Su Nigrizia
Un report, il secondo, per mettere in evidenza la situazione dei minori stranieri non accompagni (msna) in Italia e la concretezza di una legge del 2017 creata ad hoc, la legge Zampa. Il Cespi, Centro studi di politica internazionale, con il suo Osservatorio nazionale sui minori stranieri non accompagnati, fa il punto su cosa sia successo, dall’inizio della pandemia, a questi 11.159 ragazzi e ragazze che si trovavano, a novembre del 2021, secondo i dati del ministero del lavoro e delle politiche sociali, sul nostro territorio nazionale.
Lo fa partendo da numeri che fotografano la presenza di oltre 11mila minori, per lo più maschi (97,3%), 17enni (62,9%) provenienti dal Bangladesh (25%), Tunisia (14%), Egitto (14%) e Albania (11%). La piccola percentuale femminile (2,7%) vede le ragazze arrivare per lo più dalla Costa d’Avorio (19,8%) e dall’Eritrea (9,6%). La maggior parte di questa popolazione straniera adolescente è accolta in Sicilia (29,7%), che è seguita da Friuli-Venezia Giulia (9%) e Puglia (8,2%).
Presentata l’entità del fenomeno msna, l’Osservatorio si sofferma sull’analisi di quel che la legge Zampa prevede nero su bianco e quel che invece è la realtà. Sottolineando l’alta ed entusiasta adesione all’indomani della promulgazione della norma, che prevede la figura del tutore volontario per i minori non accompagnati. Alla celere risposta di centinaia di persone, provenienti da ambiti del sociale, associazionismo, educazione, che hanno aderito alla richiesta di questa figura di supporto, non è corrisposta altrettanta rapidità dei tempi burocratici che avrebbero dovuto permettere effettivamente a queste persone di dare inizio al loro percorso di sostegno.
Le selezioni, le nomine, la formazione, l’accompagnamento al percorso di coloro che si erano offerti per il ruolo di tutore non hanno avuto una tempistica/modalità adatta al funzionamento della macchina tutoriale. Davanti a delle disponibilità della società civile non c’è stata una risposta organizzativa di quella governo-amministrativa.
In tutto questo non ha poi giovato l’arrivo della pandemia e le restrizioni per il covid-19. L’Osservatorio Cespi analizza nel dettaglio quali siano stati i contraccolpi su questa tutela volontaria e sulle necessarie relazioni che devono intercorrere tra la persona del tutore e quella del minore straniero. Gli oltre 10mila ragazzi e ragazze si sono infatti trovati chiusi nelle strutture e la maggior parte dei rapporti che avevano è praticamente scomparsa. Così come i corsi dedicati, le uscite occasionali e i momenti di socializzazione al di fuori dei contesti di accoglienza.
Senza contare come la prassi consolidata della quarantena obbligatoria da trascorrere sulle navi, nonostante l’esito del tampone negativo, abbia interessato anche questa fascia d’età per buona parte della fase pandemica. Tra coloro che arrivavano via mare nel 2020/2021 e venivano messi in isolamento forzato vi erano anche i msna fino a ottobre 2021. Questo è avvenuto nonostante, come riporta Osservatorio, da più parti le associazioni e organizzazioni impegnate nella tutela dei minori avessero sottolineato che tale procedura andava contro quanto stabilito dalla legge Zampa su accoglienza e accompagnamento dei minori.
Sono state necessarie ben tre morti di msna sulle navi quarantena perché i tribunali di Palermo e Catania aprissero delle inchieste su tale prassi e arrivassero a interrompere una pratica diventata abitudinaria nonostante fosse palesemente lesiva dei diritti dei minori.
Il monitoraggio della legge Zampa da parte del Cespi sottolinea la distanza tra ciò che la legge prevede e l’effettiva messa in pratica della norma in tema di accoglienza e accompagnamento delle situazioni che questi minori presentano. L’impianto di verifica dell’Osservatorio coadiuvato dall’aiuto di Defence for children international Italia prende in esame per il proprio focus quattro regioni, Sicilia, Puglia, Liguria e Marche; mettendo alla luce una criticità non da poco nel sistema accoglienza e migrazione: l’alto numero di fughe tra i minori stranieri che arrivano in Italia.
E, soprattutto, il problema concreto e diffuso dell’apolidia di chi sbarca sul territorio nazionale. La mancanza di riconoscimento di una nazionalità comporta infatti tutta una serie di problematiche nella gestione dei diritti. Problematiche cui si affianca la mancata conoscenza del fenomeno degli apolidi da parte degli operatori che hanno a che fare con questi minori e che sono figure di riferimento importanti non solo per rendere coscienti i minori stessi ma per dare inizio il prima possibile alle procedure di riconoscimento prima della maggiore età. Accanto a questa seria difficoltà, il Cespi sottolinea come sia necessario creare dei meccanismi stretti di scambio tra le istituzioni coinvolte in questo riconoscimento.
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Su Centro Astalli
Sette migranti di nazionalità bengalese, sono morti mentre tentavano di raggiungere Lampedusa su un’imbarcazione che trasportava circa 280 persone, partita dalla Libia tre giorni fa. Tre cadaveri sono stati trovati a bordo, mentre altri quattro sono deceduti sulla terraferma. Tutti vittime dell’ipotermia.
P. Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli, esprime cordoglio per le vittime: “in questo giorno di lutto rivolgiamo un appello alle istituzioni nazionali e sovranazionali: non condanniamo all’invisibilità uomini e donne in cerca di una vita dignitosa.
Ritorniamo a una politica che applichi le convenzioni internazionali, che abbia una visione di governo ispirata al rispetto dei diritti umani e che non lasci morire nell’indifferenza alcun essere umano. In un momento cruciale per il Paese, per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, queste morti richiamano ai principi fondanti la nostra Costituzione che fa dell’Italia uno Stato che accoglie lo straniero nel cui Paese non siano riconosciute le medesime libertà democratiche garantite qui (articolo 10 comma 3).
Si agisca per salvare vite creando vie di ingresso legali per i migranti che alle porte d’Europa chiedono di entrare in cerca di protezione, accoglienza e integrazione”.
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Su Avvenire
La Polonia ha iniziato i lavori per erigere il muro anti-profughi al confine con la Bielorussia. Un’opera che l’opposizione attacca, definendola senza mezzi termini «il muro della vergogna».
Ad annunciare l’avvio del cantiere è stata la Guardia di frontiera: si tratta della barriera che il governo di Varsavia vuole alzare per proteggere il Paese dall’ondata di profughi usati come un’arma dal dittatore Aleksander Lukashenko. Un flusso di uomini, donne e bambini che, a piedi, sognano di raggiungere l’Europa, attraversando boschi, paludi e il fiume che separa i due Stati, sfidando in questi mesi anche il gelo.
L’esecutivo di Morawiecki ha stanziato investimenti senza precedenti per blindare 186 chilometri di frontiera a un costo enorme: 1,6 miliardi di zloty, pari a oltre 350 milioni di euro. Ma il governo è finito nel mirino delle opposizioni che lo accusano di rendere la Polonia un simbolo della mancanza di solidarietà con i migranti in arrivo dalle zone più disastrate del mondo.
La frontiera fra Polonia e Bielorussia è lunga 418 chilometri, 171 dei quali costeggiati dal fiume Bug, mentre 67 chilometri passano attraverso paludi. Il muro sarà costruito solo sulla terra ferma, ha spiegato Anna Michalska, la portavoce della Guardia di frontiera, aggiungendo che l’impatto di quest’iniziativa sull’ambiente dovrebbe essere minimo.
Non sono d’accordo però scienziati e ambientalisti legati alla Foresta di Bielowieza, che si trova esattamente sul confine e che dovrebbe ora essere divisa dal muro. È una riserva unica, popolata da bisonti e altri animali: 152 mila chilometri quadrati, 62 mila dei quali appartengono alla Polonia. Fra i vari timori, anche quello che un intervento del genere possa far cancellare la Foresta dall’elenco dei patrimoni dell’Unesco.
La costruzione del muro, stando all’opposizione, non si giustifica peraltro di fronte a numeri vanno via via diminuendo: oggi sono stati 17 i profughi che hanno cercato di attraversare il confine, ieri 20, due giorni fa 6.
Per l’europarlamentare Pietro Bartolo, che alcune settimane fa ha visitato le zone al confine polacco-bielorusso, Varsavia «volta le spalle ai valori fondanti dell’Europa». «Spero in una nuova Norimberga per tutti coloro che hanno permesso la morte dei profughi», ha detto alla Gazeta Wyborcza, ricordando le decine di persone decedute per il freddo, la fame o lo sfinimento di fronte ai respingimenti alla frontiera.
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Di Laura Zanfrini su Avvenire
Nell’edizione di ieri della Gazzetta ufficiale è stato pubblicato il Decreto Flussi 2021, firmato sul filo di lana a fine anno dal presidente del Consiglio Draghi, che fissa in 69.700 gli ingressi di lavoratori stranieri: un numero inferiore alla bozza circolata, ma più che raddoppiato rispetto alle quote degli ultimi anni e con una timida apertura verso il lavoro non stagionale con riferimento ai settori (trasporto, edilizia, turistico-alberghiero) che denunciano difficoltà nel reclutamento di personale. Peraltro, le 27.700 quote non stagionali andranno ripartite tra gli oltre 30 Paesi sottoscrittori di accordi elencati nel decreto e saranno in parte assorbite dalle conversioni di permessi già rilasciati per altri motivi. Questo – insieme alla “promessa” di possibili ulteriori decreti nei prossimi mesi – è probabilmente il massimo che si poteva fare con un governo composito come l’attuale e in un quadro ancora molto compromesso dalla pandemia.
Ancora una volta, il provvedimento ha visto la luce secondo la logica della “programmazione transitoria” e in assenza del documento programmatico cui il testo unico sull’immigrazione affidava, tra le altre finalità, quella di individuare i criteri generali per la definizione dei flussi in ingresso. L’ultimo documento di cui si ha notizia è relativo al triennio 2007-2009, rimasto eternamente “in fase di elaborazione”. Da allora, nessuno dei governi che si sono succeduti ha voluto cimentarsi nel compito, politicamente audace, del governo delle migrazioni economiche, e tutti hanno finito col ridurre la questione al contrasto dell’immigrazione irregolare.
I limiti delle procedure in vigore (a partire dalla loro rigidità, distante da un mercato del lavoro sempre più flessibile); quelli che derivano dalle scelte – o non scelte – nella loro applicazione; quelli, infine, relativi al contesto in cui gli schemi migratori si trovano a operare (dalla diffusione del lavoro irregolare ai deficit nella intermediazione istituzionale tra domanda e offerta di lavoro) hanno concorso al fallimento del sistema di programmazione dei flussi, facendo dell’Italia un caso “esemplare” del disallineamento tra il piano delle politiche e quello dei concreti processi migratori e di inclusione.
Mentre le più importanti agenzie internazionali non cessano di ricordare come le migrazioni, se adeguatamente gestite, possano rappresentare un vantaggio per tutti gli attori coinvolti, tale disallineamento risalta come dato comune perfino ai Paesi tradizionalmente considerati dei punti di riferimento in materia. In particolare, milioni di posti di lavoro essenziali sono occupati, in Canada come negli Stati Uniti e nella stessa Europa, da immigrati undocumented titolari di permessi temporanei, studenti e tirocinanti stranieri, richiedenti asilo diniegati. La necessità di politiche innovative, sostenibili nel lungo periodo, capaci di rispondere anche al consistente fabbisogno di lavoro a bassa qualificazione garantendo i diritti dei lavoratori è dunque auto-evidente. Tanto più in Italia, dove i modelli di inclusione prevalenti sono decisamente inadeguati ad agganciare una ripresa la cui cifra dovrà essere la qualità in senso lato del lavoro.
Governare le migrazioni economiche implica gestire una serie di bilanciamenti: si tratta di far convivere la dimensione economica della programmazione con la dimensione politica (in particolare, l’esigenza di offrire canali legali che scoraggino i flussi irregolari); la richiesta di rispondere a fabbisogni contingenti e spesso appiattiti sui lavori a bassa qualificazione con quella di promuovere modelli d’integrazione sostenibili nel lungo periodo; la necessità di dotarsi di regimi migratori coerenti col ruolo dell’Italia nello scenario internazionale (in particolare euro-africano) con quella di incoraggiare la partecipazione al mercato del lavoro delle ampie componenti della popolazione residente (inclusa quella immigrata) che ne sono escluse; e, ancora, la dimensione tecnico-procedurale della programmazione – che richiede schemi migratori flessibili, che rispondano rapidamente alle richieste di persone e mercato – con il carattere politico, nel senso nobile del termine, del governo dell’immigrazione, che come tale incorpora una visione sul futuro.L’auspicato ridisegno delle politiche migratorie non può allora essere disgiunto dal compito di ripensare i regimi di accumulazione, le reti di produzione e distribuzione del valore e i modelli di riproduzione sociale cogliendone, proprio attraverso la “lente” dell’immigrazione, tutte le criticità. Basterebbe citare l’esempio del lavoro per le famiglie – da sempre il comparto più etnicizzato del mercato del lavoro italiano – per comprendere come la gestione delle migrazioni va integrata con l’insieme di interventi, a vari livelli, necessari per affrontare quella che l’Ilo (l’Organizzazione internazionale del lavoro) ha definito la «crisi globale della cura». Il governo e la governance delle migrazioni devono dunque diventare parte integrante di quel grande cantiere di innovazione economica e sociale che si sta aprendo nella scia del Pnrr, secondo le indicazioni contenute nella stessa Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
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Di Luca Rondi su Altreconomia
È mattino presto all’esterno del rifugio Massi di Oulx, cittadina in alta Val Susa a meno di venti chilometri dal confine italo-francese. Abdullahi, originario della Somalia, mostra i documenti agli operatori legali presenti in struttura. Sono i primi di gennaio 2022. Nella notte ha tentato di attraversare la frontiera passando il tunnel del Frejus con un Flixbus per arrivare in Germania, dove lo aspettano moglie e tre figli. Ha un titolo di viaggio valido e l’asilo politico ottenuto in Grecia ma quel documento è scaduto. Anche se fosse valido il suo passaggio non sarebbe scontato: l’Europa “tradisce” se stessa con Abdullahi che torna alla stazione dei treni e riparte per tentare l’attraversamento su un altro confine. “Se l’asilo è un diritto riconosciuto da tutti gli Stati membri, non vedo perché una persona alla quale viene riconosciuto tale diritto di restare sul territorio per essere protetto non possa muoversi liberamente all’interno dello spazio Schengen. Proprio la libera circolazione è il principio fondante dell’Ue ma su questo confine viene sistematicamente negata”, spiega Giovanni Papotti, avvocato e socio dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (asgi.it).
La “temporanea” sospensione della libera circolazione al confine italo-francese è diventata normalità. Da quando nel 2015 l’esecutivo di Parigi ha proclamato lo stato d’emergenza in seguito agli attacchi terroristici la presenza di controlli al confine ha continuato ad aumentare di anno in anno. “I Paesi membri dell’Ue possono reintrodurre i controlli alle frontiere per un massimo di due anni ma il governo francese sembra dimenticarsene. Aumentano i militari ma il flusso non si blocca e l’unico risultato è rendere più rischioso l’attraversamento delle persone in transito” spiega Emilie Pesselier dell’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (anafè.org). Il confine dell’alta Val Susa è frastagliato. Si espande sia in ampiezza sia in altezza: si va dal colle della Scala, 1.300 metri di altitudine sopra Bardonecchia, al monte Chaberton, 3.300 metri. Tante opzioni tra cui le persone possono scegliere.
In questo quadro la presenza della polizia francese si concentra soprattutto nei diversi punti in cui confluiscono i numerosi sentieri che collegano il territorio francese a quello italiano. È la mattina del 5 gennaio quando su una pista da sci a pochi chilometri dal confine, due poliziotti schivano gli sciatori e puntano a Nord, poi improvvisamente cambiano direzione dirigendosi verso il fondo valle. Una “caccia all’uomo” orchestrata dai “piantoni” che dal pilone della seggiovia prima contano il numero di persone (straniere) che scendono alla fermata dell’autobus, nel centro di Claviere, poi seguono il loro tentativo di attraversare il confine. “Sapendo di essere controllate dall’alto spesso le persone si fermano a Claviere cercando nascondigli di fortuna e aspettando il buio per poi partire a un certo punto della notte con temperature insostenibili” spiega Michele Belmondo del Comitato della Croce Rossa italiana di Susa. Anche per questo, la Croce Rossa ha istituito pattugliamenti per cercare di presidiare i valichi di frontiera. “È capitato che qualcuno, infreddolito e al buio, cambiasse idea”.
Negli ultimi mesi, gradualmente, anche raggiungere Claviere con l’autobus non è scontato. Per servire i passeggeri del TGV che viaggiano da Parigi a Milano erano previsti degli autobus che da Bardonecchia e Oulx portavano le persone a Briançon facendo tappa anche nelle città di confine italiane. Oggi sono stati soppressi: le persone vengono fatte scendere a Modane e un autobus attraversa due volte il confine prima a Bardonecchia e poi a Claviere per garantire il servizio. Chilometri, tempo e spese in più per i cittadini francesi ma soste sul territorio italiane scongiurate. Anche l’azienda italiana Sadem ha diminuito le corse che da Oulx si dirigono verso il confine. “Le persone arrivano a Claviere con circa dodici chilometri in più sulle gambe, più stanchi e malconci, di certo non si fermano perché manca l’autobus” commenta Belmondo.
Se tra il 2017 e il 2018 la maggioranza delle persone che arrivavano in Val Susa erano originarie dei Paesi dell’Africa sub-sahariana, oggi chi arriva a Oulx ha percorso la rotta balcanica o è arrivato attraverso la nuova rotta via mare che collega la Turchia direttamente alla Calabria: gli afghani sono in questo momento la nazionalità prevalente. Il nuovo rifugio, aperto a fine dicembre 2021, ai primi di gennaio conta poche presenze sugli 80 posti disponibili. “Per il freddo bosniaco che ha temporaneamente bloccato le partenze” dicono i volontari.
Seduti ai tavoli due ragazzi afghani, di 15 e 17 anni, chiedono informazioni. Durante la mattina hanno provato ad attraversare la frontiera: vedendo la polizia hanno deviato sui sentieri ma con le scarpe da ginnastica di tela hanno desistito. Non sanno che per loro il passaggio sarebbe concesso, almeno sulla carta, per la loro età. Le regole della frontiera sono spesso poco conosciute anche se, chi percorre la rotta balcanica prima di arrivare in Val Susa conosce meglio il freddo, le montagne. Per chi è arrivato via mare, l’idea di questa frontiera si materializza invece a un passo dal confine. Samba, di origine ivoriana, al mattino ha tentato di attraversarla trascinando una valigia e percorrendo la strada asfaltata come un normale turista. È stato respinto senza grandi sforzi della polizia.
Da quando nell’estate 2021 è operativo l’ufficio di polizia di frontiera a Bardonecchia, le persone vengono “consegnate” dalle autorità francesi a quelle italiane alla stazione di polizia al confine tra Briançon e Claviere o in quella di Modane a seconda della zona di attraversamento. Tutto ruota attorno al regolamento di Dublino, il sistema che costringe le persone a richiedere protezione nel Paese di primo arrivo. “Non sembra essere concepito manifestare la domanda di asilo in frontiera ed entrare, in questo modo, in una eventuale procedura Dublino prima di essere ritrasferiti in Italia – spiega Martina Cociglio, operatrice legale di Diaconia Valdese (diaconiavaldese.org) che a Oulx offre un servizio di supporto a chi è in transito -. Il respingimento avviene invece in poche ore e, per il fatto che non vi è un provvedimento, risulta impossibile da impugnare”. Se le riammissioni avvengono in tarda serata le persone vengono trattenute negli uffici di polizia francesi. “Sono container con pochi letti e spazi spesso sovraffollati, soprattutto oggi considerando la pandemia. Non sempre sono presenti mediatori o interpreti che informino le persone sui loro diritti, né vi è spazio per una valutazione delle vulnerabilità”. Solamente i minori – per cui non valgono le regole di Dublino – se hanno possibilità di “confermare” la propria età riescono ad attraversare. “Soprattutto da quando è presente la polizia di frontiera italiana. In termini di rispetto dei diritti delle persone in transito è l’unica cosa che è cambiata da quando ci sono gli agenti italiani – spiega Pesselier di Anafè -. Per il resto la violazione dei diritti nelle procedure è sistematica”.
I numeri che si registrano a Oulx sono un termometro della permeabilità della frontiera. “Generalmente sono 30 transiti, in media al giorno ma a volte aumentano – spiega Belmondo di Croce Rossa -. A ottobre abbiamo accolto quasi 2mila persone, a novembre quasi 2.200 con picchi serali di 120 presenze. Da un lato l’aumento degli arrivi, dall’altra la frontiera era meno permeabile e il flusso era bloccato per diversi motivi: le persone bloccate a Briançon perché senza il green pass non potevano ripartire dalla cittadina con i mezzi pubblici, forse la situazione di Calais che ha fatto stringere le maglie al governo francese. Poi il flusso è tornato normale: questo dimostra che i controlli non fermano le persone. Semplicemente queste tentano più volte e magari su strade più pericolose”.
Il 3 gennaio la polizia francese ha diffuso la foto di un uomo di 31 anni, di origine marocchina, ritrovato morto a Freney, a Sud di Modane, che molto probabilmente ha attraversato il confine italo-francese tra il 29 dicembre e il primo gennaio 2022. “Un sentiero meno battuto ma non per questo meno ‘frontiera’. Non è però la montagna che ammazza ma i controlli di polizia -spiega Piero Gorza coordinatore dei volontari di Medici per i diritti umani (medu.org) in Piemonte -. Chi può tenta in tutti i modi. Giovani che hanno bucato una decina di frontiere e pensano di farcela anche questa volta. La disumanità di questa farsa per cui bisogna militarizzare tutto, le persone passano lo stesso ma poi qualcuno muore. E così da farsa diventa una tragedia”. Dal 2018 sono sei le persone morte su questo confine. “Ma è una stima. Spesso i soccorsi sono difficili: non si conosce la persona esatta e poi sono persone che non vengono reclamate da nessuno. Nel mese di aprile tre ricerche si sono concluse nel nulla”, sottolinea Michele.
La rete solidale è quella che salva. Perché fornisce giacche, scarponi, berretti, guanti e di fatto fa attività di prevenzione. “La particolarità di questa frontiera è forse la presenza di una rete ramificata di sostegno. Si tenta di dare una risposta dignitosa a chi transita” spiega Gorza. Una rete che è trasversale: il movimento anarchico che, occupando la casa cantoniera Chez JesOulx hanno accolto per anni chi era in transito, i volontari che quotidianamente si recano al rifugio Massi per sostenere le attività, le suore di Susa, che offrono posti letto e sostegno per i casi più vulnerabili, le Ong attive sul confine. Oggi questa accoglienza è più istituzionalizzata rispetto al passato, dopo la chiusura della casa cantoniera. “Una casa che ha salvato molte vite, ne sono convinto e che ci interroga molto – continua Gorza -. Così come a Velika Kladuša, in Bosnia ed Erzegovina, le persone forse preferiscono i posti informali. In molti ci stiamo interrogando sul perché. Si cercano così soluzioni che garantiscano un’accoglienza sempre più adeguata alle persone in transito: laddove vengono riconosciute come soggetti e meno come ‘migranti’, meno ‘cose’ oggetto della benevolenza altrui si sentono più accolte. La frontiera funziona da angolo prospettico per capire molte cose del nostro mondo”.
Un essere soggetti che interroga anche il diritto. “Gli attuali meccanismi legislativi e burocratici da Dublino all’impossibilità di circolare liberamente non rispettano i tempi della migrazione, gli affetti, la possibilità di scegliere il posto in cui vivere non solo in base a motivi economici – conclude Papotti -. È lo stesso passato coloniale degli Stati membri che influisce sul desiderio di una persona di andare in Francia, magari perché banalmente sa già la lingua. Tutto questo manca, in normative che continuano a guardare alla migrazione con la lente sbagliata. Questa frontiera lo dimostra”.
Foto in evidenza di Luca Rondi/Altreconomia
Di Domenico Affinito e Milena Gabanelli su Corriere della Sera
Quasi la metà degli Stati dell’Unione Europea vuole che Bruxelles paghi la costruzione di barriere fisiche per frenare la migrazione irregolare. Lo hanno chiesto il 7 ottobre 2021 con una lettera di 4 pagine alla Commissione europea i ministri degli interni di Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Grecia, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Slovacchia. I ministri sostengono che una recinzione è «un’efficace misura di confine che serve l’interesse di tutta l’Unione, non solo degli Stati membri del primo arrivo» e che andrebbe «adeguatamente finanziata dal bilancio dell’Ue in via prioritaria». Il ministro degli interni austriaco, Karl Nehammer, ha anche dichiarato che il sistema di quote dell’UE per la distribuzione dei richiedenti asilo sarebbe «inutile» fino a quando le frontiere esterne non saranno «rigorosamente» protette. Sono passati 22 anni dall’accordo di Schengen e l’inversione di tendenza è iniziata con la crisi in Siria del 2012. Nel ventesimo secolo l’Europa conosceva solo tre muri: a Berlino, Cipro e in Irlanda del Nord. Nel ventesimo secolo l’Europa conosceva solo tre muri, tutti di difesa territoriale, a Berlino, Cipro e in Irlanda del Nord. Oggi ne conta 16 per oltre mille km, tutti in chiave anti-migranti.
La costruzione di muri e recinzioni anti-migranti è iniziata negli anni ‘90, con il caso della Spagna a Ceuta (1993) e Melilla (1996), per bloccare gli arrivi dal Marocco, ma è dal 2012 con la crisi siriana che il fenomeno è esploso in Europa. Comincia la Grecia con una barriera di fossati e doppio filo spinato di 150 km e alta 4 metri lungo le rive del fiume Evros, al confine con la Turchia, per arginare la fuga dei siriani diretti in Europa. Poi è stata la volta della Bulgaria, sempre al confine con la Turchia per bloccare i profughi siriani: il muro è stato definitivamente concluso nel 2017 per una lunghezza complessiva di circa 200 km, con filo spinato, torrette presidiate da soldati e guardia di frontiera con camere a infrarossi e sensibili al calore. La rotta balcanica, percorsa dai profughi in fuga dai conflitti in Medio Oriente e Afghanistan, è stata via via chiusa dal 2015. L’Ungheria ha prima bloccato quasi tutto il confine con la Croazia (300 km di barriera su 329) e nei due anni successivi ne ha alzato un’altra lunga tutti i 151 km di confine con la Serbia. La Macedonia ha blindato 33 km al confine con la Grecia, l’Austria ha disposto 3,7 km di filo spinato lungo il confine con la Slovenia che, a sua volta, ha chiuso 200 dei 670 km che li divide dalla Croazia. A quel punto la rotta da oriente verso l’Europa si è spostata più a nord, e così nel 2016 la Norvegia ha eretto una barriera di 200 km e alta 4 metri lungo il confine con la Russia; lo stesso hanno fatto nel 2017 la Lituania e la Lettonia. Lituania, Lettonia e Polonia hanno anche annunciato nuove barriere di 508, 134 e 130 km lungo il confine con la Bielorussia.
Scelte che non hanno funzionato, come dimostrano i dati di Iom. Gli arrivi via terra sono stati 26.395 nel 2016, 15.662 nel 2017, 31.257 nel 2018, 24.636 nel 2019, 13.666 nel 2020 e 33.296 nel 2021: per una media di 24.152 all’anno. Quelli via mare, invece, sono stati 363.581 nel 2016, 171.837 nel 2017, 115.399 nel 2018, 103.836 nel 2019, 85.809 nel 2020 e 111.144 nel 2021: per una media di 158.601 all’anno. Costruire muri ha però alimentato la strumentalizzazione politica, cavalcata dai partiti xenofobi che sono cresciuti in popolarità ed esercitano pressioni che limitano le soluzioni. Oggi tra i 28 membri dell’UE ci sono 39 partiti politici che promuovono una violenta retorica anti-migranti, e in dieci Stati membri (Austria, Danimarca, Germania, Francia, Finlandia, Svezia, Italia, Ungheria, Polonia e Paesi Bassi) hanno una forte presenza in Parlamento.
Però poi i migranti servono. Se n’è accorto il Regno Unito dopo la Brexit, rimasto senza camionisti che distribuissero le merci ed è stato costretto a mettere in campo l’esercito. Se ne accorge l’Italia: le nostre imprese hanno bisogno di braccia che sostengano la crescita ed hanno chiesto a Draghi di rivedere la politica migratoria. A dicembre il Governo ha deliberato il nuovo Decreto Flussi che disciplina l’ingresso dei lavoratori stranieri. Per il 2022 il numero è fissato a 69.700 per sostenere i settori agricolo, turistico-alberghiero, autotrasporto merci ed edilizia. Una svolta rispetto agli ultimi sei anni, quando il numero complessivo era sempre rimasto costante a quota 30.850.
Il 2020 sarà anche ricordato come l’anno delle grandi divisioni. Oggi esistono 70 muri nel mondo: 40 mila chilometri di recinzioni, quanto basta per coprire l’intera circonferenza della Terra secondo i calcoli di Elizabeth Vallet dell’Università di Montreal. Undici furono costruiti tra il 1947 e il 1991, durante la guerra fredda, sette tra il 1991 e il 2001, ventidue tra il 2001 e il 2009. E ben 30 negli ultimi 10 anni. Senza considerare altri 7 già finanziati e in via di completamento. L’Asia è quella che ne ospita di più, 36, ma è anche il continente più esteso al mondo. Fra i più importanti ci sono quelli tra Macao, Hong Kong e la Cina, la barriera tra Israele e Cisgiordania, quella tra Corea del Nord e Corea del Sud e i muri tra India e Pakistan, tra Iran e i Paesi confinanti. Nessuno ha mai realmente funzionato, se non là dove sparano dalle torrette di controllo (Corea del Nord). Chi vuole fuggire trova sempre un modo, a costo della propria vita, basta leggere i numeri degli annegati sulla rotta mediterranea. Anche qui parlano chiaro i dati (fonte Unhcr): nel 2010 i richiedenti asilo e rifugiati nel mondo erano 16 milioni, saliti a 24,2 nel 2015 e diventati 34,4 nel 2020. Lo stesso trend è stato seguito dal numero e dalla percentuale dei migranti totali.
La scelta dell’Unione Europea in questi anni è stata quella di cercare di frenare i flussi migratori prima dell’ingresso, pagando, e gestire i rimpatri. In questa chiave vanno tutti gli accordi firmati con i Paesi satelliti, come quello del 2016 con la Turchia alla quale sono stati già destinati 6 miliardi di euro per evitare le partenze irregolari verso tutti gli Stati membri. Altri 3,5 miliardi arriveranno ad Erdogan nei prossimi quattro anni, mentre 2,2 miliardi andranno in Siria, Libano, Giordania e Iraq. Anche la sorveglianza è aumentata, con i sistemi informatici utilizzati per controllare la migrazione, come il sistema d’informazione visti, il sistema d’informazione Schengen e il sistema di archiviazione dei dati Eurodac. Per pagare tutti questi controlli e sorveglianza, il bilancio di Frontex è passato da 6,2 milioni nel 2005 a 543 milioni nel 2021.
Scelte che hanno consegnato un’arma di ricatto in mano ai leader politici più spregiudicati: lo fa il Marocco con la Spagna, lo sta facendo la Turchia di Erdogan, e da ultimo la Bielorussia di Lukashenko, che sta agevolando l’ingresso di profughi iracheni per poi spingerli sul confine europeo allo scopo di ottenere le cancellazioni delle sanzioni. Non si è percorsa, invece, la strada di aprire e gestire i flussi in maniera regolare, ma nemmeno quella di applicare uno schema di ridistribuzione dei migranti tra i diversi Paesi membri. La Commissione non ci è riuscita, come non è riuscita a fa passare l’idea di un contributo economico per i rimpatri da parte dei Paesi che rifiutano la redistribuzione verso quelli, come l’Italia, che si trova ad essere il primo Paese d’ingresso dalla rotta africana. In sostanza se ogni Paese pensa a sé, per quale ragione gli africani, iracheni, afgani, siriani, pakistani non dovrebbero pensare a loro stessi, e fermarsi di fronte ad un filo spinato?
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di Adil Mauro su Valigia Blu
“Nella tua città c’è un lager”. È la denuncia degli attivisti che si battono da anni per la chiusura dei CPR (Centri di Permanenza per i Rimpatri), veri e propri buchi neri nei quali finiscono, e a volte perdono anche la vita, i cittadini stranieri sprovvisti di regolare titolo di soggiorno.
Con una capienza complessiva di 1.100 posti sono dieci i centri attualmente operativi a Milano, Torino, Gradisca d’Isonzo, Roma-Ponte Galeria, Palazzo San Gervasio, Macomer, Brindisi-Restinco, Bari-Palese, Trapani-Milo e Caltanissetta-Pian del Lago.
Si tratta di strutture che in oltre vent’anni hanno prodotto una lunga scia di disperazione, violenze e morti. Istituiti nel 1998 dal governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi con la legge sull’immigrazione Turco-Napolitano, i centri furono inizialmente chiamati CPTA (Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza), poi CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) e infine rinominati CPR con la legge Minniti-Orlando del 2017.
All’inizio le persone potevano essere trattenute per un periodo massimo di 30 giorni, diventati 60 con le modifiche apportate dalla legge Bossi-Fini del 2002. Nell’estate del 2011 il quarto e ultimo governo Berlusconi inasprì ulteriormente le misure restrittive, portando il tempo limite di trattenimento nei CIE a 18 mesi. Dopo una riduzione a 3 mesi stabilita dalla legge europea 2013-bis, il periodo è stato poi nuovamente esteso fino a 180 giorni, con l’entrata in vigore del decreto sicurezza nel 2018. Il decreto 130/2020 voluto dall’attuale ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha riportato il periodo di detenzione a 90 giorni, con la possibilità di estenderlo fino a un massimo di 120.
Nel 2011 una circolare dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni vietò alla stampa l’accesso ai centri per immigrati “al fine di non intralciare le attività loro rivolte”. Un provvedimento superato solo formalmente con la direttiva dello stesso anno firmata dalla ministra Anna Maria Cancellieri. La campagna LasciateCIEntrare ricorda che “ancora oggi la sospensione del divieto non rappresenta de facto la garanzia della libertà di informazione. Capire e raccontare cosa accade in questi luoghi è estremamente difficile a causa della discrezionalità con la quale le richieste di accesso vengono gestite e trattate”.
Gli ultimi casi collegati a queste strutture riguardano Wissem Ben Abdel Latif, 26enne tunisino trattenuto nel centro di Ponte Galeria e morto all’ospedale San Camillo di Roma dopo essere stato sottoposto a contenzione meccanica, e il connazionale 44enne Anani Ezzeddine suicidatosi nel CPR di Gradisca d’Isonzo.
Restano ancora da chiarire le cause che hanno portato alla morte di Abdel Latif. La Procura di Roma ha aperto un’indagine contro ignoti per omicidio colposo. I familiari ancora si chiedono cosa sia successo. Sapevano che a fine settembre era arrivato in Italia, era stato all’hotspot di Lampedusa “dove aveva dormito a terra circondato da una rete perché il centro era stracolmo” e poi trattenuto su una nave per espletare la quarantena senza aver accesso alla richiesta di protezione internazionale. Tutto questo non aveva fiaccato lo spirito di Abdel Latif, come riferisce la sorella Rania.
Una volta trasferito al CPR le cose però cambiano. Abel Latif non capisce perché era finito in cella senza aver commesso alcun reato, ricostruisce Annalisa Camilli su L’Essenziale. A ottobre gira un video all’interno della struttura in cui dice di essere pronto a proseguire lo sciopero della fame per impedire il rimpatrio. Nei giorni successivi, Abdel Latif sembra manifestare una forma di disagio psichico durante i colloqui con la psicologa del CPR al punto da richiedere una visita specialistica da parte dello psichiatra, che gli prescrive una terapia farmacologica. Dopo una nuova visita, lo psichiatra dispone il ricovero in un ambiente ospedaliero.
Come ricostruisce il Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio, Stefano Anastasia, in entrambi gli ospedali Abdel Latif viene trattenuto in stato di contenzione (al San Camillo per 63 ore): “Sappiamo che questa degenza, che sembra essere maturata come una scelta volontaria di assistenza medica, si è protratta per cinque giorni in contenzione. Questa è una cosa che va verificata. La stretta necessità di questa contenzione, che non è un atto medico ma di cautela per la sicurezza degli ambienti e della persona, va monitorata e limitata all’indispensabile”.
Secondo quanto riportato dai media, alcune persone trattenute nel CPR hanno parlato anche di possibili maltrattamenti ma spiega sempre Anastasia, “nessuno di noi ha ricevuto denunce di maltrattamenti su Ben Wassem Abdel Latif, prima che dal CPR di Ponte Galeria arrivasse volontariamente ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura dell’ospedale San Camillo”. Stando alla documentazione attualmente a disposizione, prosegue il Garante, “questi maltrattamenti non sono emersi nell’accesso al Pronto soccorso del Grassi dove, se ci fossero stati, sarebbero stati registrati quanto meno per medicina difensiva. Dall’autopsia vedremo se ci sono altre cose che ad oggi non sono emerse”.
Una morte evitabile secondo quanto dichiarato dall’avvocato Francesco Romeo. “Il 24 novembre, mentre Abdel Latif era ricoverato e legato in stato di contenzione presso l’ospedale Grassi di Ostia, il giudice di pace di Siracusa, su ricorso del legale del giovane tunisino, sospendeva l’esecutività del decreto di respingimento e del provvedimento di trattenimento presso il CPR di Ponte Galeria”.
Uno dei primi a dare la notizia della morte di Abdel Latif è stato Majdi Karbai, deputato della sinistra tunisina eletto in Italia nella circoscrizione esteri. A Valigia Blu racconta di «segnalazioni e testimonianze di connazionali che si trovano dentro i CPR o che sono già stati rimpatriati. Tutti descrivono un sistema di stigmatizzazione dove è impossibile ricevere informazioni sulla propria situazione. Ormai la Tunisia è considerato a torto un paese sicuro e quindi non ti viene data nessuna possibilità di accedere alla domanda di asilo o di protezione internazionale».
La Tunisia rientra, infatti, tra i 13 Stati presenti nell’elenco di paesi nei quali si presume sia garantito il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, stilato dall’Italia il 7 ottobre 2019 in attuazione della direttiva europea numero 32 del 2013. “Una classificazione che ha prodotto effetti eclatanti”, spiega Martina Costa membro di Avocats Sans Frontières. “Non solo i tunisini sono pre-valutati ma addirittura non viene fatta un’informativa legale adeguata. Vengono etichettati come coloro che ‘abusano’ del diritto di chiedere l’asilo. La Tunisia, però, oggi non è un paese sicuro”. Questo sistema, tra l’altro, non ferma i flussi. In Tunisia le persone che vengono respinte sono pronte per ripartire dopo essere state trattenute poche ore nei commissariati di polizia.
“Abdel Latif era solo un numero dentro le carte degli accordi tra Italia e Tunisia e dentro i cassetti ammuffiti e maleodoranti dell’Unione Europea”, denuncia LasciateCIEntrare.
Per Karbai «non si può parlare di accordi, perché gli accordi vengono discussi anche in Parlamento». In effetti il primo “accordo” bilaterale Italia-Tunisia sottoscritto il 6 agosto 1998 dal ministro degli Esteri Lamberto Dini e dall’ambasciatore tunisino a Roma fu una nota verbale in cui il governo nordafricano si impegnava a mettere in atto misure efficaci di controllo delle coste in cambio di quote di ingresso annuali per cittadini tunisini.
Negli anni successivi ci sono state altre intese, alcune mai rese pubbliche come quella del 2009, fino all’ultimo accordo “fantasma” del 2020 smentito dall’Italia e confermato dal ministero dell’interno tunisino: 11 milioni di euro per un radar, la manutenzione delle motovedette, programmi di formazione per le guardie di frontiera e un sistema informativo di controllo del mare.
Un altro aspetto problematico è l’accesso ai centri, segnala Karbai. «L’anno scorso ho provato a contattare la prefettura di Milano per entrare e mi è stato detto di no. Sabato 4 dicembre quando sono andato a Roma per ascoltare i ragazzi che erano lì insieme a Wissem non mi hanno fatto entrare».
Ai Centri possono accedere, in qualunque momento, senza alcuna autorizzazione e previa tempestiva segnalazione alla Prefettura, membri del governo, parlamentari ed europarlamentari che hanno la facoltà di farsi accompagnare da un proprio assistente. Altre figure con libertà di accesso sono il delegato in Italia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) o suoi rappresentanti autorizzati e i Garanti dei diritti dei detenuti. Associazioni, giornalisti e personale della rappresentanza diplomatica o consolare del Paese d’origine del recluso possono entrare solo se autorizzati dalla prefettura.
Nel rapporto sulle visite effettuate nei CPR dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale una delle raccomandazioni è che “venga aumentata la permeabilità e l’osmosi dei centri rispetto ai territori, con la partecipazione anche di espressioni della società civile, per la realizzazione di attività anche di tipo formativo rivolte alle persone trattenute, per un significativo impiego del tempo trascorso in privazione della libertà personale”.
Tra gli aspetti critici di carattere gestionale il Garante evidenzia infatti che “l’impermeabilità del CPR verso l’esterno, a lungo andare, gioca un ruolo negativo rispetto alla vita stessa delle strutture e di chi le abita. L’auspicabile apertura a osservatori esterni non istituzionali – università, media e associazioni – sebbene percepita come ‘fonte di pericolo’, aumenterebbe il grado di visibilità esterna delle strutture e della loro gestione, abbassando al contempo la divaricazione tra posizioni spesso di tipo ideologico e antagonista”.
Ancora più grave è la presenza di minorenni nei CPR. «Mai come nell’ultimo anno e mezzo, dopo l’accordo con la Tunisia, abbiamo visto un tale transito di minori stranieri non accompagnati nei centri, non solo a Ponte Galeria ma a Milano, Torino, Bari e Brindisi. In alcuni casi non dichiaravano la minore età perché non veniva loro chiesta. Chiaramente quando hanno avuto modo di comunicarla ci sono state tutte le verifiche di rito, ma di fatto hanno trascorso giorni, o solo qualche ora, in un luogo illegittimo», dice Yasmine Accardo di LasciateCIEntrare.
Al drammatico conteggio dei decessi legati a questi luoghi di detenzione vanno aggiunti i numerosi episodi di atti di autolesionismo compiuti dalle persone recluse: solo a Torino nei mesi di ottobre e novembre 115 casi, definiti dal segretario provinciale del sindacato di polizia Siulp Eugenio Bravo come “simulazioni di tentati suicidi”.
Dalla lettura del rapporto della Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD) emerge in maniera evidente quanto queste realtà possano essere redditizie. Un modello di business che ricorda il mercato delle prigioni private negli Stati Uniti. Secondo le stime di CILD, “nell’ultimo triennio sono stati spesi 44 milioni di euro per sostenere una gestione privata della detenzione amministrativa che (…) non garantisce i diritti fondamentali dei trattenuti. Una media giornaliera di spesa pari a 40.150 euro per detenere mediamente meno di 400 persone al giorno (dalle 192 persone presenti al 22 maggio 2020 alle 455 presenti al 20 novembre 2020) per poi constatare che soltanto nel 50% dei casi si realizza lo scopo della detenzione senza reato. La detenzione amministrativa è, infatti, una ‘filiera molto remunerativa‘ e la gestione privatizzata dei Centri (finanche per i servizi relativi alla salute) è uno dei nodi più controversi”.
È necessario tenere sempre a mente che questi luoghi rappresentano un tassello in un più ampio dispositivo di controllo e criminalizzazione delle persone migranti che va dai lager libici finanziati dall’Italia ai campi profughi lungo la rotta balcanica (dalla Grecia alla Bosnia e alla Croazia), passando per hotspot, “navi quarantena” e respingimenti illegittimi.
Strutture che, secondo Davide Cadeddu, autore di “Cie e complicità delle associazioni umanitarie” (Sensibili alle foglie, 2013), non sono riformabili per la loro stessa natura:
“Ciò che rende il CIE tale è la sua natura biopolitica. In questo dispositivo il potere si esercita sulla persona trattenuta non in quanto autore di un reato, ma in quanto essere vivente, vita biologica, nuda vita. Per cui, anche se in questi campi di internamento fossero garantiti standard decenti rispetto alla tutela dell’incolumità personale, all’igiene del luogo, alla qualità del cibo, all’assistenza sociale (attraverso la presenza di interpreti, psicologi, avvocati, mediatori linguistici) o alla realizzazione di attività di socializzazione, la natura di questi luoghi comunque non cambierebbe, rimarrebbero quello che sono e continuerebbero ad assolvere sempre alla stessa identica funzione all’interno della società”.
Il CPR, come denuncia il rapporto “Delle pene senza delitti”, stilato dopo l’ispezione effettuata dal senatore Gregorio De Falco e dalla senatrice Simona Nocerino all’interno del centro di via Corelli a Milano, insieme agli attivisti e alle attiviste della rete Mai più lager – NO ai CPR, è “una struttura carceraria per persone innocenti, ma con ancora meno diritti di quelli garantiti ai reclusi del sistema penitenziario, dove per giunta si capita (è il verbo corretto) senza che venga celebrato alcun processo”.
Tra i diritti negati alle persone detenute ci sono quelli alla salute e alla comunicazione. Lo spiega a Valigia Blu l’avvocato Maurizio Veglio, coordinatore del libro nero sul CPR di Torino realizzato dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI): «Dentro il CPR di corso Brunelleschi non è presente l’ASL, ma personale stipendiato dall’ente gestore i cui introiti dipendono dal numero di presenze. Se il medico è colui che decide la compatibilità della persona evidentemente si trova in una posizione di potenziale conflitto di interessi. Dal gennaio del 2020 i trattenuti vengono privati del cellulare e possono utilizzare solo un telefono fisso che non è abilitato a ricevere dall’esterno. Le chiamate sono possibili solo con una tessera prepagata del valore di 5 euro che viene distribuita ogni due giorni, in alternativa alle sigarette. Quindi la scelta è tra fumare oppure poter utilizzare 5 euro di telefonate in uscita dal centro. Il numero degli apparecchi fissi è addirittura inferiore a quello previsto dal regolamento ministeriale del 2014 e di fatto non ci sono altri canali comunicativi».
L’impossibilità di comunicare con i parenti o con le persone care ha una ricaduta pesante sul benessere psicofisico di chi è costretto a vivere in una condizione di completo abbandono, con giornate identiche che si ripetono ciclicamente.
Un problema, quello della comunicazione, che riguarda anche il diritto di contattare figure istituzionali come segnala a Valigia Blu Stefano Anastasia, il Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio. «Chi è trattenuto ha la facoltà ora riconosciuta per legge di rivolgere reclami ai garanti, ma non può comunicare direttamente con loro. Il responsabile del centro ha messo un avviso dicendo che chi vuole parlare con il garante può fare richiesta e lui lo contatterà. Non metto in dubbio la sua buona fede, ma non è questo il modo con cui le persone trattenute devono entrare in contatto col garante».
Per questo motivo Anastasia ha chiesto alla prefettura di riattivare uno sportello del Garante presso Ponte Galeria. «Tanti anni fa questa attività esisteva sulla base di un protocollo sottoscritto dalla Regione, il Garante e la prefettura. Il protocollo è scaduto prima che arrivassi, ma negli ultimi anni tutti i solleciti alla prefettura non hanno prodotto alcun risultato. Nelle carceri del Lazio al più tardi ogni 15 giorni c’è una delegazione di ufficio che incontra i detenuti che vogliono parlare con il Garante per segnalare un problema. Perché questa cosa non si possa fare anche a Ponte Galeria credo sia totalmente incomprensibile».
Nel centro romano si trova una sezione femminile, al momento vuota. Durante il primo lockdown del marzo 2020, quando all’interno della struttura c’erano 40 donne, è stato impedito l’accesso ai gruppi di assistenza legale che aiutano le detenute – spesso vittime di tratta – a veder riconosciuti i loro diritti e non essere rimpatriate, un epilogo fin troppo frequente.
Veglio invece è entrato nel centro torinese per la prima volta nel 2003 e dopo tutti questi anni «il dato più rilevante è il fatto che non sia cambiato nulla. Indipendentemente dalle condizioni di vita, dalla durata massima del trattenimento e da altri fattori, il tasso di rimpatri delle persone recluse è sempre rimasto intorno al 50%. Senza contare la sofferenza giurisdizionale di un diritto che applica la sua sanzione più grave – la privazione della libertà personale – in assenza di un reato e della sua contestazione. Qui si tratta di una violazione di tipo amministrativo, oltretutto convalidata da un’autorità giudiziaria, la magistratura onoraria, che in nessun altro caso ha il potere di intervenire sulla libertà personale degli individui».
A livello europeo sono due le direttive che regolano il rimpatrio dei migranti irregolari: la 2008/15/CE che attribuisce agli stati membri il potere di detenere persone presenti irregolarmente sul loro territorio e la 2013/33/UE che riconosce ai richiedenti asilo la libertà di movimento sul territorio nazionale, ma consente anche la possibilità di detenerli per accertarne l’identità.
La regolamentazione è affidata alle singole nazioni ma, sottolinea Veglio, “una seria ridiscussione e comprensione delle storture e degli orrori collegati alle vicende di detenzione amministrativa al momento non è ancora in corso. Ci sono gesti di resistenza, ma è una battaglia tutta in salita perché purtroppo l’opinione pubblica sembra assuefatta e riuscire a ridestarla da questo sonno collettivo è un’impresa davvero impegnativa”.
LasciateCIEntrare, almeno all’inizio, ha potuto contare sul sostegno del mondo dell’informazione. «Fino al 2014 entravamo in delegazioni cospicue di 7-8 persone, producevamo rapporti, interrogazioni parlamentari, denunce di casi molto gravi», ricorda Accardo. “Adesso è diventato impossibile”.
I media ormai parlano dei CPR solo quando una persona perde la vita. Come accaduto in questi mesi con Moussa Balde a Torino e con la morte di Abdel Latif. E in precedenza con altre vittime: Harry, ventenne nigeriano con problemi psichiatrici impiccatosi nella struttura di Brindisi; Hossain Faisal, cittadino bengalese di 32 anni morto nei locali dell’Ospedaletto del CPR di Torino; Aymen Mekni, cittadino tunisino di 34 anni stroncato da un malore a Caltanissetta; Vakhtang Enukidze, cittadino georgiano deceduto a Gradisca d’Isonzo; Orgest Turia, cittadino albanese di 28 anni ucciso sempre in Friuli-Venezia Giulia da un’overdose di metadone.
Luoghi che andrebbero invece raccontati nella loro quotidianità per capirne il loro funzionamento, la loro organizzazione e cosa accade al loro interno nella specificità delle diverse realtà. «È un sistema molto violento di cui si parla troppo poco», afferma Accardo. «Noi non accogliamo, sostanzialmente deteniamo persone in condizioni allucinanti ed è grave che debba arrivare il morto per poter parlare di quello che avviene ogni giorno. Ogni giorno ci sono trasferimenti violenti, ogni giorno c’è una disattenzione alla singola persona. Una comunicazione di tipo scandalistico, che non produce cambiamenti in termini politici, è un’informazione residuale che non dà un quadro generale di quello che sta davvero accadendo».
Di Angela Caponnetto su Articolo 21
67.040, quasi il doppio rispetto ai 34.134 del 2020 e quasi sette volte di più rispetto agli 11.471 del 2019. Questi sono i numeri delle persone sbarcate in un’ Italia popolata da 59 milioni 258.000 abitanti . Un paese che tra il 2014 e il 2017 – il periodo dei grandi flussi migratori – ha visto approdare in media 150.000 persone all’anno. Questi sono primi e ultimi numeri che verranno elencati in questo articolo perché dietro alla matematica dei numeri ci sono vite umane con le proprie storie, sogni e speranze. Vite che il Covid-19 ha quasi del tutto oscurato, complici i media concentrati sulla pandemia ancora in corso. Lasciando spazio al mero conteggio degli sbarchi che fanno notizia solo se nei nostri porti approdano navi umanitarie mentre restano marginali gli approdi autonomi: nonostante le ong abbiano soccorso una minima parte delle persone migranti che invece sono arrivate da sole, rischiando per lo più di morire annegati o di stenti durante il viaggio. Purtroppo mi devo contraddire perché devo inserire un altro numero in questo elenco: quello delle vittime tra le persone migranti che nel 2021 sono 1.600 tra morti e dispersi solo nel Mediterraneo. Uomini, donne e purtroppo sempre più bambini i cui corpi vengono recuperati nelle spiagge libiche come nelle scogliere di Lampedusa chi nel silenzio generale soccorre in ogni stagione e senza sosta.
Totalmente obnubilati dal virus, quasi timorosi di parlare dei drammi altrui in un’epoca in cui il dramma della pandemia ha sconvolto le vite di tutti, la maggior parte dei media ha trattato le notizie sui flussi con distacco e poca attenzione. Lasciando spazio alla (per fortuna sempre meno credibile) retorica dell’ “invasore”.
Così, eccetto la vicenda dei profughi afghani in fuga dai talebani e la crisi al confine tra Polonia-Bielorussia, il resto dei flussi migratori è stato citato per lo più in termini di numeri e non di storie. Chi fa questo mestiere sa che raccontare le storie fa la Storia. Come mi fa ricordare una foto che mi è capitata in questi giorni tra le mani: scattata nel 2002 sul molo di Catania dal grande inviato Pino Scaccia. Una foto che mi ritrae mente prendo appunti su un notes durante uno sbarco di mille migranti da una carretta del mare. Vent’anni fa, governo Berlusconi bis, ministro dell’Interno Claudio Scajola. In mille soccorsi dai nostri militari. Erano curdi in fuga dal conflitto con i turchi. Allora come ora, c’era chi gridava all’invasione e c’era chi addirittura chiedeva di affondare quella carretta carica di vite umane: famiglie, uomini donne e tanti bambini. Vent’anni dopo si parla ancora della stessa fantomatica invasione e si continua a non raccontare le storie e le origini di queste partenze e approdi, come invece ci esorta a fare Papa Francesco.
Non solo non si raccontano più le storie di chi lascia la propria terra ma si è smesso di cercare di capire cosa spinge a movimenti più consistenti da un anno all’atro. Cosi, se suscitano interesse le solite rotte dalla Libia Centrale e dalla Tunisia verso la solita Lampedusa, scivolano tra le notizie di secondo piano gli arrivi dalla rotta turca, egiziana e dalla Libia orientale che nel 2021 hanno portato oltre 11.000 persone migranti nei porti calabresi e altre migliaia in quelli pugliesi. Eppure è questa la vera novità nei flussi migratori dell’anno appena conclusosi: i viaggi sempre più numerosi dalla Turchia e da un’area di confine tra Egitto e Cirenaica con centinaia di persone ammassate su vecchi pescherecci con motore in avaria sempre più spesso sganciati da navi madre in area sar di competenza italiana all’altezza del Mare Jonio. Soccorsi difficili, faticosi e pericolosi. La sintesi del lavoro fatto da chi soccorre a mare come a terra è nelle parole di un ispettore di polizia intervenuto in un salvataggio di un veliero che si incaglia su una spiaggia a Crotone: in mezzo ad una tempesta rischiando di ribaltarsi. A bordo ci sono tanti bambini che i genitori lanciano tra le braccia degli uomini in divisa: “La cosa più bella è stata sentire le loro braccia attorno al collo: avevano fiducia in noi” racconta con voce rotta dall’emozione il poliziotto. Un’emozione che si prova solo essendo parte di questa storia e che va raccontata per fare la Storia. C’è un motivo per cui queste persone si sono messe in mare più dell’anno prima e dell’anno prima ancora. C’è un motivo per cui hanno rischiato la loro vita per raggiungere un porto sicuro dal quale poi cercare forse di arrivare in un altro luogo dove trovare pace.
Per questo noi giornalisti dobbiamo continuare ad esserci, a documentare e a raccontare le storie mettendo insieme i tasselli di un puzzle che potrà essere completato solo con una corretta informazione. Anche perché solo attraverso una corretta informazione noi operatori dei media potremo contribuire a dare una spinta per trovare le giuste soluzioni ai movimenti migratori. Soluzioni che non possono essere muri veri o virtuali, né vacua propaganda anti immigrazione: servono politiche di peace keeping per i paesi ancora in conflitto, controllo del terrorismo nei paesi afflitti da gruppi estremisti che terrorizzano la popolazione interna, politiche di sviluppo per i paesi più poveri controllando che i fondi per i progetti non finiscano in mano a leader corrotti e, nell’immediato, corridoi umanitari per i più vulnerabili.
Questo mi ha insegnato un grande reporter come Pino Scaccia che, alla vigilia del 2022 mi ritorna con una trasferta fatta insieme vent’anni prima. Suole consumate, penna e taccuino, la Storia va vissuta prima di essere raccontata.
Immagine in evidenza di Articolo 21
di Gianfranco Schiavone su Altreconomia
Prima sono venuti i respingimenti alle frontiere esterne dell’Unione europea: illegali, impuniti e violenti per terra come per mare. Poi ci sono stati i respingimenti a catena alle frontiere interne, chiamati riammissioni per mascherarne la natura. Infine per ampia parte di coloro che, a prezzo di inaudite sofferenze, riescono a entrare in Europa, la domanda di asilo viene esaminata, alla frontiera e non, in modo fulmineo. Le procedure sono sommarie e l’unica finalità è provare a negare ogni protezione così che il rimpatrio coattivo, attuato senza un effettivo diritto di difesa, divenga la soluzione finale di un percorso già scritto dall’inizio.
Questo gorgo oscuro nel quale siamo finiti riguarda da tempo tutta l’Europa anche se è più visibile in alcuni Paesi nei quali l’ordinamento democratico è particolarmente fragile. Nella Polonia di fine 2021 la situazione è arrivata all’estremo e lo stesso Stato di diritto è collassato; in primis per i rifugiati ma in realtà per chiunque giacché nessun cittadino è più al sicuro nel Paese.
La Polonia è riuscita a realizzare tutte le violazioni possibili del diritto d’asilo: è stato di fatto sospeso alle sue frontiere, come nel territorio, respingendo apertamente e con ogni mezzo violento i rifugiati verso la Bielorussia dove sono arrivati a seguito dell’uso criminale che viene fatto di loro dal regime di Aljaksandr Lukašėnka. In tal modo la Polonia ha annullato il divieto assoluto di non respingimento sancito dall’Art. 33 della Convenzione di Ginevra e dall’Art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Si è resa responsabile della morte di almeno 20 persone (ma il numero è probabilmente sottostimato) tra cui alcuni bambini che sono stati lasciati morire di stenti e freddo sulla linea del confine pur conoscendone esattamente la grave condizione. La difesa di scelte così estreme invoca una sorta di “guerra ibrida” che il regime bielorusso starebbe conducendo usando i rifugiati come armi e la conseguente necessità di dovere difendere, a tutti i costi, il confine dell’Europa.
Invocare l’esistenza della nuova “guerra” in atto ha permesso al governo polacco di dichiarare lo stato di emergenza in tutta l’area di confine, impedire l’accesso ai giornalisti, criminalizzare chi difende la legalità e porta soccorso alle persone a rischio di vita nella foresta giungendo, in un’escalation che al momento della stesura di questa riflessione non sembra avere fine, persino a impedire le visite dei parlamentari europei affinché nessuno possa vedere quello che sta realmente avvenendo. Su tutto ciò la Commissione europea tace, complice di fatto dello stravolgimento di quella legalità che è chiamata a difendere.
A chi, magari con travaglio interiore, ritiene che tale situazione possa essere tollerata in ragione della sua eccezionalità non oppongo una valutazione politica o etica bensì una giuridica. La Convenzione sui diritti dell’uomo del 1955, consapevole che scenari di guerra e di pericolo sarebbero stati in futuro purtroppo sempre possibili, aveva previsto la possibilità di derogare, in modo limitato e temporaneo, al rispetto di alcuni dei diritti sanciti dalla Convenzione stessa chiarendo però che “nessuna deroga” (Art. 15) può mai essere ammessa, neppure in stato di guerra, al divieto di respingimento verso luoghi dove c’è rischio di tortura o di trattamenti inumani e degradanti. La Polonia e l’Europa non sono in guerra perché qualche migliaio di disperati disarmati si trovano al nostro confine e chiedono asilo. Affermarlo è osceno. Infine se fossimo in guerra nulla cambierebbe rispetto a ciò che non possiamo mai fare. Abbiamo superato, persino in assenza di alcuna ragione, il limite invalicabile dell’identità che ci siamo dati e lo dobbiamo sapere, senza finzioni.
Foto in evidenza di Kancelaria Premiera, via flickr, su Altreconomia
Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Makbyel aveva appena 17 giorni quando è stato salvato in mare, a fine dicembre, dalla Ocean Viking, la nave umanitaria di Sos Méditerranée. Appena nato, metà della sua breve vita l’ha passata su un barchino in mare con altre 113 persone in attesa di un soccorso. Per questo, una volta al sicuro sul ponte della nave, la madre ha deciso di dargli come secondo nome “Sos”. Makbyel Sos e gli altri naufraghi hanno saputo che avrebbero sbarcato in un porto sicuro, a Trapani, la notte di Natale. Nelle stesse ore nel Mar Egeo si consumavano due terribili naufragi: il bilancio provvisorio è di 27 vittime e 25 dispersi. Scomparsi in fondo al mare e nel silenzio generale nell’anno in cui l’immigrazione non è più il tema caldo, al centro del dibattito pubblico e politico. Così neanche le vittime del mare hanno dignità di notizia. Ma i numeri sono tutt’altro che irrisori e parlano di almeno 1600 morti nel 2021, sulla rotta più pericolosa al mondo, quella del Mediterraneo.
Complice la pandemia da coronavirus che ha monopolizzato il mondo dell’ informazione, secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Carta di Roma “Notizie ai margini”, nel 2021 sono 660 gli articoli in prima pagina dedicati al tema, il 21 per cento in meno rispetto al 2020, anno in cui già si registrava già una flessione dell’attenzione nell’agenda dei media. Il mese con maggiori notizie dedicate è stato agosto con la presa del potere da parte dei talebani in Afghanistan e la ripresa degli sbarchi verso l’Italia, che a fine 2021 si attestano a quota 64mila. “Le notizie che in questi anni hanno catalizzato l’attenzione, ispirato campagne elettorali, condizionato le politiche europee, nutrito l‘odio di molti, portato la paura nelle nostre case, nel 2021 sono rimaste prevalentemente lì, in quello spazio un po’ indefinito a due passi dall’indifferenza. Eppure quelle notizie ci sarebbero ancora ma invece restano ai margini e suona davvero strano” – sottolinea Valerio Cataldi, presidente di Carta di Roma.
In questo contesto di marginalità sono passati sotto silenzio anche alcuni attacchi al diritto d’asilo all’interno degli Stati europei per gestire i flussi alle frontiere. Il caso più raccontato mediaticamente è stato quello della crisi diplomatica al confine tra Polonia e Bielorussia. Il governo Lukashenko, dopo aver fatto arrivare in aereo migliaia di profughi (per lo più curdi e afgani) li ha spinti verso il confine polacco. Per settimane i due stati hanno dato vita a un vero e proprio braccio di ferro sulla pelle delle persone. Intanto ai profughi era impedito di chiedere protezione nei paesi europei. La commissione Ue per risolvere la situazione ha elaborato una proposta straordinaria di sei mesi che prevede la sospensione di alcune regole su asilo per i tre paesi di confine: Polonia, Lettonia e Lituania. La proposta prevede una semplificazione dei rimpatri e un limite di tempo più lungo per registrare le domande di asilo (da dieci giorni a 4 settimane). Non solo, ma la proposta apre anche alla possibilità di trattenere temporaneamente i richiedenti asilo. Una deroga ai principi che regolano il diritto d’asilo che è stata ampiamente criticata dai giuristi italiani e internazionali. Ma non è l’unica violazione.
Secondo il report “Human dignity lost at the EU’s borders”, elaborato dal Danish refugees Council e alcune agenzie partner (comprese in Italia Asgi e Diaconia Valdese) per tutto il 2021 le regole internazionali sulla protezione sono state sistematicamente violate in diverse aree dell’Ue. In particolare, da gennaio 2021, le organizzazioni hanno incontrato 11.901 persone che hanno denunciato respingimenti alle frontiere interne e esterne dell’Unione Europea. Il 32% dei respingimenti riguarda persone provenienti dall’Afghanistan, molte delle quali hanno visto negato il diritto di chiedere asilo (oltre il 60%). Le temperature invernali hanno contribuito al deterioramento delle condizioni umanitarie : oltre a veder negato il diritto d’asilo, le persone non hanno accesso a un riparo per la notte, vestiti caldi, cibo a sufficienza.
Tra i principi rimessi in discussione nel corso del 2021 anche quelli previsti dal trattato di Schengen. Alcuni paesi del nord Europa (tra cui Francia e Germania) hanno chiesto di poter reintrodurre i controlli alle frontiere interne dell’Unione europea per contrastare i cosiddetti “movimenti secondari” (gli spostamenti dei migranti da uno stato all’altro dell’Unione). La Commissione Ue, anche in questo caso ha approvato una proposta che lo prevede in alcuni casi eccezionali. Il Paese membro dovrà “giustificare la proporzionalità e necessità della sua azione tenendo in considerazione l’impatto sulla libertà di circolazione” delle persone.
Intanto guardando all’andamento della mobilità internazionale i numeri dicono che seppure siano in aumento le persone in fuga nel mondo, in Europa diminuiscono sia gli arrivi irregolari (-12 per cento) che i richiedenti asilo (crollati di ben un terzo). Il dato è contenuto nel Rapporto asilo 2021 della Fondazione Migrantes. “La pandemia di Covid-19 ha reso ancora più gravoso qualsiasi motivo, qualsiasi spinta a lasciare la propria casa, la propria terra. Dai conflitti alle persecuzioni, alla fame, all’accesso alle cure mediche fino alla possibilità di frequentare una scuola, il Covid-19 ha inasprito il divario fra una parte di mondo che vive in pace, si sta curando, tutelando e sopravvivendo e un’altra che soccombe, schiacciata da una disparità crudele – si legge nel testo -. Ma almeno in tutto il 2020, l’Italia e l’Europa hanno rappresentato un’eccezione in controtendenza rispetto alla situazione globale: mentre nel mondo il numero delle persone in fuga continuava ad aumentare, fino a una stima di 82,4 milioni, nel nostro continente si sono registrati meno arrivi “irregolari” di rifugiati e migranti e meno richiedenti asilo”.
In particolare, in Italia (dati Istat) a inizio 2021, con poco più di 5 milioni di residenti, la popolazione straniera dopo vent’anni di crescita ininterrotta si è ridimensionata e non riesce più a compensare “l’inesorabile inverno demografico italiano” come lo definisce il Rapporto italiani nel mondo 2021 della Fondazione Migrantes. Ormai il saldo tra entrate e uscite dal nostro paese è negativo: sono più i cittadini italiani che decidono di andare all’estero a vivere e lavorare che i migranti che arrivano nel nostro paese per stabilirsi. “L’Italia – spiega Fondazione Migrantes – è oggi uno Stato in cui la popolazione autoctona tramonta inesorabilmente e la popolazione immigrata, complice la crisi economica, la pandemia, i divari territoriali e l’impossibilità di entrare legalmente, non cresce più”. Tuttavia c’è un’Italia che cresce ed è “quella che risiede strutturalmente all’estero”. Nell’ultimo anno l’aumento della popolazione iscritta all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (Aire) è stato del 3% (il 6,9% dal 2019, il 13,6% negli ultimi cinque anni e ben l’82% dal 2006, anno della prima edizione del rapporto).
Foto in evidenza di Suzanne de Carrasco / Sea-Watch
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