particolare degli afgani evidenzia tutte le nostre contraddizioni. In occasione della caduta di Kabul in mano ai taliban, con immagini apocalittiche che arrivavano dall’aeroporto, tutti erano d’accordo sulla necessità di aiutare il maggior numero di persone a partire. La mobilitazione delle amministrazioni comunali, delle associazioni e dei singoli cittadini ha permesso di accogliere dignitosamente migliaia di afgani che erano riusciti a salire a bordo di un aereo. Ma molte afgane e afgani appartenenti ad altri ceti sociali, arrivati con altri mezzi, non hanno ricevuto lo stesso trattamento.
Per qualche giorno, ma solo per qualche giorno, lo slancio per aiutare i profughi afgani ci ha ricordato la fine degli anni settanta, quando la Francia accolse 120mila boat people dal Vietnam in fuga dalla vittoria comunista dopo una mobilitazione da parte degli intellettuali di ogni orientamento, da destra a sinistra, compresi i fratelli-nemici della filosofia francese Raymond Aron e Jean-Paul Sartre. Uno scenario simile oggi è impensabile, perché il momento è segnato da un dibattito deleterio sul tema e dai muri, reali e mentali.
L’argomento sarà uno dei più difficili per la presidenza francese dell’Unione europea, nel primo semestre del 2022, con la riforma delle politiche europee sull’immigrazione e l’asilo. La Commissione europea ha avanzato alcune proposte, ma il dialogo è paralizzato dalle divisioni tra gli stati, e non solo a est del continente. La Danimarca, pur guidata dai socialdemocratici, presenta per esempio una delle politiche migratorie più restrittive del continente.
Qualche giorno fa uno degli osservatori più acuti di questo dibattito, il politologo bulgaro Ivan Krastev, sottolineava che i politici europei “si sentono incapaci di aiutare chi vuole più democrazia nel proprio paese e temono l’arrivo dei migranti”.
Con una punta d’ironia amara, Krastev ha aggiunto che “Bruxelles ha paura delle stesse cose che determinano la sua forza di attrazione. Una volta l’Europa si faceva forte dell’idea che molte persone nel mondo volessero vivere come i suoi cittadini. Oggi questa idea la spaventa”. È un paradosso su cui meditare, in attesa che arrivi la prossima tragedia.
Immagine in evidenza di Kiran Ridley/Getty Images su Internazionale
Di Anna Spena su Vita
Era l’alba dello scorso 23 febbraio quando la polizia ha fatto irruzione nell’abitazione privata di Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir, sede dell’associazione Linea d’OmbraODV. Il motivo della perquisizione? La ricerca di prove per un’imputazione di favoreggiamento del soggiorno di migranti clandestini.Trieste è la città italiana dove fisicamente finisce la Rotta Balcanica. Lorena, 68 anni, psicoterapeuta, e suo marito Gian Andrea, 85 anni, professore di filosofia in pensione sono due attivisti che hanno messo in piedi un piccolo presidio medico all’esterno della Stazione di Trieste per offrire prima assistenza ai migranti che passano il confine con la Croazia ma che sul corpo portano i segni delle torture. Sono lì, “dove bisogna stare”, dicono, tutti i pomeriggi ad accogliere i ragazzi, con il “carrettino verde” della cura dove Lorena tiene le garze, i cerotti, il disinfettante, qualche medicina di base. Il carrettino è il simbolo del suo lavoro e degli altri volontari di Linea d’Ombra che sulle panchine di Piazza della Libertà, così come negli squat bosniaci, le strutture abbandonate dove vivono i migranti, medicano i piedi dei ragazzi.
Lo scorso febbraio Gian Andrea è entrato nel registro degli indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, l’hanno associato a un passeur, un “traghettatore” di uomini. Poi l’indagine a coinvolto anche Lorena Fornasir. Dopo nove mesi finalmente l’archiviazione delle accuse.
“In data 22-23 novembre 2021 il pubblico ministero e il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Bologna hanno convenuto di archiviare l’accusa fatta nei nostri confronti “non emergendo elementi che consentano la sostenibilità dibattimentale dell’accusa”, scrivono. “Questa archiviazione dimostra con chiarezza l’intenzione politica dell’indagine che ha portato alla nostra denuncia”, scrivono in una nota. “L’indagine, iniziata nel 2019, nasce per iniziativa del P. M. di Trieste, che vuole cogliere un legame intrinseco fra la cosiddetta cellula triestina di passeur o smuggler, noi due e, indirettamente, anche Linea d’Ombra.
Inizialmente l’indagine riguardava solo Gian Andrea. In un secondo tempo, coinvolge anche Lorena. Questo fatto ne produce lo spostamento presso il tribunale di Bologna dato che Lorena, giudice onorario presso il tribunale dei minori di Trieste, rientra nei ranghi della magistratura per la quale è competente appunto il tribunale bolognese.
Il procedimento giunge quindi nelle mani di un magistrato non interessato a un’intenzione politica punitiva nei confronti di chi agisce solidalmente con i migranti, il quale non ha difficolta a ravvisare il carattere artificioso della presunzione di collegamento fra Gian Andrea, Lorena e la cosiddetta cellula triestina e, ancor più, lo scopo di lucro. Chiede quindi l’archiviazione che il giudice per le indagini preliminari conferma.Il succo di questa vicenda sta appunto nel rendere ancora una volta evidente il carattere politico delle denunce nei confronti degli attivisti solidali con i migranti: così è caduta la denuncia contro Mediterranea e prima ancora quella contro Carola Rackete. Crediamo che cadrà anche quella di Andrea Costa di Baobab di Roma. Diverso è caso di Mimmo Lucano perché si tratta di un esempio pericoloso in quanto avrebbe potuto diffondersi presso altri piccoli comuni spopolati come esempio di rinascita sociale”.
Su Altreconomia
Gli Stati membri dell’Unione europea, in collaborazione con Frontex, vogliono rimpatriare almeno 850 cittadini afghani all’anno a partire dall’aprile 2022. Secondo un nuovo bando pubblicato dall’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee, l’Afghanistan rientra infatti tra le “priorità” nella realizzazione di percorsi di reinsediamento e integrazione dei cosiddetti “irregolari” che faranno rientro nel Paese d’origine nel periodo compreso tra il 2022 e il 2026. La presa del potere dei Talebani dell’agosto 2021 sembra così non incidere sulla pianificazione delle istituzioni europee nella gestione del fenomeno migratorio.
L’appalto riguarda le attività congiunte dell’Agenzia con gli Stati membri per fornire assistenza post-arrivo alle persone rimpatriate e prevede un cofinanziamento pari a 14,3 milioni di euro solo per il 2022, con un budget complessivo di oltre 80 milioni di euro da utilizzare entro il 2026. I partner selezionati lavoreranno così per un periodo di quattro anni, con possibilità di proroga di due. L’obiettivo specifico del progetto è quello di garantire “un’assistenza di alta qualità post-arrivo per tre giorni” e un supporto nella “reintegrazione post-rientro a lungo termine per un periodo pari fino a 12 mesi”. Nel bando si legge che la classifica dei Paesi coinvolti è stata sviluppata in collaborazione con gli Stati membri: “Rappresenta i Paesi di rimpatrio classificati in ordine di priorità, sulla base dell’analisi del numero di persone rimpatriate rispetto alla stima dei Paesi d’origine ammissibili e richiesti dagli Stati stessi”.
Il bando è stato pubblicato il 5 novembre 2021 sul sito dell’Agenzia e la definitiva presa del potere dei Talebani in estate non è stata presa in considerazione: l’Afghanistan è al terzo posto, dietro Iraq e Russia. Per ogni Paese è indicata una stima “del numero di persone che avrebbero diritto a ricevere assistenza per la reintegrazione dopo il ritorno, all’anno”. In altri termini, 850 afghani all’anno – così dicono i documenti di gara – dall’aprile 2022 al dicembre 2026 dovrebbero essere supportati nel loro percorso di reinsediamento. Entro metà febbraio 2022 i partecipanti al bando dovranno presentare le proposte specifiche per ogni Paese. Tra i criteri di selezione c’è la disponibilità in capo all’organizzazione di un ufficio nella capitale o nelle principali città dello Stato interessato, una rete di collaborazioni efficace, la possibilità di fare colloqui in presenza e online con le persone supportate, l’accesso a internet. Oltre alla descrizione del processo di reintegrazione si chiede di spiegare “il processo di valutazione della necessità di assistenza specializzata per le persone vulnerabili, compresi, ma non solo, i minori non accompagnati, le donne sole, le vittime della tratta, gli anziani”. Non escludendo così il rimpatrio anche di queste persone.
Non è dato sapere quando sia stata stilata la classifica ma sono rilevanti almeno due profili. Il 10 agosto 2021, pochi giorni prima della presa di Kabul, i ministri degli Esteri di Grecia, Belgio, Danimarca, Austria, Paesi Bassi e Germania hanno inviato una lettera ai commissari dell’Unione europea Mararitis Schinas e Ylva Johansson sottolineando “l’importanza di rimpatriare chi non ha reali esigenze di protezione” nonostante la delicata situazione nel Paese alla luce del ritiro delle truppe internazionali. L’obiettivo era chiaro: non far sì che la ritirata delle truppe internazionali fosse ritenuta automaticamente un motivo per fermare i rimpatri. L’inserimento nel bando dell’Afghanistan è rilevante soprattutto per il medio periodo: sembra difficile che da aprile 2022 si possano organizzare voli charter verso Kabul ma l’esigenza è di non bloccare “automaticamente” le procedure di rimpatrio per i prossimi quattro anni.
Il finanziamento prevede un importo pari a 2mila euro per ogni “pacchetto” a lungo termine post-rimpatrio concesso a colui che sceglie la via del rientro volontario, mille euro per chi viene rimpatriato forzatamente. Per ogni famigliare a carico, a prescindere dalla modalità, vengono aggiunti altri mille euro. Queste somme possono essere utilizzate per il supporto finanziario, l’affitto dell’abitazione e le spese connesse (oltre che l’invio a specifici servizi in caso, ad esempio, di vittime di tratta), l’assistenza sanitaria, l’inserimento scolastico. Oltre questa cifra, sono previsti 615 euro a persona per il supporto per il post-arrivo che coprono le necessità urgenti sanitarie, di sistemazione in alloggi, di trasporto sul territorio. L’analisi degli altri Paesi indicati nel bando sembra dare chiare linee sulla politica di rimpatrio europea: circa 1.400 per l’Iraq, 800 per la Russia, 600 per il Pakistan, 150 Somalia e 250 in El Salvador. Numeri contenuti, invece, quelli riguardanti le persone rimpatriate maggiormente dalle autorità italiane: 75 in Egitto, 50 in Albania e appena 25 in Tunisia. Dal 17 dicembre 2021 sarà possibile conoscere il nome dei partecipanti e, soprattutto, da metà febbraio 2022 l’eventuale strategia per il reinsediamento di cittadine e cittadini afghani nell’inferno di Kabul.
Foto in evidenza di Altreconomia
Su Il Post
Lunedì mattina centinaia di migranti, molti dei quali provenienti dal Medio Oriente, hanno raggiunto a piedi il confine tra Bielorussia e Polonia. Sono stati scortati dalle guardie di confine bielorusse, che li hanno poi incoraggiati a entrare in Polonia.
Sono mesi che la Bielorussia accoglie e poi spinge verso il territorio polacco migliaia di migranti e richiedenti asilo, in quello che viene considerato un tentativo di mettere in difficoltà la Polonia e l’Unione Europea, avversari politici del regime autoritario di Alexander Lukashenko: non era mai successo, però, che un numero così alto di migranti venisse spinto verso la Polonia in una sola volta.
Le immagini del flusso di persone tra il confine bielorusso e quello polacco sono state diffuse soprattutto attraverso i social network, con video che mostrano moltissime persone, tra cui famiglie con bambini, che camminano per strada portando con sé sacchi, zaini e qualche vestito. Le persone si trovavano nella strada che porta dalla cittadina bielorussa Bruzgi a quella polacca Kuźnica, da un lato all’altro del confine tra Bielorussia e Polonia. Nei video si vede bene che sono state scortate e accompagnate verso il confine polacco dalle guardie di confine bielorusse.
Non si sa di preciso quante fossero: Reuters ha parlato di centinaia di persone, il Guardian di circa circa 500. Non si sa di preciso neanche la loro provenienza, anche se si suppone che arrivino soprattutto dal Medio Oriente, come gli altri migranti che nei mesi scorsi sono arrivati in quella zona. Non è facile avere notizie precise anche perché, come spiegato dal sito di attualità polacca Notes from Poland, è molto difficile per i media indipendenti raggiungere quella zona e raccontare quanto sta accadendo a causa dello stato di emergenza in vigore al confine con la Bielorussia, imposto settimane fa dalla Polonia in risposta al flusso di migranti in arrivo ai suoi confini (lo stato di emergenza rende difficile raggiungere l’area anche a giornalisti e membri delle ong).
Secondo alcune testimonianze riportate dal Guardian, i migranti sarebbero stati attirati dalla Bielorussia, che avrebbe concesso il visto e offerto loro voli per raggiungere Minsk, la capitale del paese, promettendogli poi di portarli nell’Unione Europea. Una volta raggiunto il confine, però, i migranti non sono riusciti a entrare in Polonia perché il governo polacco da giorni presidia le frontiere con la Bielorussia: si stima che oggi a presidiarle ci fossero 12mila soldati. I migranti si trovano ancora al confine tra i due paesi.
Negli ultimi mesi la Bielorussia ha di fatto aperto una nuova rotta migratoria verso Polonia, Lituania e Lettonia, concedendo a migliaia di migranti visti per raggiungere Minsk, per poi accompagnarli al confine con questi paesi, sperando di provocare una crisi come ritorsione per l’appoggio offerto dall’Unione Europea all’opposizione a Lukashenko, e per le sanzioni imposte contro il suo regime.
In risposta all’imponente arrivo di flussi di migranti – nel 2021 in Polonia sono stati registrati 23mila ingressi illegali, quasi la metà dei quali solo nel mese di ottobre – Polonia e Lituania hanno annunciato la costruzione di barriere fisiche, e lunedì la Lituania ha detto che seguirà l’esempio della Polonia nell’imporre anche uno stato di emergenza ai propri confini. Sono misure molto controverse e criticate dagli attivisti per i diritti umani, dato che, secondo le norme europee, chiunque mette piede in uno stato europeo ha diritto a chiedere asilo in quel paese.
Nelle ultime settimane la situazione sta scivolando verso una grave crisi umanitaria: con l’arrivo del freddo i migranti si trovano ad attraversare boschi e strade ghiacciate, senza essere attrezzati né avere cibo o assistenza medica. Secondo Infomigrants fra l’estate e l’inizio di novembre sono stati trovati i corpi di almeno dieci migranti morti al confine fra Bielorussia e Polonia.
Immagine in evidenza di Il Post
Di Giovanni Maria del Re su Avvenire
Quattro ore e mezzo. Tanto è durata la discussione, accesissima, dei 27 leader sulle migrazioni, tema dominante ieri al secondo giorno del Consiglio Europeo. A tener banco anzitutto la questione dei «muri» che dovrebbero – secondo un gruppo di Stati – esser finanziati dall’Ue. I più accesi sono i Paesi dell’Est che confinano con la Bielorussia: il dittatore di Minsk Aleksandr Lukashenko attira sempre più migranti per poi spingerli verso l’Ue, come «arma» contro l’Europa che lo sanziona per la repressione dei dissidenti. La Bielorussia viene citata con la promessa di nuove misure restrittive Ue.
Alcuni Paesi, come Polonia e le Repubbliche baltiche hanno già iniziato a costruire muri al confine. Già un mese fa dodici Stati (Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Grecia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia e Slovacchia) hanno scritto a Bruxelles chiedendo finanziamenti Ue per realizzarli. Ieri sono tornati a farlo. «Abbiamo urgente bisogno di barriere fisiche – ha dichiarato il presidente lituano Gitanas Nauseda – di fronte a quello che fa Lukashenko.
Nessuno sa che cosa accadrà domani, potremmo trovarci di fronte a 3-4-5.000 migranti che provano a passare il confine tutti assieme o in punti diversi». «Abbiamo chiaramente bisogno – ha avvertito anche il neo cancelliere austriaco Alexander Schallenberg – di contromisure alla frontiera, con droni, recinti o qualcosa del genere cofinanziati dall’Ue».
Questi Paesi hanno ottenuto l’aggiunta di un paragrafo-chiave nelle conclusioni del vertice – le cui bozze sono state riscritte varie volte – dalla formulazione ambigua – che cercheranno di vendersi come apertura: si chiede alla Commissione di proporre «i necessari cambiamenti legislativi» al sistema giuridico Ue e «misure concrete sorrette da adeguato sostegno finanziario per assicurare una risposta immediata e appropriata in linea con gli obblighi internazionali, incluso i diritti fondamentali».
In realtà, ha precisato la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, «sono stata molto chiara che non ci saranno finanziamenti Ue per fili spinati o muri». Molti altri leader sono contrari, tra cui l’Italia. Su un punto però sono tutti d’accordo: la necessità di «un controllo efficace delle frontiere esterne».
A rischio è la tenuta stessa dell’area senza frontiere di Schengen, messa già a dura prova dalla crisi migratoria del 2015. «Guarderemo alle necessarie misure legali per migliorare la situazione – ha assicurato Von der Leyen – apportando modifiche al codice sullo spazio Schengen che sarà sul tavolo come nuova proposta».
L’altro punto che ha tenuto banco è quello dei movimenti secondari, che preoccupano Stati come Germania, Belgio, Olanda. Soprattutto quest’ultima chiede all’Italia di impedire che i migranti approdati sulle sue coste proseguano poi verso il Nord Europa. Le tensioni sono state forti, alla fine però si è trovato il compromesso. Il testo delle conclusioni afferma sì che «bisogna mantenere gli sforzi per ridurre i movimenti secondari», tuttavia l’Italia ha strappato un’aggiunta importante, e cioè che si tratterà anche di «assicurare un giusto equilibrio tra responsabilità e solidarietà tra Stati membri».
Nel complesso, comunque, l’impressione è che la discussione abbia almeno rafforzato la sensazione dell’urgenza di soluzioni comuni, con l’occhio rivolto al Patto sulla migrazione proposto dalla Commissione Europea e per ora bloccato soprattutto sul fronte proprio della solidarietà e della ridistribuzione dei migranti. «Posso dire – ha dichiarato il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel – che questa volta ho avuto l’impressione che vi fosse una convergenza sempre più ampia».
Di Antonella Sinopoli su Voci Globali
I cittadini dei Paesi del Sud del mondo, quelli aggrovigliati in conflitti che sembrano non aver fine, quelli dove povertà, effetti della crisi climatica, autoritarismi e guerre intestine stanno incidendo sull’aumento costante di sfollati e rifugiati interni. Tutti questi cittadini, che sono milioni e milioni, sono anche le principali vittime del deterioramento di un diritto fondamentale, quello alla mobilità.
Attenzione, non ho detto diritto alla fuga ma diritto alla mobilità. Quello che trova riconoscimento nella nostra Costituzione (e in quella degli altri Paesi Occidentali) ma anche nella Carta dei Diritti dell’Unione Europea e nella stessa Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. Quel diritto universale, dunque, che però consente solo ai cittadini dei Paesi ricchi, per lo più nell’emisfero occidentale del pianeta, di viaggiare, prendere aerei, decidere qualsiasi meta. Qualsiasi meta il suo passaporto gli garantisca.
A mostrare, nuovamente, e in tutta la sua evidenza il gap del diritto al movimento tra i Paesi ricchi e quelli cosiddetti in via di sviluppo – divario che in periodo di pandemia non ha fatto altro che allargarsi – è l’Henley Passport Index. Uno strumento che classifica i passaporti e identifica quelli “più potenti” e quelli che valgono poco o nulla.
Non si tratta semplicemente di cittadini di serie A e cittadini di serie B. Il discrimine, piuttosto, è tra cittadini/individui liberi e cittadini/individui perennemente tenuti in catene. E per i quali, spesso, l’unico modo per liberarsi dal giogo è tentare la sorte, tirando a dadi lungo la strada del deserto, quella del Mediterraneo, quella dei confini armati, murati, spinati. È un giogo istituzionale quello che li tiene oppressi e li vuole fermi lì dove sono.
Complici sono gli Stati, i loro accordi “privati”, interi continenti (Europa, America del Nord, Australia…). Nazioni culle del diritto (così tutti abbiamo imparato) ma che quei diritti li manovra come un bene (e un beneficio) personale, ristretto ad alcuni ma non a tutti. Nella politica dei passaporti, diciamolo chiaro, non vale il meccanismo della reciprocità tra gli Stati (anche se così dovrebbe essere). Ecco perché l’uso della parola “complicità” non è esagerato né usato a caso.
Dal nuovo rapporto emerge che, mentre cresce il “valore” di alcuni passaporti, quello degli Emirati Arabi Uniti, per esempio, e si conferma la “forza” di quello per la nazionalità giapponese, tedesca, della Corea del Sud o di Singapore, dal 2011 si è registrato invece un continuo calo del valore dei passaporti rilasciati in Siria, Yemen, Nigeria, Bangladesh, Gambia, Sierra Leone (questi sono solo quelli il cui posizionamento nell’index continua a scendere). Ma anche se possiedi un passaporto afghano, sudanese, somalo o congolese non te la passi bene.
Cosa vuol dire in termini concreti? Vuol dire che chi possiede un passaporto potente può viaggiare nella maggior parte dei Paesi al mondo senza visto – esempi: Giappone, 192 Paesi; Germania, 190; Italia, 189 – ma per chi ha passaporti che sono quasi carta straccia questo beneficio (visa free) si riduce a 26 Paesi per l’Afghanistan, 29 per la Siria, 33 per lo Yemen, 34 per la Somalia. E così via. E pensare che questo indice non ha tenuto conto delle attuali restrizioni relative al Covid 19 che hanno finito per isolare aree del mondo dove invece ci sarebbe bisogno di occhi aperti per testimoniare violazioni e limitazioni dei diritti (oltre alla violazione di cui stiamo parlando ora).
Ma la ricerca – si legge sulla pagina di Henley & Partners – indica anche che il divario potrebbe ampliarsi ulteriormente poiché le nazioni con i passaporti più solidi hanno posto in essere rigide barriere per i viaggiatori di altre nazioni.
Molti Paesi del Sud del mondo, inoltre – ammettono ancora gli esperti – hanno allentato i loro confini in uno sforzo concertato per rilanciare le loro economie, ma c’è stata pochissima reciprocità (e torniamo su questo termine) da parte dei Paesi del Nord del mondo, che hanno imposto alcune delle più rigorose restrizioni di viaggio in entrata legate al Covid-19.
Il paradosso, che in realtà lascia poco spazio allo stupore, è che nonostante l’evidenza di un mondo spaccato, ineguale, disomogeneo l’attenzione rimane rivolta ai ricchi, ai danarosi, agli imprenditori. A loro, che possono salvarsi dalla crisi e anzi accrescere il loro volume di affari. Sia chiaro, non c’è disvalore nella ricchezza in generale (tranne in quella generata a danno di altri). Ma la ricchezza non può essere il discrimine per il godimento o meno dei diritti. Inoltre, ciò che turba è che ci siano vie d’uscita per alcuni e non per altri e che queste vie d’uscita siano sempre collegate alla disponibilità finanziaria e alla provenienza geografica.
Esistono, infatti, programmi di migrazioni con opzioni complementari di cittadinanza e residenza. Ad imprenditori – che siano cittadini europei – e alle loro famiglie vengono offerte opportunità di ricollocamento assistito in altre nazioni investendo un certo ammontare di capitale – che va da un minimo di 100.000 dollari per alcuni Paesi dei Caraibi, a un massimo di 3 milioni di euro per l’Austria. Un modo per rifarsi una vita con le dovute rassicurazioni – da parte dei mediatori che operano in questo campo – di accedere ad una sanità adeguata e alla possibilità di condurre affari, studiare, investire.
Alcuni di questi programmi non includono solo la ricollocazione, ma anche il libero movimento in aree limitrofe al territorio scelto o che a questo territorio siano legate per ragioni economiche, politiche o di trattati. Insomma, viviamo in un mondo che insiste nell’agevolare la ricchezza e il potere, nell’alzare barriere di ogni tipo, nell’operare divisioni, e nel trascurare gli effetti di queste politiche: disuguaglianza, disturbi mentali, disagio sociale, conflitti. E migrazioni, migrazioni folli, spesso senza meta. Migrazioni forzate, migrazioni dolorose, migrazioni pericolose.
Oggi più che mai bisogna uscire da questa abulia, da questa assuefazione che ci fa accogliere qualunque cosa storta (come quella che ho raccontato qui) come normale, inevitabile. Bisogna farsi forza, prendere coraggio, raccogliere le energie e creare un movimento di opinione che dica “No, non è giusto! Bisogna cambiare!”.
Non è giusto che milioni di persone siano prigioniere nei loro Paesi, che non abbiano diritto a viaggiare, a cambiare la propria vita a cercare altre strade. Proprio così come fanno tutti quegli altri a cui questo diritto è concesso. Tutti quelli a cui questo diritto, il diritto alla mobilità, sembra normale, scontato. Perché per loro, per noi, sì che è normale e scontato.
Di Nello Scavo su Avvenire
La guerra sui tre confini si combatte anche a colpi di ansiolitici somministrati dall’esercito bielorusso ai bambini migranti. Nella terra di nessuno tra Lituania, Polonia e Bielorussia capita che i militari di Vilnius debbano affidare ai rianimatori qualche piccolo profugo. «Hanno dato a noi e ai nostri figli delle pillole», raccontano nell’ospedale di Kabeliai i genitori iracheni. Non erano vitamine per sopportare il freddo. Anche se di freddo si muore: almeno 5 le vittime accertate finora, ma di decine di persone disperse nei boschi non si sa più nulla. Distribuiti dai militari bielorussi in dosi sconsiderate per grandi e piccoli, i tranquillanti assicurano che gli stranieri spinti armi in spalla dai corpi speciali non comincino a piangere nel bel mezzo del bosco, di notte, dove la Lituania sorveglia la frontiera con droni e sensori nascosti tra gli alberi. Quando colti sul fatto, comincia la sceneggiata: le forze bielorusse accendono le videocamere e spingono i migranti verso le pattuglie lituane disposte per impedirne il passaggio. Al resto pensa la propaganda di regime, che mostrerà il volto spietato dei Paesi Ue, senza cuore nemmeno davanti ai bimbi. Anche con queste “munizioni” il dittatore bielorusso Lukashenko sta tentando di far saltare i nervi a Polonia e Lituania come rappresaglia per le sanzioni dell’Unione Europea al regime di Minsk.
Bisogna attraversare più volte i tre confini per farsi un’idea delle rispettive parti in tragedia. Vilnius parla di “aggressione ibrida“. «Abbiamo a che fare con un’azione di massa organizzata e ben diretta da Minsk e Mosca», rincara il primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki. Secondo Varsavia, a partire dal mese di agosto oltre 7mila migranti e profughi hanno tentato di varcare il confine. Oltre 4mila nella sola Lituania. Fatte le debite proporzioni (38 milioni sono gli abitanti in Polonia, meno di 2,8 i lituani) si capisce come questi numeri possano essere usati per suscitare allarme. Nell’Europa che teme l’arrivo di una massiccia ondata di rifugiati afghani, vengono piantati altri pali d’acciaio per chilometri, issando barriere anti-migranti che stanno trasformando i confini esterni in una trappola di aculei. Il “muro polacco” è alto fino a 4 metri, una recinzione simile a quella eretta dall’Ungheria di Orbán nel 2015. Varsavia schiera circa mille uomini in appoggio alle guardie di frontiera lungo i 400 chilometri, in gran parte foresta, che separano i due Paesi. La linea di demarcazione tra Lituania e Bielorussia è una continua serie di tornanti, colline, fossati, campi arati per 678 chilometri. Anche qui è in costruzione una barriera, mentre 258 chilometri vengono monitorati elettronicamente.
Con l’invio di migranti «Lukashenko sta cercando di destabilizzare l’Ue, usando gli esseri umani in un atto di aggressione», va ripetendo la commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson. Venerdì sono arrivati nella capitale lituana 29,6 milioni di euro sui 37 stanziati dalla Commissione europea per aiutare il Paese ad affrontare l’arrivo di profughi. In gran parte si tratta di iracheni e siriani, ma stanno aumentando le domande d’asilo di afghani e perfino indiani e srilankesi. Dal Baltico a Kabul o Karthum sono oltre 5mila chilometri di odissea. Eppure sudanesi e afghani arrivano fino a qui. Le testimonianze raccolte dalle agenzie umanitarie delle Nazioni Unite confermano come negli ultimi mesi siano stati agevolati, qualche volta anche in aereo, i viaggi dall’Oriente verso la Bielorussia. Una volta finiti nel limbo di Minsk, i profughi riappaiono lungo i sentieri che s’infrangono contro le reti metalliche finanziate da Bruxelles. Chi riesce a guadagnare il suolo della Ue dovrà affrontare altri disagi, e il rischio di una deportazione con volo diretto verso il Paese d’origine.
Non tutti vogliono fermarsi dalle parti di Vilnius e c’è chi teme di restare prigioniero del regolamento di Dublino, che non offre scelta: o si presenta domanda d’asilo e si rimane in attesa obbligatoriamente nel Paese Ue di primo ingresso, oppure si è condannati alla clandestinità. I due iracheni Mohamad Wasim Hamid e Hamza Hayek Mahmud erano arrivati in Lituania dalla Bielorussia nella serata del 29 luglio, ma non hanno chiesto protezione internazionale. Avevano in mente di raggiungere la Germania o la Scandinavia. Pochi giorni fa sono stati condannati a 45 giorni di detenzione e verranno avviate le procedure per il rimpatrio. Dovranno attendere in un centro di accoglienza. In realtà, si tratta di accampamenti per la detenzione sorvegliati da militari incappucciati che perlustrano i dintorni con la mano sulla fondina. A Vilnius hanno riaperto un vecchio edificio abbandonato sulla collina dietro la linea ferroviaria. Il muro di cinta impedisce di vedere all’interno, ma chi riesce a visitarlo non ne è uscito contento. Lo stesso nelle tendopoli militari dove i profughi già fanno i conti con l’anticipo del sottozero invernale.
L’ufficio statale del Difensore civico lituano non l’ha presa bene. Giovedì ha pubblicato un rapporto sulle condizioni di vita «disumane e degradanti» affrontate dai migranti irregolari. Le persone dormono in stanze umide, fredde e affollate. Mancano di cibo adeguato, acqua calda a sufficienza e farmaci. Il ministero dell’Interno ha rilasciato un commento, spiegando di non aver ancora letto il rapporto, ma «alcuni estratti pubblicati dai media portano alla conclusione che le informazioni contenute siano obsolete». Per il Difensore civico, «le condizioni di detenzione dei migranti irregolari in Lituania» sono un «trattamento disumano proibito dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti».
Il 22 settembre quattro profughi sono morti di freddo e stenti sul confine tra Bielorussia e Polonia. Una quinta persona è deceduta poco più a Nord, dopo essere riuscita a raggiungere la Lituania. Ma per la fondazione umanitaria polacca Ocalenje le vittime potrebbero essere di più. Nella foresta di Usnarz Górny da quasi due mesi una trentina di persone vivono nascoste. Ma da diversi giorni si è perso ogni contatto con le persone incastrate tra la boscaglia sul lato di Minsk e il reticolato polacco. Altri 8 migranti oramai incapaci di muovere un solo passo sono stati soccorsi dopo essere sbucati in una zona paludosa e 7 sono stati portati in un ospedale polacco oramai in gravi condizioni. «Da tempo avevamo avvertito le autorità – ricorda Piotr Bystrianin, di Ocalenje – che se le guardie di frontiera non avessero smesso di respingere le persone senza neanche ascoltare la loro richiesta di protezione umanitaria, presto avremmo dovuto affrontare delle tragedie». E l’inverno non è ancora iniziato.
Immagine in evidenza di Avvenire
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