Di Francesca Spinelli su Internazionale
La morte di una persona è più grave se avviene in Spagna invece che in Marocco? E se invece avviene mezzo metro prima di varcare quel confine? Sono alcune delle domande sollevate dall’inchiesta Reconstructing the Melilla massacre, coordinata dalla redazione di giornalismo investigativo Lighthouse Reports e uscita lo scorso 29 novembre.
In collaborazione con alcune testate europee e con il sito d’informazione marocchino Enass, Lighthouse Reports ha ricostruito meticolosamente i fatti accaduti il 24 giugno 2022 nell’enclave spagnola in territorio marocchino.
Quel giorno di giugno, nel tentativo di entrare a Melilla per chiedere la protezione internazionale, centinaia di persone sono rimaste intrappolate tra uno spiegamento di agenti marocchini e le recinzioni oltre le quali erano schierati gli agenti spagnoli. Sotto una pioggia di lacrimogeni, manganellate e proiettili di gomma, sono morte nella calca almeno 37 persone. Di altre settantasette non si hanno più notizie. Chi era riuscito a superare la linea del confine è stato respinto. Nessuna assistenza medica è stata fornita ai feriti, nonostante la presenza di ambulanze da entrambi i lati della frontiera.
Nella regione non era la prima volta che si verificava una simile strage (non una “tragedia”, non un “incidente”, termini prediletti dalle autorità spagnole e da gran parte dei mezzi d’informazione locali). Il 6 febbraio 2014 circa duecento persone erano partite dalla costa marocchina per cercare di raggiungere a nuoto l’altra enclave spagnola nel nord del Marocco, Ceuta. La guardia civíl aveva risposto sparando lacrimogeni e proiettili di gomma e causando la morte di almeno 14 persone. Di tredici ne conosciamo il nome (Yves, Samba, Daouda, Armand, Luc, Roger Chimie, Larios, Youssouf, Ousmane, Keita, Jeannot, Oumarou, Blaise), una vittima è rimasta anonima. Ma i dispersi sono molti di più. È il “masacre del Tarajal”, dal nome di una spiaggia di Ceuta, commemorato ogni anno da una marcia per la dignità.
Quel giorno del 2014 gli spagnoli hanno imparato una lezione: e così nel giugno scorso a Melilla non si sono sporcati le mani, lasciando che gli agenti marocchini entrassero in territorio spagnolo per riprendere chi era riuscito a passare il confine. “Persone raccolte e gettate via come carcasse, persone con le mani legate dietro la schiena lasciate al sole a morire per le ferite riportate”, dice Daniel Howden, fondatore di Lighthouse Reports. “I vivi e i morti accatastati gli uni sugli altri”.
Dal primo giorno il ministro dell’interno spagnolo Fernando Grande-Marlaska ha dichiarato che non c’era stato “nessun morto sul suolo spagnolo”. Mentiva, come hanno sostenuto i sopravvissuti e come hanno dimostrato inchieste e rapporti, l’ultimo dei quali pubblicato da Amnesty international il 13 dicembre. Howden definisce Reconstructing the Melilla massacre un esempio di accountability journalism: per far sì che qualcuno in Spagna debba rendere conto di quello che è successo “abbiamo cercato di tracciare una linea di demarcazione netta lungo il confine per stabilire se le persone erano state schiacciate e picchiate a morte dal lato marocchino o da quello spagnolo”.
Tra le vittime c’era Anwar, 27 anni, che aveva lasciato il Sudan nella speranza di “migliorare le condizioni di vita” della sua famiglia, come ha raccontato sua nipote ad Amnesty international, e di aiutare la madre malata. Anwar è morto in territorio spagnolo.
Ma a prescindere dall’impatto politico che questa e altre inchieste avranno in Spagna, e a prescindere anche dalle gravissime responsabilità delle forze marocchine, Howden ci tiene a sottolineare una cosa: “Anwar è morto per colpa di un sistema creato a beneficio della Spagna. Il dispiegamento e le azioni delle forze marocchine di quel giorno sono il prodotto di negoziati con le autorità spagnole. I marocchini non hanno nessun interesse a impedire ai richiedenti asilo africani di entrare a Melilla. E la Spagna riceve fondi dall’Unione europea per finanziare le sue operazioni alla frontiera. Melilla è una frontiera europea, le persone cercano una protezione nell’Ue, quindi questa è una vicenda europea, indipendentemente dal fatto che le persone siano morte o meno un metro oltre quella che di fatto è una linea arbitraria” (nonché un retaggio del passato coloniale della Spagna, che rifiuta di restituire le due enclave al Marocco).
C’è un’altra bugia di Grande-Marlaska su cui occorre soffermarsi, perché riflette uno slittamento linguistico e politico preoccupante a livello europeo. Grande-Marlaska ha dichiarato a più riprese che a Melilla la guardia civíl si è dovuta difendere da un “attacco violento”, versione smentita da un rapportopubblicato già a luglio dall’Association marocaine des droits humains. Dopo la crisi al confine tra Polonia e Bielorussia nel 2021, i discorsi di governi e istituzioni europee sui migranti si sono ulteriormente induriti attraverso la scelta deliberata di presentarli come “assalitori”, manipolati o meno da stati terzi. Dopo i trafficanti e le ong, ora i governi europei includono tra i nemici da combattere anche i profughi, e non lo fanno solo a parole. Nella proposta di regolamento sulla fantomatica “strumentalizzazione della migrazione”, elaborata dopo la crisi con la Bielorussia, la migrazione è stata associata – per la prima volta in un testo legislativo – al termine “attacco”.
Se approvato, il regolamento permetterebbe di derogare al diritto d’asilo in determinate circostanze e questo, per riprendere il titolo di un comunicato firmato da oltre ottanta organizzazioni, sarebbe “il colpo di grazia per il sistema europeo comune di asilo”. L’8 dicembre i ministri dell’interno europei riuniti a Bruxelles non sono riusciti a trovare un accordo sulla proposta, che la presidenza ceca sperava di far approvare entro la fine dell’anno. In un commento, l’European council on refugees and exiles (Ecre) auspica che la proposta sia ritirata, ma dipenderà dalle priorità della Svezia, prossimo stato a esercitare la presidenza del consiglio.
Mentre “attacco” si fa strada nel lessico istituzionale, c’è una parola che non si troverà mai nei discorsi e nei testi ufficiali sulle politiche migratorie e d’asilo europee. Ma è la parola che collega l’uccisione di Anwar al regolamento sulla strumentalizzazione, le bugie di Grande-Marlaska ai centri di detenzione segreti in Bulgaria, Croazia e Ungheria al centro dell’ultima inchiesta coordinata da Lighthouse Reports (in Italia è uscita su Domani). È la parola razzismo.
Come osserva la rete Picum (Platform for cooperation on undocumented people), l’impegno espresso dall’Unione europea attraverso il suo Piano di azione contro il razzismo, lanciato nel 2020, si ferma dove cominciano le sue politiche migratorie e d’asilo. I controlli esercitati sulla circolazione delle persone, spiega il ricercatore Luke de Noronha, citato nell’analisi di Picum, infatti “producono e riconfigurano distinzioni e gerarchie razziali (anche se non formulate in termini razziali)”. In un recente commento pubblicato su OpenDemocracy, la ricercatrice Iriann Freemantle parla di “terrorismo razziale contemporaneo, volto a dissuadere i migranti non solo dal muoversi fisicamente, ma anche dal desiderare una vita migliore”.
Se le sue radici affondano nel passato coloniale europeo, il razzismo che oggi si esprime nella violenza con cui l’Ue tratta persone originarie di alcuni paesi va inquadrato nel suo contesto storico. Secondo il ricercatore Fabian Georgi, “l’attuale recrudescenza del razzismo in Europa può essere interpretata come una controreazione a una serie di sconfitte politiche” subite dalla destra conservatrice. La prima è la diversificazione delle società europee “sul piano etnico e culturale” rispetto agli anni novanta, diversificazione che è andata di pari passo con l’affermarsi delle lotte antirazziste e la messa al bando quasi unanime del razzismo “vecchio stile e diretto” degli anni ottanta. La seconda sconfitta è stata la scelta – vissuta come un tradimento dalla destra – di alcuni attori neoliberali di promuovere “una retorica nuova e meritocratica sulla diversità e il multiculturalismo, sottolineando i benefici economici e altri effetti positivi legati alla migrazione”.
La “lunga estate della migrazione”, come alcuni studiosi chiamano la “crisi dei rifugiati” del 2015, ha accelerato questa controreazione e oggi, in un contesto di crisi sociale ed economica, una parte sempre più ampia della popolazione europea si riconosce nei programmi populisti della destra e dell’estrema destra, in cui s’intersecano razzismo, autoritarismo e nazionalismo ultraconservatore.
Eppure, diversamente da quanto succede negli Stati Uniti, “in Europa parlare di razza e di uguaglianza spesso è considerato inopportuno”, osserva Howden. A molti europei non piace ammetterlo, ma se a Melilla le persone sono picchiate e uccise “e le loro storie ricevono così poca attenzione è per via della loro provenienza e del colore della loro pelle”. Se il diritto d’asilo cade a pezzi e il rispetto dei diritti fondamentali è diventato facoltativo agli occhi di gran parte dei governi europei, è perché molti di quei leader si considerano superiori ad Anwar. E ora che i profughi hanno la pelle più scura considerano superato un quadro giuridico nato per proteggere dei profughi bianchi nel secondo dopoguerra.
Il 14 dicembre, in un’intervista al settimanale belga Knack, la ministra dell’ambiente delle Fiandre, Zuhal Demir, ha messo sullo stesso piano richiedenti asilo e suini, dichiarando che nelle Fiandre non c’è posto né per i primi né per i secondi. Da mesi il suo partito, la formazione nazionalista N-Va, si contende il primo posto nei sondaggi con il partito di estrema Vlaams Belang. Insieme raccolgono quasi il 48 per cento delle preferenze nelle Fiandre.
È un esempio tra tanti dello sdoganamento di discorsi, pratiche e politiche razziste in tutta l’Unione europea. Ma i movimenti di denuncia si moltiplicano e sempre più spesso si alleano su scala transnazionale, come dimostra la campagna “Unfair. The Un refusal agency”, che il 9 e il 10 dicembre ha portato fino a Ginevra le rivendicazioni di chi è intrappolato in Libia e negli altri paesi ai quali l’Ue appalta le sue politiche di respingimento. Alle persone presenti alla conferenza stampa, David Yambio, portavoce di Refugees in Libya, si è rivolto con queste parole: “Siamo pieni di storie da raccontare, pieni di incubi da scrollare via dai nostri corpi. Ma voi, siete pronti ad accoglierli? Siete pronti a lottare per un mondo migliore?”.
Foto in evidenza Javier Bernardo, Ap/LaPresse (su Internazionale)
Di Fulvio Fulvi su Avvenire.it
«Non voglio farmi visitare da un medico negro…». Di solito, gli insulti razzisti cominciano così. E spesso degenerano in pesanti aggressioni verbali se non peggio. Come nel caso capitato il 14 novembre scorso a Enock Rodrigue Emvolo, originario del Camerun, appena nominato titolare di un ambulatorio a Fagnano Olona, nel Varesotto. Le offese dai suoi nuovi “pazienti”, il dottor Emvolo, 48 anni, laureato alla Sapienza di Roma, le ha ricevute per iscritto, e a raffica, sui social: «Torna a pascolare le pecore», è una delle più leggere. «Sono venuto qui per curare – è stata la sua risposta – ma se la situazione è così grave andrò altrove». Poi, però, a seguito dell’ondata di solidarietà che ne è seguita, ha deciso di rimanere al suo posto di medico di base. Non tutti però reagiscono alla stesso modo. E cresce il numero dei sanitari che, mortificati dalle offese subite, se ne vanno dall’Italia.
«Negli ultimi cinque anni, più di 300 professionisti della salute stranieri hanno lasciato l’Italia per colpa dei pregiudizi sul colore della pelle, l’abito e l’origine – denuncia Foad Aodi, presidente dell’Amsi (Associazione medici stranieri in Italia) – e nonostante la grave mancanza di personale sanitario esistente nel Paese». In effetti, in questo campo, le discriminazioni razziali negli ultimi tempi sembrano molto più frequenti. Ne sa qualcosa anche il dottor Andi ‘Nganso, 30 anni, originario del Camerun, due lauree, tra cui quella in medicina conseguita all’università dell’Insubria, che è stato bersaglio di improperi razzisti per due volte: nel gennaio del 2018 quando era in servizio alla Guardia medica di Cantù (Como) e una donna appena l’ha visto in camice bianco è uscita sbattendo la porta e dicendo: «Io da lei non mi faccio toccare»; e tre mesi fa nel pronto soccorso di Lignano (Udine), dove un 60enne lo ha minacciato: «Fermo, mi attacchi le malattie, preferisco due costole rotte anziché essere curato da un negro come te».E non finisce qui. Aodi riferisce di dottoresse dello Yemen e di otto ginecologhe somale che se ne sono andate a lavorare in Francia, Olanda e Belgio perché discriminate in Italia a causa del velo o della pelle scura. «Ma episodi hanno riguardato anche medici e infermieri africani, musulmani, ucraini, russi, albanesi e rumeni – aggiunge il presidente Amsi – per la lingua o la religione e ci sono state persino molestie sessuali».
«Il razzismo contro i neri in camici bianchi sta diventando preoccupante, non riguarda solo i medici e, purtroppo, è strutturale» commenta Kossi Komla-Ebri, medico e scrittore originario del Togo, esponente della letteratura migrante in lingua italiana. «Non siamo di fronte a “casi isolati di qualche stupido” – spiega – ma di fronte a un persistente problema culturale del rifiuto del diverso, che non possiamo più liquidare con semplici frasi di circostanza». Gli atti di razzismo, piccoli o eclatanti fanno parte della vita dei cittadini neri in Italia. «Noi medici neri e gli afrodiscendenti – prosegue Komla-Ebri – viviamo l’afrofobia nel quotidiano, perché il “nero” in questo nostro Paese è la personificazione del diverso, dello straniero che l’immaginario collettivo relega nel soliti ruoli di “vu cumprà”, spacciatori e criminali o poveracci alle cui cure nessuno si affiderebbe per una diffidenza sistematica che parte dallo sguardo arrivando talvolta alla sfiducia e al rifiuto». Cosa fare, allora? «Se un paziente mi rifiuta solo perché sono nero, io lo denuncio e dovremmo farlo tutti». «Ma l’Italia non è un Paese razzista – sostiene il presidente Amsi –, il razzismo semmai è figlio dell’ignoranza e delle strumentalizzazioni politiche». Aodi, che è anche membro della Commissione Salute Globale della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, ha chiesto un incontro urgente con il ministro della Salute, Orazio Schillaci per valutare iniziative concrete «per garantire tutti i professionisti della sanità di origine straniera e combattere le discriminazioni». Ma anche per sollecitare provvedimenti che consentano ai medici non italiani di partecipare a concorsi pubblici.
Su CHAMPS. Get Under My Skin! Uniti contro l’afrofobia
Il primo incontro di WE ARE: ACT – REBUILD – EVOLVE coordinato da Amref Health Africa Onlus Italia alla Fabbrica del Vapore Milano si è articolato sul tema dell’Afrofobia e del ruolo dei giovani e delle donne quali protagonisti del cambiamento verso una società più equa, inclusiva e non razzista.
GET UNDER MY SKIN! – Storie di attivismo e alleanze contro l’afrofobia: un pomeriggio intenso di voci ed esperienze introdotte da Danielle Madam, campionessa di lancio del peso e ambassador Amref, che attraverso la sua storia ha aperto il dialogo sul tema della consapevolezza verso il razzismo, il silenzio, la discriminazione che avvolgono la nostra società.
Numeri impressionanti emergono infatti dal rapporto “Being black in the EU” (FRA/EU, 2018), secondo il quale il 39% delle persone di origine africana si è sentito discriminato e ha sperimentato tra i più alti livelli di esclusione socio-economica, stereotipi negativi e atti di violenza e incitamento all’odio (PAD Week – maggio 2018). Sempre secondo il rapporto, la discriminazione è particolarmente evidente in Italia, dove si segnalano rappresentazioni spesso negative degli afrodiscendenti nei media, nei curricula scolastici e nei materiali didattici.
Il Progetto CHAMPS, finanziato dall’Unione Europea, ha lo scopo di diffondere informazioni corrette sul razzismo in Italia al fine di emarginare le forme di afrofobia e razzismo anti nero.
Nel corso dell’incontro, moderato dalla giornalista Sabika Shah Povia e da Charaf El Bouhali, si sono alternati momenti di convisione di storie, divulgazione di dati e di approfondimento su attività attuate a livello nazionale pensando per il beneficio collettivo futuro: maggiori momenti di condivisione, normalizzazione della figura degli afrodiscendenti, un modo nuovo e positivo di raccontare l’Africa.
Tra gli strumenti chiave ideati, sono stati presentati da Giulia Frova (Razzismo Brutta Storia) e da Ronke Oluwadare i Toolkit, strumenti online pensati per condividere spunti teorici e proposte pratiche per arginare il fenomeno del razzismo negli ambiti della scuola, della sanità, dei media, negli ambiti legali e artistici.
Valeria Bochi (CSVNet) ha raccontato come il volontariato possa essere un fattore di supporto per l’informazione, presentado un percorso di formazione a distanza per gli adulti, grazie ad una piattaforma formativa articolata in moduli teorici che affrontano diversi ambiti settoriali. Oggigiorno il 9% della popolazione italiana adulta sceglie di impiegare il tempo libero a favore di opere di volontariato all’interno della propria comunità.
Attualmente il progetto di autoformazione conta 187 iscritti volontari, aderendi a 52 associazioni italiane.
L’iniziativa ha lo scopo di giungere anche ad un’azione concreta e tangibile, tramite un modulo finale operativo con lo scopo di realizzare azioni di ricaduta immediata sui territorii.
L’afrofobia si affronta unendo le energie e le risorse, il tema del partenariato – raccontato da Mehret Tewolde Weldemicael (Le Réseau) – mette in risalto come le alleanze siano importanti e strategiche per amplificare la risonanza, introducendo così il gruppo degli AFAR (Afrodescendants Fighting Against Racism), che tramite video, podcast e blog raccontano in chiave digitale una visione complessa perché composta da un coro di voci polifoniche che descrivono un unico concetto, la lotta contro il razzismo, come hanno raccontato con straordinaria energia anche Murphy Tomadin e Denise Kongo (AFAR) .
Il progetto si fa portavoce degli afrodiscendenti e chiede al ricevente la “dote dell’ascolto attivo” superando gli stereotipi e riconoscendo il gruppo degli AFAR come professionisti.
Per analizzare nel suo complesso la piaga del razzismo in Italia, Paola Barretta (Osservatorio di Pavia) ha presentato il dossier “Lo sguardo tagliente” nel quale attravereso lo studio di sei focus group si è potuto analizzare il fenomeno del razzismo sistemico. IL DOSSIER • Stop afrofobia! (stop-afrofobia.org)
Ha concluso la prima parte Renata Torrente (Amref Health Africa Onlus) ricordando che Amref è un’organizzazione impegnata nel costruire una comunità dove le persone sono al centro e dove è fondamentale fare “rete” per cambiare ed essere più coscienti.
Cortometraggio “Il Moro” di Daphne Di Cinto e con Alberto Boubakar Malanchino
Il cortometraggio è una lettera d’amore della regista verso la comunità nera italiana e quella afro europea e racconta la storia Alessandro de’ Medici, figlio illegittimo di Lorenzo de’ Medici e nome poco noto nella cultura storica e artistica italiana.
Nella seconda parte del pomeriggio, l’attenzione si è spostata sulle persone, dedicando monologhi liberi che avevano come un unico comune denominatore quello di scegliere una parola che rappresenti il tema di “ripartenza” del linguaggio attorno ai fenomeni dell’afrofobia e del razzismo.
A turno si sono alternate sul palco diverse voci femminili che si sono aperte al pubblico raccontando esperienze e ideali partendo da concetti chiave come: privilegio, decolonnizzazione, attivismo giovanile, autodeterminazione femminile e fra-intendimento.
L’incontro si è concluso con lo spettacolo teatrale “Ho sognato il mare”, prodotto da Festival DiverCity / Emmanuel Edson. La rappresentazione artistica, introdotta da Andi Nganso, parla tramite la musica e le voci di fragilizzazione dei corpi neri.
Coltivare alleanze consapevoli per contrastare il razzismo anti-nero e contribuire a decostruire gli atteggiamenti e i linguaggi discriminatori nei confronti delle persone di provenienza africana grazie al ruolo attivo delle associazioni di afrodiscendenti. È stato questo l’obiettivo dell’evento pubblico “Get Under My Skin! Per un’alleanza contro l’afrofobia”, organizzato da CHAMPS, dal partenariato che vede capofila Amref Health Africa Onlus Italia con CSVnet, Divercity APS, Le Réseau, Osservatorio di Pavia, Razzismo brutta Storia in collaborazione con Arising Africans, CSV Marche e Carta di Roma.
L’incontro si è aperto con i saluti istituzionali di Michaela Moua, Coordinatrice della Commissione Europea per la lotta al razzismo: “Nel 2020, dopo l’episodio dell’uccisione di George Floyd negli Stati Uniti, abbiamo capito che la legislazione europea doveva necessariamente essere rivista. Nel nostro Piano d’azione contro il razzismo è contenuto il termine afrofobia; un termine che non ha un consenso generale circa la sua esatta definizione, ma che può essere definito come qualsiasi atto di violenza, odio e abuso storico che porta alla de-umanizzazione delle persone afrodiscendenti. Il razzismo strutturale può essere visibile e riconoscibile condividendo e diffondendo i pattern discriminatori nei vari Paesi, ma questo non basta. è necessaria l’applicazione di sanzioni che puniscano questi atti discriminatori per proteggere i gruppi vulnerabili, ma ancor prima è importante che vengano capiti quali diritti vengono violati e perché”. – afferma Michaela Moua.
Il primo panel della mattinata si è aperto con le parole di Mehret Tewolde Weldemicael, dell’Associazione Le Réseau, che ha introdotto il primo dibattito “Narrazioni su Africa e afrofobia: quali interconnessioni” chiedendo di avere “consapevolezza delle proprie azioni e di quelle degli altri, intervenendo senza compassione o pietismo, ma agendo con consapevolezza e presa di coscienza davanti a episodi di odio razziale”. “Il razzismo c’è, esiste” – continua Mehret Tewolde Weldemicael “ma non ammettendolo, come possiamo andare oltre?”
La prima voce del dibattito è stata quella di Ada Ugo Abara, Presidente Arising Africans e Founder&CEO D-Tech 4 Good, che ha posto il focus sull’importanza di conoscere la propria storia e le proprie radici per difendere i propri diritti: “Quando parliamo di alleanze, non basta essere neri per poter parlare dell’Africa, come non basta essere di sinistra per essere definiti anti-razzisti. Come noi che viviamo il fenomeno sulla nostra pelle, allo stesso modo una persona che vuole definirsi nostra alleata in questa battaglia deve impegnarsi nello stesso percorso di studio e lottare contro narrazioni marginalizzanti. Questo percorso ha tre pilastri: lo studio, l’intenzionalità e la capacità di mettersi in dubbio”.
E di narrazioni marginalizzati ne ha parlato anche Elizabeth Ntonjira, Direttrice della Comunicazione di Amref, con una riflessione sul ruolo imprescindibile della comunicazione per la rappresentanza di storie di innovazione e di empowerment di cui l’Africa è ricca, ma che purtroppo non vengono mai raccontate.
Una narrazione errata che prosegue da centinaia di anni, come spiega il giornalista e scrittore Filomeno Lopes: “Il continente africano è entrato nei libri di storia con il colonialismo. Ciò che non è diventato storia, invece, è il popolo africano. Per arrivare alla vera indipendenza e dare voce al popolo, è necessario che l’Unione Africana arrivi a difendere la sua gente fuori dai confini, altrimenti nessun nero sarà protetto”.
“La narrazione che viene proposta mostra l’Africa come un continente senza storia” – conclude Sara Kamsu, giornalista e ideatrice di @weafricansunited “Nella nostra piattaforma raccontiamo la parte di storia in cui gli africani sono stati attivi, nonostante schiavitù e colonizzazione. Il nostro motto è “Scriviamo la storia, facciamo la storia” perché è importante conoscere il proprio passato ma non significa rimanervi ancorati, anzi, vuol dire ritrovare e riconoscere la grandezza dei nostri antenati per costruire un mondo migliore per noi”.
A seguire, lo speech di Marie Paule Essonmala N’Guessan, Project Manager nel Terzo Settore e Coordinatrice ECCAR, AFAR, ha sottolineato l’importanza della rappresentanza delle persone nere nei vari contesti di vita, come in quello lavorativo, proprio per dare – specialmente ai più piccoli – un chiaro segnale della possibilità di qualsiasi comunità di poter ricoprire qualsiasi ruolo nella società.
In occasione dell’evento, sono stati presentati i risultati della prima indagine in Italia dedicata alla percezione dell’afrofobia dal titolo “Sguardo Tagliente – Conoscenza, consapevolezza e percezione dell’afrofobia e del razzismo sistemico nei settori di sanità, istruzione e comunicazione“ e curata da Paola Barretta e Giuseppe Milazzo, ricercatori dell’Osservatorio di Pavia.
L’indagine – condotta attraverso 6 distinti focus group formati da 60 persone tra soggetti bianchi, africani e afrodiscendenti appartenenti ai settori della sanità, dell’istruzione e della comunicazione – ha messo in luce come le persone Nere siano più inclini a percepire il razzismo come sistemico rispetto a una dimensione individuale. “Accettare che il razzismo è un sistema di potere, significa riconoscere innanzitutto che esso esiste non come fantasia nella mente deviata del razzista, ma come elemento che struttura la nostra società” – si legge nella ricerca. In altre parole, il razzismo si configura come una norma silenziosa, e naturalizzata all’interno delle relazioni sociali.
Attraverso l’indagine è stato possibile analizzare le caratteristiche del linguaggio adoperato dai partecipanti ai focus group. Per l’80% degli intervistati il termine afrofobia sia fuorviante e limitante. Dal punto di vista terminologico il termine più adoperato da africani e afrodiscendenti per riferirsi all’afrofobia è razzismo, termine che ricorre con una frequenza doppia rispetto ai focus con i bianchi che preferiscono usare termini meno stigmatizzanti e forse autoassolventi come stereotipo, pregiudizio, diffidenza. Considerando invece il colore della pelle, i bianchi hanno nominato 88 volte in meno dei neri lemmi come colore, pelle, bianco e nero.
Per cercare di sradicare i fenomeni afrofobici tutti i partecipanti al focus pensano sia necessario rafforzare la conoscenza su questi temi e proporre percorsi di formazione interculturale e sul razzismo all’interno dei diversi settori lavorativi ed educativi.
I dati del dossier sono stati il punto di partenza della riflessione degli ospiti dell’evento e del gruppo AFAR – Afro descendant Fighting Against Racism che hanno proposto con uno sguardo intergenerazionale e intercontinentale il loro punto di vista alternativo per contrastare il razzismo.
“È ora di cacciare il razzismo dalla nostra società denunciare le aggressioni sia fisiche che verbali e, nello stesso tempo, attivarsi per ricucire gli strappi che genera l’odio.” afferma Paola Crestani, Presidente di Amref Health Africa– Italia. “Abbiamo bisogno di piazze – grandi e piccole – che si uniscano e si riempiano di sentinelle e non solo di sentinelle afrodiscenti, ma di tutti coloro che reclamano quella normalità, contro il razzismo. Abbiamo di organi d’informazione che non rafforzino stereotipi, forieri solo di paure. Abbiamo bisogno di tutti, per portare la nostra società fuori dalla barbarie dell’odio anti-nero di ogni forma d’odio inoltre è fondamentale ribadire ai decisori politici l’urgenza di una legge sul diritto di cittadinanza”
Durante il panel, è intervenuta anche Cinzia Adanna Ebonine, educatrice, formatrice, psicologa in formazione e parte del gruppo AFAR, parlando del razzismo insito nelle scuole italiane e del ruolo fondamentale del docente quale change maker. È proprio la scuola, infatti, il primo luogo sociale in cui si deve fare il possibile affinché il cambiamento avvenga. “Non ricordo mai di aver studiato la storia del mio continente in un contesto di non subalternità. Solo quando laureata mi sono chiesta se questa fosse la mia vera identità- afferma Cinzia Adanna Ebonine. “Mi piacerebbe che gli insegnanti un giorno possano insegnare la storia delle origini di tutti gli studenti”.
“Dal rapporto emerge la necessità delle persone nere di dover raccontare la loro storia, non accettare di buon grado la narrazione dei bianchi” afferma Triantafillos Loukarelis, Presidente Comitato Direttivo dell’Antidiscriminazione, la Diversità e l’Inclusione (CDADI), già Direttore Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR). “Il dossier ci dà un quadro di quello che è la prima discriminazione, lo sguardo, il modo per eccellenza per mantenere la distanza. Ma ci mostra ancora tanti stereotipi ancora in vita, come l’iper-sessualizzazione del corpo femminile, o sentimenti di pietismo e paura. Risulta necessario istituire in Italia un’autorità indipendente per i diritti umani, ma ancor prima dobbiamo riconoscere gli errori commessi nel nostro passato colonialista”
È intervenuto nel dibattito anche Roberto Natale, Direttore Rai per la Sostenibilità – ESG, ricordando due date cardine per far comprendere con quanta fatica avvengono certi passi in avanti, ricordando l’apertura della prima sede di corrispondenza in Africa nel 2006 – ne esisteva solo una a Il Cairo – e la nascita della Carta di Roma nel 2008. “Vogliamo impegnarci nel parlare di questioni sociali e continueremo a farlo. Per noi il servizio pubblico significa diritti, inclusione, interazione. Specialmente dopo il grave errore commesso per l’imitazione irrispettosa del cantante Ghali, siamo convinti che serva una figura all’interno del sistema Rai che possa assicurare spazio, diritti e rappresentanza delle persone nere all’interno del servizio pubblico” – afferma Roberto Natale.
Sul tema della comunicazione si è espressa anche l’attrice Tezeta Abraham, “Per quanto le cose stiano cambiando, bisogna impegnarsi molto di più. Dobbiamo riconoscere gli errori del passato colonialista dell’Italia e capire l’opportunità e la ricchezza che rappresentano le comunità africane nel nostro Paese.
Noi neri dobbiamo collaborare con i professionisti di questo Paese, ma abbiamo bisogno anche di un nostro spazio, non solo di essere raccontati”.
La mattinata prosegue con lo speech di Benedicta Djumpah, attivista antirazzista e Student Life Coordinator (Temple Rome University), AFAR: “Il razzismo non è un singolo episodio di una persona ignorante, ma è inglobato nella nostra cultura. La scuola è la prima istituzione che si deve fare carico della responsabilizzazione circa il linguaggio e l’informazione sulla cultura africana”. Aggiunge inoltre: “Non siamo persone da salvare, siamo persona da ascoltare. La responsabilità all’accesso e all’ascolto delle nostre storie sta alla collettività”
A conclusione dell’evento è stato presentato Verso un Manifesto, una carta di posizionamento sull’afrofobia e il razzismo antinero che vuole rimanere aperta in termini di adesione e di evoluzione dei contenuti, a tutte le persone impegnate o che intendono impegnarsi in un percorso comune di contrasto al razzismo. Per farlo CHAMPS si impegna a favorire la raccolta ed elaborazione di dati quantitativi, sviluppare e promuovere luoghi di apprendimento, di formazione e di costruzione di comunità, porre al centro della narrazione e la voce delle persone razzializzate e diffondere un’informazione corretta e accurata attraverso il coinvolgimento delle voci dirette. Si cercherà anche di moltiplicare gli spazi pubblici di confronto, di scambio e di visibilità a livello nazionale e internazionale per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni e aumentare la consapevolezza rispetto all’afrofobia e al razzismo antinero attraverso anche forme di affirmative actions e azioni positive.
Di Fabrizio Gatti su Today
Gli italiani neri – cioè i cittadini che vivono, lavorano e pagano le tasse in Italia, ma hanno un colore della pelle diverso da quello della maggioranza della popolazione – incontrano molte più difficoltà nella vita di tutti i giorni, rispetto ai connazionali bianchi. Nemmeno il possesso del passaporto tricolore li protegge da pregiudizi e discriminazioni: soprattutto se hanno studiato e oggi sono, uomini e donne, medici, infermieri, maestri, educatori, smentendo così il luogo comune che li vorrebbe soltanto braccianti sfruttati, irregolari o addirittura criminali. In un Paese come l’Italia che considera il razzismo un fatto isolato, la pelle non dovrebbe avere alcuna influenza. Nessuno infatti giudicherebbe o rifiuterebbe una persona in base al colore degli occhi o dei capelli. Invece è esattamente quello che accade.
La questione riguarda oltre un milione di residenti, con cittadinanza italiana o permesso di soggiorno. Un’indagine, coordinata dall’organizzazione internazionale Amref Health Africa e curata dai ricercatori Paola Barretta e Giuseppe Milazzo dell’Osservatorio di Pavia, ha analizzato il fenomeno, raccogliendo interviste nel mondo della sanità, della scuola e della comunicazione. I risultati descrivono una nazione che, come altri Stati europei, deve ancora crescere nel suo rapporto con la realtà e con il suo passato coloniale.
“Il razzismo – osservano i ricercatori, dopo aver studiato decine di segnalazioni – è spesso associato a fatti episodici, dettati da inclinazioni politiche o difficoltà psicologiche individuali, ma è assente un’analisi rispetto alle cause strutturali”. Mentre il confronto si consuma tra sedute parlamentari e dibattiti televisivi, secondo lo studio, la frattura nella società si allarga: da una parte il mito degli italiani brava gente, dall’altro i connazionali con un diverso colore della pelle – magari italiani da più generazioni – costretti a sopportare e a testimoniare quello che i ricercatori chiamano “razzismo all’italiana”: “Un quadro incompleto e distorto, che non permette di comprendere le ragioni sottostanti i fenomeni che osserviamo nella realtà e che porta, inevitabilmente, dolore e lacerazione”.
I casi di questa discriminazione silenziosa abbondano. È di pochi giorni fa la notizia degli insulti sui social, a Fagnano Olona in provincia di Varese, che hanno costretto un medico del paese, Enock Rodrigue Emvolo, 48 anni, a chiedere il trasferimento. Motivo degli attacchi la circostanza che il dottor Emvolo, arrivato da poco a Fagnano, è nero e originario del Camerun, anche se si è laureato in Medicina in Italia e si sta specializzando in chirurgia di emergenza all’ospedale di Varese.
Mettere un medico nelle condizioni di cambiare sede, con la grande insufficienza di personale sanitario, è tra l’altro un incredibile autogol. Ma la maggior parte dei casi rimane sconosciuta. A volta è una questione di occhiate: “Si nota un po’ lo sguardo – racconta un’infermiera – , o la diffidenza che le persone hanno inizialmente al primo impatto, o magari quando si ritrovano in un letto di ospedale, in rianimazione e si trovano davanti una infermiera nera: un po’ si vede lo shock”. Succede anche dal farmacista: “Io in farmacia mi rendo conto proprio dallo sguardo: cioè sono quasi sorpresi di vedere una persona nera con un camice bianco”.
Nemmeno la scuola viene risparmiata: “Ho questa ansia di vedermi guardata come un extraterrestre – rivela un’insegnante – come una persona che è al posto sbagliato. Non ho la paura che qualcuno mi aggredisca fisicamente, ma l’umiliazione: io ho paura di essere umiliata come nera e questa paura mi segue sempre”. I neri, secondo la ricerca, vengono considerati senza alcuna ragione anche potenziali ladri: “Varie volte le persone, quando io cammino sul marciapiede – dice un educatore – si coprono la borsa con la mano o cambiano lato della borsa o si assicurano di aver chiuso la macchina… mi capitano spesso queste cose e, secondo me, l’inasprimento del razzismo è proprio perché è andato peggiorando”.
Quando poi in classe si insegna storia, le contraddizioni vengono al pettine: “Una cosa che io vorrei tantissimo che qualcuno si preoccupasse di scardinare – auspica una mediatrice culturale – è l’insegnamento della storia. Quando si arriva a un certo punto, ovvero le campagne italiane in Africa, tutto questo viene dipinto come la conquista, la vittoria… poi però nessuno parla di quelle popolazioni che sono state colonizzate. In Italia c’è stata una battuta d’arresto pazzesca da questo punto di vista. Il colonialismo in Africa, il fascismo in Africa, non se ne parla, non vengono trasmessi film, se non alcuni tipi di film che rievocano la vittoria e le gesta brillanti degli italiani. Però non si parla dei retaggi che noi ci portiamo dietro, di cosa ne è stato appunto delle donne e degli uomini che hanno subito il colonialismo o anche per esempio di che cosa è stato il madamato, il meticciato, i figli appunto di quella componente coloniale. Questo, secondo me, è uno dei grandi elementi che sono alla base dell’estrema ignoranza italiana”.
Ricorda un medico: “Ero di guardia, sono andato in una casa e appena arrivato, ho suonato, ha aperto: ero io, di colore. Io non ho niente da comprare [dice il paziente alla porta] alle due di notte e io ho detto: guarda, non sono un vucumprà, io sono un medico”. E il paziente: “Non ti voglio, non ti voglio. Allora – continua il medico – io sono ritornato in sede, lui ha richiamato ancora in sede, ho preso la telefonata e poi sono andato lì e lui nel frattempo aveva chiamato i carabinieri dicendo: c’è uno di colore che realmente non so che cosa sta facendo in questo quartiere”.
Perfino in attesa del parto, denuncia la ricerca, capita che le mamme chiedano di essere assistite da bianchi: “Mi guarda e mi fa: adesso mi chiami l’ostetrica. Io gli ho detto: guardi signora che sono io l’ostetrica. Sorride, tra una contrazione e l’altra, e mi fa: sì, ho capito tu chi sei, ti prego adesso devo proprio spingere. Chiamami l’ostetrica”. È difficile farsi accettare per il colore della pelle anche come infermiera: “Alla fine vengo comunque considerata straniera: se sei una straniera, quindi fai l’addetta alle pulizie. Viene sempre sminuito il tuo ruolo”.
“Io credo – prosegue un’insegnante – che innanzitutto bisognerebbe formare gli insegnanti, i docenti, perché c’è proprio un vuoto formativo riguardo al razzismo, a come affrontare il razzismo, a come affrontare la diversità tra le persone”. Le conseguenze coinvolgono ovviamente gli studenti: “Questi ragazzi, pur non subendo episodi di discriminazione, è come se partissero non da zero ma da meno uno: come se dovessero dimostrare sempre qualche cosa in più degli altri”. Questa rincorsa continua è all’origine di quella che alcuni studiosi chiamano la “black fatigue”, letteralmente la fatica nera: è la stanchezza cronica che si accompagna agli sforzi quotidiani che sono richiesti a una persona nera, per mantenersi ancorata all’idea ottimista che un giorno il razzismo sarà sconfitto.
Molti intervistati evidenziano come la sottovalutazione di atti di discriminazione e di esclusione di matrice razziale sia anche frutto di un’assenza sistematica della questione dal dibattito pubblico e politico: “Tale assenza – osservano i ricercatori – unita all’inconsapevolezza della gravità delle pratiche razziste, provoca una vera e propria spirale del silenzio”. La Francia, periodicamente attraversata da forti tensioni sociali, ha affrontato le ombre culturali del suo colonialismo nel bel film di Laurent Cantet “La classe”, vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 2008. Quello francese è anche il modello al quale l’Italia più si avvicina. Ogni Paese deve però scegliere la sua strada, che si costruisce di giorno in giorno. Purché non si nascondano i problemi: altrimenti, come spiega un’ostetrica del Niger da tempo in Italia, “è difficile avere una terapia per una malattia non diagnosticata”.
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di Oiza Q. Obasuyi su Valigia Blu
La narrazione adottata dalle principali fonti di informazione italiane quando si parla di immigrazione, persone di origine straniera e razzismo tende spesso a dividersi in due tipologie: la banalizzazione del razzismo sistemico da una parte, e dall’altra la criminalizzazione delle persone. Quest’ultima avviene attraverso parole d’ordine come “emergenza” e “sicurezza”, che spesso emergono nelle testate giornalistiche mainstream, in particolare quando si parla di sbarchi o di aree urbane con maggior presenza di persone straniere. Tale modo di raccontare i fatti non solo ha un impatto reale sul pubblico, che a sua volta può adottare comportamenti ostili e discriminatori nei confronti di chiunque abbia un retroterra migratorio, ma è sintomo anche della mancanza di una pluralità di voci di varie origini all’interno sia dei media che delle redazioni italiane.
Avere cura di come vengono inserite nazionalità o origine di una persona nel testo non significa inquinare la veridicità di un fatto di cronaca realmente accaduto e che ha visto coinvolte persone di origine straniera. Piuttosto, significa evitare che tratti come nazionalità, origine o colore della pelle di una persona diventino parte integrante di una colpevolizzazione, in particolare quando si parla di un reato commesso. L’Associazione Carta di Roma nelle sue Linee guida ha già sottolineato questo enorme problema nell’analizzare la copertura della cronaca nei giornali italiani. Per esempio, scrive l’Associazione:
Mentre sarebbe utile alla comprensione della vicenda scrivere “cittadino albanese arrestato alla stazione: era ricercato dalla polizia di Tirana”, la designazione attraverso la nazionalità sarebbe superflua in un generico caso di cronaca nera come “Albanese arrestato: non si era fermato a un posto di blocco”. Questo modo di riportare una notizia infatti, suggerirebbe che la nazionalità di una persona è rilevante per spiegare le azioni del soggetto e si favorirebbe l’associazione automatica nel lettore tra nazionalità e fatto criminoso […].
Questi accorgimenti sono tutt’altro che banali, poiché impattano sulla percezione, nella vita quotidiana, che le persone hanno delle minoranze, e quindi incidono anche nel contrasto alle discriminazioni e alle generalizzazioni. Tuttavia non sono tenuti in considerazione, andando quindi anche ad alimentare una propaganda allarmistica e razzista. Questo tipo di narrazione generalizzante emerge soprattutto quando si parla di violenze sessuali, stupri e molestie ai danni di donne italiane da parte di cittadini stranieri. L’essere cittadino straniero diventa il vero problema, e l’argomento principale si sposta sugli sbarchi dal Mediterraneo più che sull’ennesima prova che esiste un problema sistemico – e globale – di machismo e violenza di genere e che soprattutto non esiste alcuna differenza tra un violentatore italiano o straniero. Nell’agosto del 2018, per esempio, a Jesolo riportando un caso di stupro ai danni di una 15enne, i titoli di giornale erano questi: ”Stuprò minorenne sulla spiaggia di Jesolo. Senegalese condannato a 3 anni e 4 mesi” (Il Messaggero, 28 agosto 2019); ”Jesolo, fermato senegalese per lo stupro di una ragazza di 15 anni” (La Repubblica, 25 agosto 2018). Più recentemente, l’attuale presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha pubblicato il video dello stupro di una donna ucraina avvenuto a Piacenza, in piena campagna elettorale, poiché il fatto che lo stupratore fosse un richiedente asilo sarebbe stato ancor più funzionale alle sue modalità di propaganda.
Oltre a diventare un assist alle discussioni e alla propaganda politica razziste che poi finiscono nella generalizzazione di tutte le persone di origine straniera, specialmente se provenienti da un Paese del Sud globale, questo modo di fare informazione non aggiunge nulla di realmente rilevante alla questione sistemica che riguarda la violenza di genere. Al contrario, dà modo di pensare che quest’ultima riguardi solo quella parte della società facilmente più condannabile e quindi criminalizzabile – questo reso possibile anche dal frame di “emergenza stranieri” permanente che non pochi media mainstream adottano. In questo caso, ad esempio, il quotidiano La Verità, nel mese di agosto, aveva pubblicato in prima pagina un articolo dal titolo “Porte aperte al prossimo stupratore”, e nel sottotitolo veniva riportato che il 40% degli stupri in Italia è commesso da stranieri. Sviscerando questa affermazione, la redazione di Pagella Politica (progetto editoriale che si occupa di fact-checking e analisi dell’attualità politica) ha spiegato come questa affermazione sia falsa:
In Italia gli stupri sono commessi in oltre tre quarti dei casi da persone con cui la vittima ha una relazione affettiva o amicale: per la precisione, nel 62,7% dei casi da partner (attuali o precedenti), nel 3,6% per cento da parenti e nel 9,4% da amici. Quelli subiti dalle donne italiane sono stati commessi da italiani in oltre l’80% dei casi.
Andando oltre ai numeri, è necessario poi ricordare che il discorso non può concludersi qui e che il coinvolgimento delle persone razzializzate, a maggior ragione le donne di origine straniera, è necessario. Come ha affermato l’Assemblea Donne Migranti (del Coordinamento Migranti di Bologna) in relazione alla violenza sessuale avvenuta a Piacenza:
Lo stupro di una donna a Piacenza è stato trasformato in un’occasione per raccattare voti. Salvini e Meloni, come da tradizione, ne hanno approfittato per rilanciare la propria politica razzista. Entrambi hanno sottolineato che lui era un richiedente asilo, entrambi hanno promesso di garantire alle città maggiore sicurezza quando saranno al governo, lasciando intendere che la loro sicurezza colpirà tutti i migranti.
E ancora:
Siccome noi sputiamo ugualmente sul razzismo e sul sessismo, siccome a noi interessa la politica femminista e non la cronaca nera elettorale, a Piacenza vediamo un uomo che ha stuprato una donna, come fanno quotidianamente, in pubblico oppure nel privato familiare protetto dallo sguardo e dalle fotocamere degli smartphone, moltissimi uomini di ogni colore, religione e cultura, con in tasca documenti di tutti i paesi. […] Diciamo che il razzismo alimenta la violenza maschile distinguendo tra donne che possono essere violate per il colore della loro pelle e donne che per il colore della loro pelle ‘meritano’ protezione, magari attraverso altra violenza. Diciamo che uno stupro è uno stupro, chiunque lo commetta.
Questo tipo di narrazione su un’emergenza permanente si trova anche nelle notizie relative ai flussi migratori, nonostante, anche in questo caso, i dati smascherino un certo tipo di propaganda che continua a descrivere i fenomeni migratori in termini di “invasione”.. Come spiegano i professori Pierluigi Musarò e Paola Parmiggiani del Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia (Università di Bologna) nel libro Ospitalità mediatica. Le migrazioni nel discorso pubblico, le straniere regolarmente residenti in Italia si sono assestate ormai da 6 anni a poco più di 5 milioni, pari a circa l’8,5% della popolazione residente, sono in lieve prevalenza donne (52%), provengono in maggioranza da paesi Europei (51%, di cui quasi i 2/3 da paesi UE) e confessano in prevalenza una religione cristiana (54%).
A questi si aggiungono i rifugiati che sono poco più di 200mila e le persone immigrate prive di documenti, poco superiori alle 500mila unità, rispettivamente pari al 5,7% e all’8,7% della popolazione straniera complessiva presente in Italia. Inoltre, la retorica emergenziale e il dibattito che si crea intorno all’ennesimo sbarco o blocco in mare di navi ONG con a bordo persone che necessitano un porto sicuro, così stabilito dalle leggi internazionali vigenti, non aiutano ad affrontare la questione delle disuguaglianze nella mobilità internazionale. Sono problemi che vanno dalla questione del continuo rifiuto per l’ottenimento dei visti, alle discriminazioni dei passaporti (costantemente rese evidenti dal Global Passport Index) fino al contrasto delle violenti politiche repressive delle frontiere in cui, giornalmente, i diritti vengono schiacciati a causa dei respingimenti sistematici.
La grande assente nel discorso pubblico è la diretta interessata, ossia la persona di origine straniera – o con retroterra migratorio – che per propria esperienza o per i propri studi dovrebbe rappresentare un contributo prezioso per trattare queste tematiche. Eppure, come viene sottolineato nel rapporto Notizie ai margini (Associazione Carta di Roma, 2021), nonostante nel 2021 sia stato rilevato un calo delle notizie sull’immigrazione, “l’accesso diretto di migranti e rifugiati ai telegiornali, ossia la loro presenza in voce nei servizi, rimane limitato […]. Selezionando infatti tutti i servizi relativi all’immigrazione che contengono interviste, la presenza di migranti e rifugiati in voce è rilevabile nel 6% dei casi”.
Chi parla di immigrazione (ma più in generale anche di razzismo, cultura, attualità o religioni) è prevalentemente bianco. Le trasmissioni che ospitano discussioni sul tema sono in prevalenza occupate da politici o giornalisti, perlopiù uomini, che trattano di questioni che non li riguardano in prima persona. Infatti, riguardo al coinvolgimento di professionisti/e stranieri/e o di origine straniera nel settore dell’informazione, nell’articolo “Media e diversità, in Italia redazioni prive di giornalisti stranieri” della testata Voci Globali, è stato sottolineato che, in molti casi, non solo i giornalisti e le giornaliste di origine straniera non vengono interpellate nella costruzione della notizia sull’immigrazione, ma sono chiamati in causa “per suffragare uno stereotipo” e “non si sentono quindi presi sul serio come professionisti”.
Come ha affermato la giornalista Sabika Shah Povia, che per via delle sue origini pakistane e la sua religione è stata più volte chiamata in causa per il caso di Saman Abbas, giovane uccisa dai propri familiari:
Spesso viene invitato un politico che ha un’agenda da inseguire e fa propaganda, viene chiamata una ragazza con il velo o un imam per difendere la religione, e qualcuno della comunità pakistana che possa fungere da capro espiatorio. Non si chiamano invece persone esperte di determinati temi. Sarebbe importante dare spazio ad altre figure professionali, come ad esempio psicologi di seconda generazione, operatrici dei centri antiviolenza, sociologi, persone impegnate nel terzo settore che cercano di portare un cambiamento concreto con il loro lavoro ogni giorno.
Parlando proprio del rapporto tra religione musulmana e donne, da come si evince da un’intervista di Radio Black Out a Leila Belhadj Mohamed, esperta di geopolitica, ci arriva una narrazione superficiale su “velo sì” o “velo no”, improntato sul paternalismo e senza una reale attenzione posta alle donne che lottano, con e senza il velo. Un simile argomento è infatti sostenuto dalle donne iraniane stesse che, manifestando anche in Italia a seguito dell’omicidio di Mahsa Amini, hanno dimostrato che la resistenza delle donne musulmane a qualsiasi imposizione patriarcale è sempre esistita, aggiungendo anche che più che per il velo in sé, la protesta nasce – oltre alla profonda crisi economico-sociale in cui riversa l’Iran e la repressione della dittatura di Khamenei – per rivendicare il diritto di poter scegliere cosa indossare. Il protagonismo delle donne (giornaliste, esperte, attiviste) di origine straniera, di religione musulmana e femministe quindi, che per esperienza o studi conoscono a fondo questi temi, in questo tipo di dibattiti, è cruciale nei media mainstream italiani – ma puntualmente la loro presenza non viene considerata.
Questa assenza vale anche per le persone nere che vengono tirate fuori – sempre come oggetti del dibattito e mai come soggetti attivi che prendono parola. L’ultimo caso riguarda quello della pallavolista Paola Egonu, in particolare del suo sfogo, ripreso da uno spettatore, alla fine di una partita persa contro la nazionale statunitense in cui parla non solo del peso di essere quella che porta in casa le vittorie e di quanto gravi su di lei anche la perdita, ma anche della frustrazione di ricevere commenti discriminatori, riguardanti perfino la sua cittadinanza italiana. La reazione del giornalismo mainstream è stata quella di banalizzare e sminuire una delle tante esperienze che le persone razzializzate comuni vivono quotidianamente, ossia il non essere riconosciute come italiane. Anziché spostare il dibattito su una discriminazione sistemica e istituzionale, soprattutto se si pensa alla questione della riforma di cittadinanza e al non riconoscimento di oltre un milione di persone nate o cresciute in questo paese, sul Repubblica, ad esempio, si è parlato di “stress” da gestire e di come i campioni debbano “resistere anche agli insulti”.
Inoltre, considerando che perfino Palazzo Chigi è intervenuto in difesa di Egonu parlando di “orgoglio nazionale”, sembra che in Italia una persona abbia il diritto di essere riconosciuta come parte integrante della società solo quando diventa “prestigio per la patria” – soprattutto nello sport, salvo poi non segnare un gol decisivo o perdere una gara di atletica, allora, in quel caso, ripartono gli insulti razzisti dagli spalti. E nonostante questo argomento vada oltre gli stadi e le arene, il dibattito è nato e morto lì, senza, di nuovo, alcun coinvolgimento delle persone direttamente coinvolte che non saranno delle campionesse di Serie A o vincitrici di ori olimpici, ma che vivono e affrontano una società che continua a ignorarle e discriminarle.
Risulta quindi evidente che i media mainstream italiani non solo non riflettono la diversità che caratterizza la società di questo paese, ma continuano a ignorare le tante soggettività con diverse origini che hanno un pensiero, delle opinioni, e soprattutto rappresentano l’anello mancante per decostruire le tematiche finora trattate. Nonostante quest’assenza nelle trasmissioni televisive in cui si parla di attualità o nelle redazioni giornalistiche più in vista, i social media sono diventati però il portale per eccellenza per far sì che le persone razzializzate siano protagoniste, appropriandosi della narrazione che viene costantemente fatta su di loro. Per citare alcuni progetti: Colory*, nato per “vedere una maggiore e migliore rappresentazione della cultura Italiana a ColorY* ed essere parte di una società sempre più inclusiva e consapevole”; la campagna CambieRAI, nata da giovani italiani e italiane di varie origini per denunciare il razzismo nella televisione italiana – dall’utilizzo della blackface fino all’utilizzo della N-word – come l’attrice Valeria Fabrizi che parlando di sé da giovane nel programma A Ruota libera di Rai 1, in riferimento alla sua carnagione ha affermato “Bellissima no… sembro una neg*a, una ragazza di colore”; la neonata Dotz, piattaforma che tratta di attualità, politica, cultura, economia nata dalla necessità di creare, si legge nella descrizione, un’alternativa che combatta gli stereotipi etnico-culturali che possiamo trovare nel giornalismo mainstream; Africans United piattaforma nata per decostruire stereotipi e pregiudizi sul continente africano e per parlare di cultura e diaspora africana in Europa e nel mondo.
A queste piattaforme si aggiungono altri contesti artistico culturali realizzati da persone (scrittrici, attiviste e attivisti, giornalisti, artisti) di varie origini come il Festival Divercity di Milano o il Black History Month Festival di Torino. Quindi non è che non ci siano persone da contattare per parlare di determinate tematiche in maniera seria e informata, il punto è l’esclusione sistematica di queste realtà dalla narrazione generale. Ci troviamo davanti a un giornalismo conservatore – quello che poi, di fronte a quest’innovazione, di linguaggio e persone, tratta a sproposito di cancel culture o di “dittatura del politicamente corretto” – aggrappato a un modo di fare informazione che non risponde più alle esigenze attuali. Per cambiarlo è necessario non solo prendere atto del fatto che un certo giornalismo non cambierà mai se non iniziano a cambiare anche le redazioni, ma che persone di varie origini che si stanno riappropriando della propria narrazione esistono già, basta solo ascoltare, chiedere e coinvolgere.
Questo articolo è stato prodotto nell’ambito del progetto INGRiD – Intersecting Grounds of discrimination in Italy, finanziato dalla Commissione Europea nell’ambito del programma REC (Rights, Equality, Citizenship)
Di Paolo Lambruschi su Avvenire
Profughi rom ucraini discriminati in Polonia. Faticano ad essere accolti, più spesso non riescono a uscire dai centri perché nessuno li vuole. In ogni caso è meglio che tacciano la propria origine e non rivelino dove si trovano per evitare aggressioni. La denuncia viene dagli attivisti della minoranza in Polonia che stanno affrontando un’emergenza nell’emergenza.
«Il nostro Paese – spiega Ela Mirga, artista polacca – sta offrendo una grande prova di generosità in questa tragedia accogliendo oltre due milioni di profughi. Ogni giorno ai valichi di confine arrivano circa 100 profughi ucraini rom ed è un problema. In Ucraina prima dell’invasione russa ne vivevano circa 400mila. Molti sono privi di documenti e spesso non sanno dove andare: sono stati costretti ad accamparsi e presi di mira da bande neonaziste nei giorni scorsi. Ma il problema è che molti sono bloccati dentro i centri».
Prova a chiarire la situazione Joanna Talewicz-Kwiatkowska, antropologa culturale polacca, docente all’istituto di studi interculturali all’università Jagellona di Cracovia e collaboratrice del museo di Auschwitz. Attivista di diverse organizzazioni polacche per i diritti civili che tutelano i rom ed essa stessa membro della comunità, dallo scoppio della guerra gira per Varsavia, Cracovia e altri centri minori dove sono arrivati molti profughi ucraini rom. Che attualmente, pur nella difficoltà di tenere una contabilità, sono circa duemila.
«La situazione era già tesa in Ucraina – ricorda – infatti nel 2018 ci sono stati pogrom e omicidi. Queste tensioni si sono spostate oltre confine quando è iniziata la guerra. In molti Paesi dell’Europa orientale i rom sono vittime di aggressioni a causa di stereotipi razziali, di xenofobia e odio in rete. Nei centri di accoglienza polacchi, quando gli altri ospiti li vedono, le tensioni scattano immediatamente. Le accuse sono le solite, il più delle volte senza prove: rubano, rivendono all’esterno gli aiuti, ne ricevono troppi. Dove sono? Per ragioni di sicurezza non posso dirlo perché rischiano di venire aggrediti. Stanno in luoghi riconvertiti all’accoglienza come teatri, scuole, musei».
Quanto alle accuse, la ricercatrice smentisce seccamente. «Non è vero che ricevano troppi aiuti perché stanno arrivando famiglie numerose con persone anziane e malate. Il problema principale spesso è la mancanza di documenti, ma come per molti altri profughi. Nei primi giorni del conflitto è arrivata la prima ondata di ucraini benestanti con documenti e con mezzi propri. Questo è successo anche per i rom, non siamo diversi dagli altri. E nessuno infatti se n’è accorto. Poi sono arrivate le persone più povere o quelle che sono state giorno sotto le bombe negli scantinati con i bambini a Kiev o a Kharkiv e poi sono fuggite in treno. Alcune di queste persone sono anche rom, anche loro hanno sofferto le conseguenze della guerra e sono fuggite senza documenti o senza soldi. Oppure appartengono alle classi sociali più vulnerabili. E sono cominciate le discriminazioni. Sono tutti ladri? Alcuni lo sono. Ma tra i profughi ci sono anche i delinquenti e i mafiosi ucraini e nessuno dice nulla».
Oltre alle tensioni interne ai centri, la docente rileva difficoltà nel farli accogliere. «Ci sono stati diversi casi. Sono dovuta intervenire con le autorità per far entrare in un centro di Varsavia un’anziana malata di Parkinson, e una famiglia con dodici bambini e due sole donne che le accompagnavano mentre i mariti erano rimasti in Ucraina. Erano accampati. E poi molti non riescono a uscire dai centri di accoglienza perché per loro non c’è posto. La Polonia sta facendo qualcosa di straordinario nell’accoglienza dei profughi ucraini. Ma i rom non li vuole nessuno e sono costretti a restare nei centri».
Cosa chiede? «Lancio due appelli. Il primo è alle comunità rom dei Paesi dell’Unione Europea. Aiutiamoci. Finora abbiamo organizzato trasferimenti in autobus solo verso Svezia e Germania. Il secondo è alle autorità polacche perché lancino una campagna contro l’antitziganismo, il razzismo, la xenofobia e le parole di odio. In questo clima ho paura anche per me e per la mia famiglia».
Di Fatou Diako su Articolo 21
Nel clima mediatico (e purtroppo pienamente giustificato) della paura collettiva generata dalla crisi ucraina, sembra andare sempre di più diversificandosi il concetto della diaspora, derivante da un significato etimologico comune di fuga o dispersione di un “popolo” o delle sue istituzioni nel mondo.
Se è vero che i conflitti, soprattutto se di violenza indiscriminata, e vicino casa nostra, come quello odierno, stimolano i più atavici timori e si stemperano tiepidamente soltanto nel conforto dell’accoglienza suggerita dalla “pietas” per i più deboli e dall’empatia per le sofferenze umane, è altrettanto vero che fino a poco tempo, nella nostra generale ottusa ignoranza, se si comprendeva in qualche modo che le migrazioni hanno (e hanno avuto nel tempo) origini e natura diversa, corrispondentemente alle differenti situazioni geopolitiche di provenienza, apparivano comunque tendenzialmente univoci il sentimento e l’espressione di quella pietas, che vuole abbracciare il più debole, come concetto o categoria generale, per non farne più distinzione con il sè e con gli altri. Non si è trattato in questo di una banalizzazione dei concetti e delle categorie, ma di una esternazione autentica di un antico senso di compassione umana, che appunto trae origine dalla consapevolezza e ricognizione di sofferenze e debolezze che appartengono indistintamente all’uomo come individuo. Da tale consapevolezza si è sviluppata l’esternazione dell’empatia, nel riconoscimento di una dignità che mai deve essere negata.
Ora, la crisi ucraina con la fuga di massa dei disperati ci sta mettendo di fronte ad uno stravolgimento di quanto sopra indicato e dello stesso concetto di umana compassione. L’empatia nostra non sembra più muoversi indistintamente verso i profughi, o il profugo inteso come individuo destinato alla dispersione, sua, di una collettività originaria, o identitaria, ma comunque degna di attenzione, ascolto e tutela, ma pare perseguire un assurdo ondeggiare suggerito da criteri discriminatori. La guerra che strazia un territorio, non è più la guerra di quel territorio, in grado di ospitare, fino a un certo momento, non un popolo, ma le popolazioni che lo abitano anche se non necessariamente autoctone. È, o sembra essere, la guerra contro i diritti degli ucraini, cui giustamente si volge il nostro sguardo affettuoso, ma solo verso questi appare muoversi l’attenzione, nella generale commozione collettiva, sprezzante degli altri. Ma che ne è di quei profughi, già profughi in terra ucraina e oggi straniti, smarriti e disconosciuti dal mondo? Come non ammettere che la migrazione della migrazione “non è ammessa” o non sempre tollerata? Forse le nostre limitazioni mentali, che ci fanno tendere alle eccessive semplificazioni non sono in grado di cogliere le sfumature delle migrazioni, dei loro caratteri. Nella nostra semplificazione eccessiva, e banalizzazione, del concetto di diaspora, non solo non vediamo le diaspore, ma le discriminiamo, addirittura, lasciandole fuori dall’accoglienza, bloccandole ai confini, facendo differenze che offendono l’uomo vulnerato, non riconoscendolo più come tale, destinandolo all’oblio, mediatico e sociale.
Questa lunga osservazione gira sull’idea di fondo che l’accoglienza è di tutti e per tutti; certamente sarà più facile la via della salvezza per la middle class munita di passaporto, ma come tale categoria non deve essere discriminata perchè in qualche modo già privilegiata, non deve discriminarsi nemmeno il povero o il profugo dell’Ucraina o il passeggero di turno, l’uomo del transito. L’accoglienza, si diceva, è per tutti; è la nota che accorda e consente l’uguaglianza, sociale e sostanziale, che si fa portavoce e portatrice di diritti e di tutele… In fondo, è questione di pietas…
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Su Avvenire
Accuse di discriminazione razziale. Sugli autobus al confine tra Ucraina e Polonia, nelle stazioni dei treni, dentro i campi improvvisati per l’accoglienza. Nei giorni dell’apertura delle frontiere da parte dei Paesi di Visegrad, per lasciar spazio all’ondata di profughi in arrivo dall’ex repubblica sovietica, arrivano pesanti imputazioni a carico in particolare delle autorità polacche. Le voci sono state raccolte dalla stampa internazionale e dai social media e puntuale è arrivata la smentita di Varsavia.
«Ci hanno detto “No Blacks“, e ci hanno fatto scendere dal bus che stava attraversando la frontiera con la Polonia. A me, alla mia famiglia e ad altri immigrati» ha raccontato un attivista nigeriano, padre di tre figli, all’Indipendent. «Mio nipote, cittadino del Marocco, è stato respinto alla frontiera tra Ucraina e Polonia. Dopo varie peripezie, con tutta la documentazione, stava tentando di fuggire dall’Ucraina ed entrare in Polonia per prendere un aereo e tornare a casa» ha denunciato una donna italiana su Twitter.
Quanto stanno documentando alcuni inviati, al momento, è soprattutto un diverso trattamento, a seconda del colore della pelle. Razzismo a tutto tondo, in parole povere.
L’ambasciatrice polacca in Nigeria, Joanna Tarnawska, ha però smentito gli atti discriminatori. «Tutti ricevono uguale trattamento. Posso assicurare che ho rapporti sul fatto che alcuni nigeriani hanno già attraversato il confine della Polonia», ha spiegato ai media locali.
Le denunce di razzismo si stanno però diffondendo di ora in ora su Twitter e sugli altri social sotto l’hashtag #AfricansinUkraine. A pesare sarebbe soprattutto il limbo, fisico e giuridico, in cui verrebbero collocati i migranti originari dell’Africa rispetto alle persone nate nell’Est Europa. «Stanno dividendo profughi di serie A e di serie B. È una vergogna».
Nel territorio che separa l’Ucraina dalla Polonia, si stanno riversando dall’inizio del conflitto centinaia di migliaia di cittadini in fuga dalle esplosioni e dai bombardamenti. I primi post e video di denuncia sono comparsi settimana scorsa sul profilo Twitter della dottoressa Ayoade Alakija, inviata speciale dell’Oms per l’emergenza Covid. Nelle immagini dei video si vedono africani, in fuga insieme a centinaia di migliaia di ucraini, davanti ai fucili puntati della polizia di confine che decide chi far entrare e chi no in Polonia, e quindi in Unione Europea.
Sul tema, smentito come detto dall’ambasciatrice polacca in Nigeria, le autorità del Paese africano hanno sollecitato i funzionari governativi polacchi al confine a trattare in modo uguale tutti i profughi e i richiedenti asilo provenienti dalle città ucraine.
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Di Simone Alliva su L’Espresso
Il mese è quello di maggio 2021, primi segni di “ritorno alla normalità”. Fine dei lockdown e locali che riaprono. Zaihra, ragazza trans di 21 anni, aspetta una sua amica in piazza Currò, centro di ritrovo per i giovani catanesi. Un ragazzo la fissa mentre lei parla al telefono. Poi le si avvicina e le sferra un pugno in faccia. Sviene e nessuno interviene. Occhio gonfio e mascella rotta.
Nel mese di ottobre a Roma il quartiere di San Lorenzo ritorna a pulsare tra bar e discoteche, Jamilton, romano di 26 anni con origini brasiliane esce da un locale verso le 2 di notte, saluta gli amici e si avvia verso la macchina. Prima gli insulti: «Guarda se sto negro de merda m’ha rubato er cellulare, mo lo pisto». Poi un branco di quattro uomini lo circondano, gli spaccano una bottiglia in testa e lo massacrano intonando in coro: «Brutto negro».
Omotransfobia, razzismo, abilismo, antisemitismo le voci che si uniscono per denunciare il clima di violenza montante vengono raccolte dall’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio). Da 913 episodi di discriminazione del 2020, si è passati a 1.379. Con un dettaglio non da poco conto: i dati visionati e pubblicati in anteprima da L’Espresso registrano un balzo di aggressioni fisiche rispetto all’anno precedente.
Con le “riaperture” si preferiscono calci e pugni all’offesa: l’odio virtuale scende dal 34% al 17%, mentre salgono le aggressioni fisiche: nel 2020 erano il 65 per cento (soprattutto tra le mura domestiche), nel fanno un balzo e toccano l’82 per cento.
La discriminazione abbandona il virtuale e torna a sommergere la vita reale delle persone, nelle loro relazioni familiari e di vicinato, nei luoghi che frequentano o dai quali vengono allontanati o preclusi. Figli buttati fuori casa per via del proprio orientamento sessuale o identità di genere, cittadini insultati e picchiati per strada per il colore della pelle. E ancora manifesti, striscioni, cartelli, scritte sui muri che illuminano la guerra invisibile alle minoranze.
La piramide dell’odio tracciata dall’UNAR mette al primo posto le persone aggredite per motivi etnico-razziali: il 2021 ha registrato 709 casi rispetto ai 545 del 2020. Di queste 499 vittime sono straniere. Seguono poi le persone aggredite per il “colore della pelle” (137), a cui vengono rivolti insulti che ricalcano un copione rigido e caro al vocabolario razzista: «negro di merda», «marocchino di merda», «clandestino», «vattene», «ritorna da dove sei venuto». Parole manifesto del sentimento di odio e pregiudizio di inferiorità basato sulla “razza”.
Sono invece 241 i casi denunciati di discriminazioni per “Religione o convinzioni personali”, rispetto ai 183 del 2020. In Italia è l’antisemitismo a crescere a dismisura. Si contano 170 casi rispetto agli 89 del 2020. Una recrudescenza del pregiudizio antisemita, oggi come in passato, che si esprime in forme cospiratorie, additando nelle persone di religione ebraica qualsiasi colpa. Già il rapporto della Wzo, l’Organizzazione sionista mondiale, e dell’Agenzia ebraica per Israele, aveva sottolineato come il 2021 fosse stato l’anno più antisemita dell’ultimo decennio.
Per l’Italia la conferma della tendenza arriva dall’UNAR. L’anno iniziato con insulti e minacce alla senatrice a vita Liliana Segre è proseguito con la diffusione di teorie complottiste sulla pandemia e vaccini dalle pagine social. Si è arrivati alle manifestazioni no-vax, con cartelli antisemiti. Ci sono poi le testimonianze delle aggressioni fisiche che sembrano far fare marcia indietro nel tempo: in una importante città dell’Italia centrale, nel tardo pomeriggio, un ragazzo con indosso la kippah viene colpito da dietro con un pugno e poi uno sputo. Mentre in una scuola primaria due studenti, venuti a conoscenza delle origini ebraiche di un compagno, lo sottopongono ad una serie di molestie: facendogli il saluto fascista, tentando di disegnargli svastiche sul corpo ed aggredendolo fisicamente con calci e pugni.
Non vengono risparmiate dall’odio le persone Lgbt che, come fanno notare dall’Ufficio Antidiscriminazione della Presidenza del Consiglio: scontano un’ondata di visibilità prodotta dal dibattito pubblico consumatosi nel 2021 sul ddl Zan, dentro e fuori dal Parlamento. Fake-news, stereotipi di genere e pregiudizi che si sono tradotti, nel tessuto sociale, in una vera e propria conflittualità, fatta di discriminazioni e violenze. Si registra un caso di omotransfobia ogni due giorni. Dai 93 episodi denunciati nel 2020, si è passati ai 238. Persone trans inseguite e aggredite per strada, ragazzi e ragazze costrette a terapie riparative, macchine distrutte e aggressioni fisiche a coppie colpevoli di tenersi per mano o scambiarsi un bacio pubblicamente.
È stato anche l’anno dell’abilismo, parola che rinchiude dentro tutte quelle violenze fisiche, alla proprietà e verbali perpetrate ai danni delle persone con disabilità. Il 2020 aveva registrato una flessione delle aggressioni pari a 49 casi, con il “ritorno alla normalità” i casi di abilismo toccano la punta di 141 aggressioni. Sono dati parziali, sottolineano dall’Unar, poiché fanno riferimento solo a casi denunciati oppure segnalati dalla stampa. Lo scenario, dunque, potrebbe essere peggiore.
«I dati ci dicono che l’anno trascorso sconta la rabbia accumulata e la paura dell’anno precedente. Con le maggiori aperture c’è stata una ripresa della circolazione delle persone e un aumento delle aggressioni fisiche» spiega Triantafillos Loukarelis, direttore Ufficio nazionale anti-discriminazione razziale. «Come Unar abbiamo due difficoltà: siamo poco conosciuti e poi c’è una rassegnazione, quasi una sfiducia verso le istituzioni: serpeggia la convinzione che qualsiasi denuncia sarà inefficace oppure addirittura controproducente».
Il metodo dell’UNAR sui casi di discriminazione è preciso: una volta ricevuta la segnalazione del caso, si attiva un lavoro di verifica ed eventualmente di supporto della vittima. Non tutte le segnalazioni, dunque, vengono registrate. «Molte persone nell’ultimo ci hanno contattato perché si sentivano discriminati in quanto non vaccinati. Semplicemente temevano gli effetti dei vaccini – spiega Loukarelis – Spesso sono persone che hanno paura perché non hanno le giuste informazioni. C’è questa idea che i no-vax siano solo radicali ma non è così. Così li abbiamo indirizzati verso i servizi regionali che potevano dare tutte le informazioni necessarie per comprendere».
Fornire informazioni, supporto e orientamento è il compito dell’ufficio che nell’ultimo anno si è fatto carico di qualsiasi tipo di denuncia: «I nostri operatori specializzati si prendono carico delle segnalazioni. Spesso si può agire anche sulla base di moral suasion parlando con le istituzioni locali, ad esempio. Quando ci sono questioni che possono aver, per così dire, un riflesso giudiziario, abbiamo pronto una squadra legale pronta a trasmettere un parere».
L’Unar ci prova, in sinergia con le associazioni che lottano contro l’odio. Intanto dal Parlamento arrivano nuove rassicurazioni per una ripresa del testo di legge contro l’omotransfobia, la misoginia e l’abilismo. Potrebbero ripresentare un testo ad aprile sia Alessandro Zan del Partito Democratico alla Camera, sia Alessandra Maiorino del M5s al Senato. Fuori dai palazzi però ritorna la paura, alcuni temono più di prima e tacciono, altri dicono basta e trovano la forza di denunciare cercando sostegno. In attesa di uno scatto della politica, i cittadini fanno da sé mentre la lacerazione sociale cresce.
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