Il periodo in cui Roberto Morrione ebbe l’intuizione geniale di fondare un canale televisivo all-news coincise col mio ritorno in pianta stabile, dopo alcuni anni trascorsi come consulente esterno, negli uffici di Amnesty International Italia, in qualità di portavoce dell’associazione.
L’idea di uno spazio televisivo che fornisse, con continuità nel corso della giornata, notizie fresche e aggiornamenti delle precedenti era di per sé innovativa. Ma la politica editoriale di quello spazio avrebbe potuto prendere direzioni diverse: ad esempio, essere una sorta di servizio pubblico della politica, dando poco spazio al resto.
In quel resto, c’erano le “mie” notizie. Quelle che vivevano nelle periferie del mondo, scarsamente e raramente illuminate dall’informazione. Nei luoghi dove la regola del potere era il silenzio.
Grazie a Roberto, quelle notizie e quei luoghi iniziarono ad apparire. Non in risicati spazi televisivi notturni, ma nelle edizioni dei telegiornali, negli approfondimenti, nelle inchieste, nelle dirette.
Rai News 24 fu, con Roberto, qualcosa di profondamente diverso da ciò che era già allora, e ancora di più è diventato oggi, un format televisivo. Oggi, giornalisti dialogano con altri giornalisti, si fanno domande e si danno risposte su temi dei quali spesso conoscono poco. Oggi, le sedie dei dibattiti televisivi sono occupate da persone che parlano, con supponenza, di genocidi e altri crimini dopo aver concionato sul superbonus e pronti ad affrontare il successivo argomento, ad esempio il premierato.
No, Rai News 24 non era così: i giornalisti andavano sul posto, facevano domande a testimoni, sopravvissuti, protagonisti e vittime. In studio, erano invitati esperti e non opinionisti. Era la tv dell’autorevolezza, non dell’approssimazione. Si parlava di ciò che si sapeva e si taceva di ciò che non si sapeva. E tra quelle persone esperte, ogni tanto c’ero anch’io: su un tema, su un problema specifico. I diritti umani stavano diventando, grazie a Roberto, una sezione del palinsesto, un blocco di notizie.
Sarebbe ingeneroso dire che, dopo Roberto, c’è stato il buio. Ci sono colleghe e colleghi in Rai che sono stati uccisi mentre facevano giornalismo come Roberto aveva insegnato a fare: d’inchiesta, con la schiena dritta, senza fare sconti.
Però è proprio quell’idea che non va più per la maggiore: i diritti umani come sezione di notizie. La politica è chiamata a interpretare e a commentare ogni cosa.
Oggi, negli studi televisivi, se c’è un’alluvione si chiama un esperto di clima; se c’è un terremoto s’invita uno studioso dei movimenti sismici. Ma se c’è un naufragio di persone migranti, si chiamano gli schieramenti opposti della politica. A Roberto non sarebbe interessato il loro parere. Avrebbe chiamato me e colleghe e colleghi delle organizzazioni per i diritti umani.
*di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International
Da oggi la Carta di Assisi declinata per i bambini porta la firma del Papa. Una copia è stata consegnata questa mattina a Francesco da una delegazione di giornalisti nell’ambito dell’udienza del mercoledì, in una piazza San Pietro stracolma di fedeli a poche ore dalla Giornata mondiale dei bambini . Il gruppo di giornalisti che ha portato la carta, predisposta da Padre Enzo Fortunato con Iside Castagnola e Roberto Natale, ha anche ringraziato Papa Francesco per l’attenzione verso gli operatori dell’informazione e la libertà di stampa.
La Carta riprende i principi già contenuti nella Carta di Assisi, rivisitata per i bambini. Una scelta volta a ribadire il valore etico di un linguaggio che tenga conto dei valori e delle persone, in questo caso rafforzata per i bambini cui il Papa ha voluto dedicare la due giorni del 25 e 26 maggio. Presente nella delegazione il Presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Bartoli e la segretaria nazionale dell’Ordine, Paola Spadari, il Presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio, Guido D’Ubaldo, il Presidente dell’Ucsi, Vincenzo Varagona, la portavoce di Articolo 21, Elisa Marincola, il coordinatore dei presidi di Articolo 21, Giuseppe Giulietti e di Antonella Napoli, Roberto Natale, Graziella Di Mambro del direttivo di Articolo 21 con Angelo Chiorazzo della cooperativa Auxilium che da anni condivide con la nostra associazione un percorso di rispetto etico prima che professionale delle persone e delle notizie. La firma di Papa Francesco sotto la Carta di Assisi per i bambini ribadisce in modo straordinario il senso di un’informazione guidata da valori essenziali e rispetto dei diritti umani.
Il testo della Carta di Assisi alla Giornata Mondiale dei Bambini 2024:
foto: Articolo21
La mostra “La memoria degli oggetti. Lampedusa, 3 ottobre 2013. Dieci anni dopo” è stata inaugurata all’Eremo di Santa Caterina del Sasso. Ad aprire la rassegna, che sarà poi visitabile fino a martedì 9 aprile, una visita guidata con i curatori.
La rassegna è un progetto di Carta di Roma e Zona e gode del patrocinio del Comune di Leggiuno e Musa e ha il supporto di Archeologistics, impresa sociale impegnata nella valorizzazione dei beni culturali.
La mostra raccoglie e presenta gli oggetti appartenuti alle persone migranti decedute nel naufragio.
Una bussola, una macchinina rossa, una boccetta di profumo, uno specchietto, un telefono cellulare. La forza di quegli oggetti è che ci costringono a riconoscere che la nostra vita è piena delle stesse cose. Che solo il caso ci ha consentito di non aver bisogno di afferrare quegli oggetti e lasciare per sempre il nostro mondo. Dare dignità a quegli oggetti significa fare un passo verso la costruzione di una memoria condivisa, una memoria comune, quella degli esseri umani.
di Veronica Rossi su Vita
“Ho quello che molti definiscono ‘tutti i difetti possibili’: sono donna, araba, musulmana e africana, ma sono le cose di cui vado più fiera. E oggi sono fiera anche di essere italiana”. Si racconta così Faiza Bourhaleb, fisica marocchina in Italia dal 1999, prima come dottoranda e poi come fondatrice di una società, I-See, che si occupa dello studio degli effetti delle radiazioni sui pazienti oncologici. Questa è solo una delle storie raccontate sul portale del progetto multidisciplinare e interdipartimentale Scienza Migrante – Storie di Scienza e Migrazione finanziato dall’Università di Torino nell’ambito del Bando 2021 per i progetti di Public Engagement e realizzato in collaborazione con la sezione di Torino dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, con l’obiettivo di condividere e valorizzare il patrimonio culturale e scientifico degli immigranti sul territorio piemontese.
Dagli anni ‘90 a oggi, il fenomeno migratorio verso la Penisola ha conosciuto una crescita costante, tanto che, ora, la percentuale di popolazione straniera residente in Italia arriva al 9%. Spesso però si tratta di persone di cui non viene raccontato il background e il percorso di vita, fino ad appiattirle su un profilo comune, spesso stereotipato.
“Avevo in mente questa idea da molti anni”, racconta Michela Chiosso, docente presso il dipartimento di Fisica dell’Università di Torino e responsabile scientifica del progetto. “È nata da una riflessione sull’immigrazione: mi è capitato spesso di incontrare delle persone che nei loro paesi di origine erano scienziate e che in Italia si sono reinventate. Volevo anche combattere il pregiudizio, che a volte si sente nel dibattito pubblico e sui media, secondo il quale tutti i migranti non hanno un alto livello di istruzione”.
L’iniziativa è composta da tre fasi, complementari tra loro. Scienza Migrante, infatti, è un portale che racchiude storie di scienziati migranti, che sono arrivati in Europa portando con sé il loro bagaglio culturale e di conoscenze, così come uno sguardo diverso sul metodo di ricerca. Ma è anche un progetto educational per le scuole primarie e secondarie ideato e curato assieme alle persone con background migratorio e una serie di aperitivi itineranti nelle Case del Quartiere di Torino, organizzati a cadenza mensile in collaborazione con RKH Studio e Associazione Centro Scienza Onlus.
Il primo evento si è tenuto mercoledì 6 luglio, e ha rappresentato una preziosa occasione di incontro, soprattutto per i protagonisti dell’iniziativa. “Si tratta di un momento di condivisione”, continua Chiosso, “che permette alle persone di conoscersi e di fare comunità: durante la serata inaugurale sono stati scambiati tanti contatti e si sono create delle belle sinergie, tutti erano entusiasti”. Il progetto si chiuderà ufficialmente nell’estate del 2023, ma la sua ideatrice vorrebbe che acquistasse gambe proprie. Al portale Scienza Migrante possono infatti collaborare anche nuove persone, proponendo le loro storie nella sezione dedicata del sito. In futuro, in più, saranno caricati materiali audiovisivi ed è in lavorazione un podcast costruito utilizzando le interviste. “L’obiettivo dei nostri interventi è duplice”, conclude la docente, “vorremmo far riflettere sul valore del pensiero scientifico e della pluralità di sguardi e di approcci, ma anche fornire una fonte di ispirazione ai giovani, attraverso le storie di resilienza e di coraggio di chi ha dovuto lottare per raggiungere un alto grado di istruzione e di realizzazione professionale”.
Foto in evidenza di Vita
Di Patrizia Baldi, Murilo H. Cambruzzi su Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea
Il progetto Un Tè a Samarkand nasce dal bisogno di scardinare la narrativa e di cambiare la prospettiva sulle storie di esilio in Italia, tralasciando un racconto generalizzante a favore di un racconto in prima persona e transculturale. Il progetto ha come base la ormai decennale esperienza della Fondazione CDEC nella raccolta di testimonianze e nello studio del fenomeno dell’immigrazione e dell’esilio ebraico. Partendo da un approccio transculturale ed intersezionale, il filmato tocca diversi argomenti nodali e attuali (tradizioni, discriminazione, trauma, appartenenza, etc) per mezzo delle vicissitudini personali dei protagonisti del documentario che provengono da varie comunità e hanno subito discriminazioni e persecuzioni legate alle loro identità, cioè, appartenenza etnica, religione (o ateismo), orientamento sessuale, genere, etc. Oltre al fatto di condividere la condizione dell’esilio, quello che emerge da questo documentario è che sebbene provengano da paesi e culture diverse, i protagonisti coinvolti hanno elementi, tradizioni, usanze, etc, che li accomunano: sia chi è arrivato in Italia da meno di tre anni, sia chi è qui da più di cinquanta.
Il progetto muove da un incontro di carattere esistenziale, davanti ad una tazza di tè in una sala del ristorante Samarkand a Milano, tra persone appartenenti a gruppi minoritari differenti. Samarkand è stato fondato da un gruppo di rifugiati afghani di cultura hazara; oltre a essere un ristorante che offre una varietà di cibo tipici dei paesi dell’Asia Centrale, questo luogo promuove attività culturali e rappresenta il focolare della comunità hazara a Milano.
Nel documentario vengono dibattute questioni rilevanti nel dibattito pubblico italiano, come esilio, immigrazione, discriminazione, antisemitismo, cittadinanza, accoglienza, memoria, etc. La narrativa sui rifugiati in Italia è recente e non include le persone già radicate nel nostro paese da decenni, esse pure costrette a lasciare i paesi d’origine in quanto minoranze perseguitate.
I protagonisti del filmato sono:
Amichai Lazarov, ebreo italo-americano, imprenditore, nato nel 1954 in Israele, di origine Bukhara.
Amin Wahidi, italo-afghano, regista, nato nel 1982 in Afghanistan, di origine Hazara, scappato nel 2007.
Ashraf Barati, afghano, ristoratore, nato nel 1980 in Afghanistan, di origine Hazara, scappato nel 2006.
Azad, profugo politico, nato negli anni 80 in Iran, discriminato per motivi politici, di orientamento sessuale e religiosi (ateo), in Italia da tre anni .
Betti Guetta, ebrea italiana, ricercatrice della Fondazione CDEC, nata nel 1956 in Libia, scappata nel 1957.
Nanette Hayon, ebrea italiana, collaboratrice della Fondazione CDEC, nata nel 1951 in Egitto, scappata nel 1956.
Progetto organizzato dalla Fondazione CDEC con il supporto di: Memoriale della Shoah Milano, Laboratorio Lapsus, Razzismo brutta storia, Arcigay Milano e Deina.
Il filmato integrale è disponibile qui.
La versione corta del filmato è disponibile qui.
Immagine in evidenza di Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea
Lesley Naa Norle Lokko, Ghanaian-Scottish architect poses for a picture in Cà Giustinian, Venice, 30 May 2022. Lesley Lokko has been appointed as the new curator of the Architecture sector of the Biennale. ANSA/ANDREA MEROLA
Di Roberto Nardi su Ansa
Lesley Lokko, architetta e scrittrice, scozzese di origini ghanesi, fondatrice nel 2020 in Ghana ad Accra dell'”African Futures Institute”, una scuola di specializzazione in architettura, sceglie due parole, “laboratorio” e “futuro”, per il titolo della 18ma Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia e pone al centro della sua proposta l’Africa. “Il continente più giovane del mondo”, dove le questioni che ci assillano l’oggi sul destino dell’umanità e della Terra – sociali, politiche, ambientali, legate alla mancanza d’acqua ed energia, sanitarie – sono già da tempo presenti, sarà il “protagonista”, il punto da cui guardare il mondo, della rassegna in programma dal 20 maggio al 26 novembre 2023, tra i Giardini e l’Arsenale e altri spazi della città lagunare con i padiglioni nazionali.
Inutile fare giri di parole per spiegare le ragioni della scelta: “qui in Europa – dice la curatrice – parliamo di minoranze e diversità, ma la verità è che le minoranze dell’Occidente sono la maggioranza globale; la diversità è la nostra norma. C’è un luogo in cui tutte le questioni di equità, risorse, razza, speranza e paura convergono e si fondano. L’Africa. A livello antropologico, siamo tutti africani. E ciò che accade in Africa accade a tutti noi”.
“Il laboratorio del futuro”, recita il titolo della mostra – le cui linee guida sono state presentate dalla curatrice e dal presidente della Biennale Roberto Cicutto – sarà una sorta di “bottega artigiana” che guarda all’architettura di domani, nel senso più ampio del termine, e parte da un punto di vista dell’Africa come spazio di elaborazione, messa in prova del futuro, ampliando la visione sull’intero pianeta attorno a temi propri del vivere insieme, del destino dell’umanità, della natura. L’Europa, quella parte del mondo che negli ultimi decenni ha cullato “un falso senso di sicurezza”, per la curatrice, si è trovata costretta a confrontarsi “con le stesse questioni riguardanti la terra, la lingua e l’identità che in molte parti dell’Africa, dell’Asia e del Medio Oriente sono state e sono tutt’ora una costante”. Sulla scena così sono comparsi temi come “decolonizzazione” e “decarbonizzazione”, che sembrano “macrofenomeni” ma che si riflettono “a livello microscopico negli aspetti più intimi della nostra vita quotidiana”. Il tutto senza dimenticare la storia, la tragedia della schiavitù, e la curatrice ricorda: “con tutti i discorsi sulla decarbonizzazione è facile dimenticare che i corpi neri sono stati le prime unità di energia ad alimentare l’espansione imperiale europea che ha plasmato il mondo moderno. Equità razziale e giustizia climatica sono due facce della stessa medaglia”. Il dono dell’architettura – per Lesley Lokko – “è la capacità di influenzare il nostro modo di vedere il mondo”, con l’aiuto anche delle nuove tecnologie. Da qui, il bisogno di puntare l’attenzione sull’Africa, in un modo non teorico ma concreto, per interrogarsi sul mondo. La curatrice, al momento, ha reso note le linee guida del “laboratorio”, c’è un anno per dare sostanza al progetto, per mostrare al pubblico che gli architetti, nel segno della speranza, “sono attori chiave nel tradurre le immagini in realtà”. Roberto Cicutto si dice convinto che la mostra di Lesley Lokko – già in membro della giuria internazionale della passata edizione della Biennale, “How Will we live together” di Hashim Sarkis – non sarà “teorica, ma sarà una Biennale dove gli aspetti fisici, concreti, saranno molto forti e coinvolgenti”. Una mostra, dove, uscite di scena le grandi firme del mondo globale, probabilmente si guarderà a come si irriga, a come ci si difende dal caldo e dal freddo, a come si vive insieme in spazi difficili, come si riesce a essere curati in tempi brevi “in posti così desertificati” (a dirla con le parole del presidente della Biennale).
Foto in evidenza Ansa
Di Stefano Lamorgese su Premio Morrione
“Vero”, in latino verum, è una parola che – secondo alcuni studiosi – deriverebbe dall’accadico, la lingua semitica più antica, parlata da Sumeri e Babilonesi. Il termine originario sarebbe Bērum e indicava la rivelazione concessa ai veggenti: solo a loro appariva chiaro, definito e incontestabile il messaggio divino. Ciò che per noi oggi è “vero”, dunque, ha radici misteriche, nebulose, sacerdotali, avvolte nei fumi degli incensi.
Sono trascorsi più di cinquemila anni da quando si divinavano oracoli sulle rive dell’Eufrate. Ma non si è ancora spenta la suggestione che il concetto stesso di verità contiene. Anzi: la solidità della rivelazione è sempre più soltanto un’apparenza etimologica, insidiata e squarciata dal crescente rumore di fondo che tutto confonde.
Rovesciando il paradigma della divinazione, Monica Andolfatto, Laura Nota e Roberto Reale – autori di “Aver cura del vero“, uscito nello scorso mese di Aprile per i tipi di “nuovadimensione” – trovano il coraggio necessario per riutilizzare la parola magica: “vero”, declinandola come una categoria culturale, una prassi professionale, un’attitudine politica, un obiettivo collettivo. E lo fanno raccontando un’esperienza originale di formazione e condivisione dei saperi. Come autentici illuministi, sanno fare tesoro dei dubbi e delle incertezze, perché è la ragione che le suggerisce e non più un’oscura divinità ancestrale.
Alle spalle del libro c’è stato, infatti, nell’Anno Accademico 2020-21, il corso di Alta Formazione “Raccontare la verità. Come informare promuovendo una società inclusiva”: un corso marcatamente interdisciplinare, al quale hanno contribuito docenti di economia, di psicologia, giornalisti, esperti di inclusione e di diritto internazionale. Organizzato dall’Università di Padova, della quale Laura Nota – già prorettrice – è ordinaria di Psicologia dell’orientamento e di Psicologia dell’inclusione, è stato un corso ambizioso e direi quasi visionario, al quale anche chi scrive ha immeritatamente partecipato con una piccola docenza: si perdoni, dunque, la partigianeria.
Viene in soccorso, a tal proposito, l’introduzione di Carlo Verdelli – già alla guida del quotidiano “la Repubblica” e delle news Rai, oggi direttore del settimanale “Oggi” – intitolata, manco a farlo apposta: “Il giornalismo è partigiano”. Vi si legge, tra le testimonianze personali dell’autore, che «il giornalismo è partigiano, non esiste per me un altro tipo di giornalismo intimamente onesto. Non significa rivendicare un’appartenenza politica ma essere limpidi con il lettore: ogni cosa che leggerai è frutto di un’interpretazione». E di interpretazioni, analisi e prospettive il nostro libro è davvero ricco.
Tutto parte da una presa di coscienza, maturata compiutamente durante l’esplosione epidemica del Covid-19: il frastuono mediatico, che qualcuno ha chiamato “infodemia”, ha reso indistinguibile troppo spesso il vero dal falso. Nebbia semantica e caos espositivo – nell’ecosistema rabbioso e aggressivo della società dello spettacolo – hanno via via reso inefficaci le strategie di debunking e di fact-checking, perché le fake-news, scrive Roberto Reale, «sfruttano i pregiudizi delle persone, circolano molto più velocemente delle correzioni e tendono a persistere più a lungo in rete». Ma nella realtà del nostro tempo tutto è inter-connesso: i mali di un settore della società non sono slegati da tutto il resto; i limiti nell’esercizio di un diritto si riflettono sul godimento di tutti gli altri. Le distorsioni sono fecondi brodi di coltura di altre distorsioni. Il problema più grande – questo è emerso con forza durante il corso padovano – non è di ordine epistemologico: la disinformazione è un problema di ordine eminentemente politico.
Leggendolo appare chiaramente: man mano che le criticità si accumulavano e i problemi venivano sviscerati analiticamente, gli ideatori, gli organizzatori e i partecipanti al corso hanno sempre più convintamente scelto la via della costruzione, l’ottimismo della volontà. Monica Andolfatto, giornalista del Gazzettino e Segretaria del sindacato dei giornalisti del Veneto, lo spiega chiaramente: «agire contro le fake-news significa stimolare il pensiero critico (…) solo un’educazione critica all’uso dei media e al lavoro nei media può essere un antidoto efficace alla disinformazione». In questa prospettiva quello che poteva sembrare un azzardo o una scommessa temeraria si è rivelato come un successo: su 47 iscritti (paganti!), 41 professionisti del sistema dei media hanno sostenuto la prova finale. Trattandosi di giornalisti, che molto spesso indossano assai poco umilmente la veste del “tuttologo”, è quasi un miracolo: parola di giornalista.
Dal libro si evince un fenomeno promettente: quello che è nato a Padova è un “laboratorio” animato e abitato da professionisti che “co-costruiscono” (la definizione è di Laura Nota) «una vision alternativa», ragionando sui problemi, confrontandosi con gli esperti, mettendo in comune le proprie esperienze. Tutti i temi e le criticità del sistema dell’informazione vengono passati al vaglio. Emerge con chiarezza il legame tra qualità del lavoro e qualità del prodotto, l’informazione. Spicca, tra i problemi più comuni e brucianti, quello della precarietà, che impedisce – negando la dignità stessa al lavoro – di rispettare i criteri essenziali di una buona attività professionale: la riflessività e l’accuratezza, su tutti, che costituiscono non solo i caratteri essenziali delle buone prassi professionali, ma incarnano le garanzie indispensabili nei confronti del pubblico. Una precarietà, si diceva, che accomuna i lavoratori di ogni genere: «ormai tra un reparto di fabbrica e una redazione c’è poca differenza: diminuiscono gli operai così come i giornalisti, aumentano in maniera esponenziale i carichi di lavoro (…) e si viene licenziati con una mail: è toccato agli operai della GKN di Campi Bisenzio (Firenze), è toccato ai redattori del “Trentino” (Trento)».
Da questo intreccio di idee e consapevolezze sconsolate scaturisce la necessità di uscire dalla trappola, di superare i limiti che vanno posti sotto la lente dell’analisi.È ancora Laura Nota che scrive: «si vuole far superare l’idea che ciò che viviamo sia inevitabile, basato su leggi non modificabili di tipo economico; che le ingiustizie, le discriminazioni e le disuguaglianze siano una sorta di fatalità». E invece «non è scritto da nessuna parte che si debba continuare così: è possibile, tramite un processo cognitivo ed emotivo, riappropriarsi della propria umanità mettendo al centro la lotta alla sofferenza propria e altrui e anche del nostro ambiente». Un obiettivo ambizioso ma possibile: lo testimonia la trasformazione della forma mentis riscontrata tra i partecipanti: è ciò che emerge dalle risposte che i quarantuno hanno fornito ai questionari loro somministrati prima e dopo il corso. Accuratezza, inclusività del linguaggio e possibilità di avvicinare effettivamente la verità: sono temi e sensibilità usciti potenziati da questa esperienza. Ecco come l’ottimismo della volontà si traduce in progetto, quindi in un orizzonte esplicitamente politico, attivo e partecipato.
Tale orizzonte viene attualizzato dalla riflessione di Marco Mascia (uno degli autori, docente di Relazioni Internazionali all’Università di Padova, direttore del Centro Antonio Papisca), che spiega come quelli all’espressione e alla corretta informazione siano inclusi tra i diritti sanciti dalle tante Carte che costellano l’apparato giuridico delle Nazioni Unite. In particolare Mascia denuncia l’attacco rivolto contro il multilateralismo: una declinazione della perdita di libertà e dello slittamento verso forme autoritarie e verticistiche di governo che non può mancare di produrre danni anche nell’ambito della libertà d’informazione, con la conseguenza di indebolirne tutti gli operatori, giornalisti compresi.
Di tutto questo lavorìo, la morale – se mai è possibile desumerne una soltanto da un volume tanto denso – ce la offre ancora Roberto Reale, nel capitolo intitolato: “Dal tutti contro tutti a un sentire comune”. L’assunto è chiaro: siamo nell’epoca dell’individualismo più spinto, l’ “Era del singolo”, per citare un saggio di Francesca Rigotti uscito nel 2021; siamo nel “Secolo della solitudine”, altro titolo di Noreena Herz, del 2020. Ecco: traendo esempi e spunti dalla sue vaste letture, Reale prova ad azzardare una sintesi molto suggestiva. Quasi tutti i problemi emersi e affrontati durante il corso padovano sembrano collegati con il paradigma relazionale più malfunzionante della nostra epoca: l’eclissi dell’Altro dal nostro cielo individuale.Se si curasse questa distorsione, pare di capire, si riuscirebbe ad affrontare alla radice tutto il monumentale impaccio che avvelena scienze e coscienze, che confonde il falso col vero, che porta all’autocrazia, al complottismo più assurdo, infine persino alla dissoluzione dei diritti, tanto individuali e che collettivi. «Non sarà arrivato il momento – si chiede Roberto Reale – di chiederci quanto e quale spazio ci sia per un’informazione rivolta all’insieme della cittadinanza oggi, nell’era del singolo che stenta a vedersi parte di una comunità?».
Insomma: “Aver cura del vero” è un libro difficile. Ma è anche un libro “necessario”. Perché è davvero ora che si torni a ragionare sul ruolo sociale dell’informazione con onestà intellettuale, con sincerità e anche con l’indispensabile spregiudicatezza che si accompagna sempre a chi pone molto in alto l’asticella delle sfide che sceglie di affrontare. Alla faccia degl’incantesimi, degli antichi sacerdoti e dei misteri più arcani.
Monica Andolfatto, Laura Nota, Roberto Reale“Aver cura del vero.Come informare e far crescere una società inclusivaGiornalismo e ricerca: storia del Laboratorio Padova”Edito da: “nuovadimensione”, un marchio di Edicilo editore.PRIMA EDIZIONE: aprile 2022
Gli altri interventi inseriti nel volume sono di: Carlo Verdelli, Raffaele Lorusso, Maria Cristina Ginevra, Ilaria Di Maggio, Sara Santilli, Enrico Ferri, Giuseppe Giulietti, Marco Mascia, Carlo Bartoli, Salvatore Soresi, Mirco Tonin.
Foto in evidenza di Premio Morrione
Giovedì 16 dicembre, in occasione delle celebrazioni della Giornata Internazionale del Migrante 2021 (18 dicembre) l’OIM presenta a Roma il GLOBAL MIGRATION FILM FESTIVAL, iniziativa che quest’anno vede coinvolti più di 100 paesi in tutto il mondo.
Nel corso degli anni, il Global Migration Film Festival ha rappresentato un’occasione per presentare film e documentari che catturano le promesse e le sfide della migrazione, e i contributi che i migranti apportano alle loro nuove comunità.
L’obiettivo è quello di promuovere – attraverso il cinema – una discussione informata, approfondita e imparziale su uno dei più grandi fenomeni del nostro tempo.
Per saperne di più: https://www.iom.int/global-migration-film-festival
Quest’anno la serata si svolgerà a partire dalle 19.00 a Roma in via della Penitenza 34 presso il Centro Giovani Municipio I (Quartiere Trastevere).
Le proiezioni inizieranno alle ore 19:00, i cortometraggi saranno tutti in italiano.
L’ingresso è libero. È richiesto il super green pass.
Film in programmazione:
“Burner of ships” (20 min.)di Leonardo CampanerQuando i suoi genitori accolgono un giovane migrante nella loro casa di campagna, la quattordicenne Nausicaa si invaghisce del nuovo ospite.Guarda il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=SixAeUC9VjQ
“Palermo Sole Nero” (25 min.)di Joséphine JouannaisDennis e Ibra vivono a Palermo senza sapere per quanto tempo potranno restarci. Quando Ibra scompare, Dennis si mette a cercare il suo amico nella città sotto lo sguardo dei santi patroni.Guarda l’intervista con la regista: https://www.youtube.com/watch?v=sIpv3q3L5fc
“Ummi” (16 min.)di Niko AvgoustidiMohamed, un migrante di sei anni, si trova da solo in una spiaggia affollata dell’Egeo. Si nasconde dietro una roccia, osserva i turisti che fanno il bagno e aspetta il ritorno di sua madre. L’ha persa nel mare e ora ha bisogno di ritrovarla.Guarda il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=9eacGgdmAHE
“Sarà inoltre proiettata la presentazione del cortometraggio “Appunti sulla Migrazione” di Andrea Borgarello, un lavoro che – realizzato nell’ambito del progetto CinemArena – racconta storie di speranze, sogni rimasti tali, fallimenti e successi di chi vorrebbe partire verso l’Europa o di chi è tornato per ricostruirsi una vita nel proprio villaggio di origine nonostante le difficoltà.
Ospite sella serata sarà la giornalista Eleonora Camilli.
L’iniziativa è stata realizzata in collaborazione con il Med Film Festival, il festival dedicato alle cinematografie del Mediterraneo, e con il progetto CinemArena, iniziativa implementata dalla Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo e dall’OIM.
Su Open Migration
Quando l’8 agosto 1991 la nave Vlora apparve nel porto di Bari col suo enorme carico umano, l’Italia poteva dirsi un paese che conosceva poco il fenomeno dell’immigrazione.
Anche se già dalla prima metà degli anni ‘70 il saldo migratorio – la differenza tra partenze di emigranti e rientri o arrivi di nuovi immigrati – inizierà prima a calare e poi a diventare positivo (i 170.000 permessi di soggiorno validi nel 1973 raddoppiano nel 1982 e tra il 1988 e il 1990 superano stabilmente i 600 mila) politica, media e comunità scientifica raccontavano ancora un paese di emigranti e questa era la percezione generale.
L’arrivo della Vlora a Bari farà da detonatore a una nuova percezione che sostituirà la precedente, e seppure rappresenterà un caso limite pronto a pervadere l’immaginario collettivo fino ai nostri giorni, dal punto di vista storico non rappresenta neppure il primo caso di arrivo in massa di migranti nel nostro paese.
L’e-book di Open Migrantion A trent’anni dallo sbarco della Vlora. Breve viaggio nell’Italia che si è scoperta Paese di immigrazione vuole raccontare con occhio ormai storico quell’evento e quelli che seguirono. Un lavoro che raccoglie oltre 20 approfondimenti dalle due sponde dell’Adriatico, che vuole raccontare anche tutti i modelli, gli schemi e le risposte inaugurate allora e riproposti ancora oggi, a distanza di 3 decenni. Una lettura per raccontare l’Italia di allora e quella di oggi che, per usare le parole del curatore Tommaso Fusco, dovrebbe “soprattutto renderci impossibile parlare ancora di emergenza” quando affrontiamo il tema migrazione.
Per leggere l’e-book di Open Migration clicca qui.
Su moked
“Per ora tanti proclami, ma purtroppo fatti assai meno. Se nelle prossime settimane non ci saranno cambiamenti significativi sarà necessario intervenire in modo ancora più stringente. Per fare in modo che le cose cambino sul serio”. Triantafillos Loukarelis dirige dal 2019 l’Unar, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali della Presidenza del Consiglio. Tra gli osservati speciali spicca il mondo del calcio, spesso al centro delle cronache per episodi che ben poco hanno a che fare con la pratica agonistica e le buone pratiche del tifo. Questo primo scorcio di stagione ha confermato un trend allarmante. Loukarelis si dice preoccupato, ma anche intenzionato a dare battaglia.
Ululati, insulti razzisti, esaltazione del fascismo: un male antico che il calcio italiano non sembra riuscire a scrollarsi di dosso…Duole dirlo, ma davanti a queste manifestazioni non nuove la reazione delle squadre di Serie A non si sta rivelando all’altezza. Urgono correttivi urgenti. Prima di tutto serve che le società facciano rete, anche esprimendosi attraverso comunicati congiunti a prescindere da dove il singolo episodio accade e da quale tifoseria è coinvolta. È un tema sul quale stiamo cercando di stimolare la massima attenzione.
Quello del pallone è un fronte sul quale l’Unar è da tempo in prima linea.Sì, cerchiamo di farlo consapevolmente e responsabilmente. Una delle nostre battaglie è quella per la generalizzazione del daspo, di modo che chi lo riceve si veda precluso l’accesso a ogni stadio italiano. Se dovessero verificarsi altri episodi gravi stiamo valutando di rivolgere un appello ai calciatori: chiedendo loro, ad esempio, di farsi promotori dell’interruzione delle partite. So bene di entrare in un territorio difficile, con tanti interessi in gioco. È una sorta di extrema ratio, ma la sensazione è che si stia tirando un po’ troppo la corda.
Cosa pensa del caso del falconiere fascista della Lazio? E della reazione del club?La reazione è stata insufficiente. Sospendere non è una risposta adeguata ai fatti, di quel contratto andava fatta carta straccia. Il rischio altrimenti è di mandare messaggi ambigui. E di ambiguità qui ne abbiamo molta: le simpatie politiche del falconiere non saranno certo emerse nel momento in cui il video è diventato virale. Troppo facile e scontato condannare quando si apre un caso mediatico. D’altro canto registro con favore la mobilitazione di una parte non irrilevante della tifoseria organizzata che ha chiesto l’inasprimento delle misure. Il segno che la misura è colma e che a contrasto servono atti concreti.
Non è un problema che riguarda solo la Lazio.Certamente no. Parliamo di un problema diffuso che sporca l’immagine del calcio italiano e di riflesso quella di tutto il Paese. Mi vengono in mente alcune dichiarazioni di Osimhen, l’attaccante nigeriano del Napoli, sulle sue iniziali titubanze all’idea di trasferirsi in Italia. Proprio per una questione di razzismo. L’Italia, nell’immaginario comune, è una realtà razzista. Se non si capisce di per sé quanto ciò sia grave, poniamo la questione in altri termini. Gran parte della positiva influenza della forza lavoro straniera, e non sto parlando solo di pallone, guarderà per forza di cose altrove. E l’Italia sarà sempre più povera e arretrata.
Quale è, parlando di razzismo in Italia, la valutazione dell’Unar?Rispetto ad un tempo non così lontano il linguaggio d’odio istituzionale sui migranti appare più sfumato. Ma purtroppo nulla o comunque ben poco si sta facendo per far progredire la società verso livelli di coesistenza e reciproca comprensione accettabili. In questo clima non propizio si innesta un’estrema destra cui è stato dato troppo spazio e che oggi si è presa la scena con effetti devastanti che sono sotto gli occhi di tutti. Contro queste frange è necessario che si prendano misure decise e determinate.
Cosa pensa dell’ipotesi di scioglimento di Forza Nuova?Tutti i gruppi che hanno il fascismo come ragione di vita vanno sciolti: su questo non ritengo possibili compromessi. Ancora più urgente sarebbe togliere a questi movimenti le sedi, i luoghi fisici dove si incontrano. Ad esempio sfrattando CasaPound dall’edificio che occupa in spregio alla legge, ormai da molti anni, a pochi passi dalla stazione Termini. È un segnale che serve: lo Stato si riprenda i suoi spazi, ponendo fine ad abusi intollerabili.
Su quali campagne si sta concentrando l’Unar?Stiamo lavorando sulle grandi strategie che ci chiede l’Unione Europea e che ci aspettiamo siano adottate dal governo: l’integrazione di rom, sinti e caminanti; la promozione dei diritti e la tutela delle persone LGBT; l’impegno contro razzismo, xenofobia e intolleranza. In questo senso, centrale sarà l’impegno contro l’antisemitismo e per una formale adozione della definizione dell’Ihra.
La lotta all’antisemitismo è il tema di una specifica strategia europea di recente presentazione. Una svolta?Mi pare di sì. Finalmente si è superata una certa timidezza, per guardare in faccia il problema con serietà e pragmatismo. Importante anche che si sia dato un segnale di attenzione al futuro della vita ebraica in Europa, con specifici investimenti volti a sostenerla. È stato già detto tante volte, ma meglio ripetersi: senza ebrei, l’Europa non sarebbe più la stessa.
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