Di Camilla Donzelli su Voci Globali
Secondo il vocabolario Treccani, integrare significa “rendere pieno, perfetto, ciò che è incompleto o insufficiente a un determinato scopo, aggiungendo quanto è necessario o supplendo al difetto con mezzi opportuni”.
Tale definizione presuppone una mancanza iniziale, un’incompletezza di fondo. Incompletezza che però non è necessariamente da intendersi in senso negativo, piuttosto come un’opportunità di miglioramento. Potenzialmente, l’integrazione è quindi un concetto fecondo e dinamico, che sottintende una costante tensione verso la perfezionabilità delle cose.
Eppure, quando si associa il verbo integrare ai fenomeni migratori, il reale significato di questa parola va perdendosi. O meglio, si snatura sotto i colpi della convinzione granitica che le nostre società – europee, occidentali, apparentemente civilizzate ed evolute – siano sistemi finiti, chiusi, che bastano a se stessi. Microcosmi escludenti in cui qualsiasi proposta di miglioria – o appunto, integrazione – proveniente dall’esterno viene rifiutata a priori, se non addirittura percepita come una possibile minaccia all’ordine stabilito.
Di conseguenza, integrare assume un’accezione diversa. Nel dibattito pubblico attuale il concetto di integrazione è ormai divenuto sinonimo di assimilazione, termine che nelle scienze sociali descrive una rinuncia totale di usi e costumi originari a favore di una totale adozione di quelli propri del luogo in cui ci si stabilisce.
In altre parole: queste sono le regole, non c’è spazio per la negoziazione, se vuoi essere ammesso nel corpo sociale devi adeguarti senza mettere in discussione nulla. Un approccio etnocentrico figlio di colonialismi vecchi e nuovi, che nega la realtà dei fatti: le migrazioni rappresentano un fenomeno globale che interagisce attivamente con le società di approdo, modificandole dall’interno. E opporsi a questa inevitabile interazione – che implica un continuo processo di scambio e ridefinizione – è controproducente.
Infatti secondo i sociologi Stephen Castles e Mark Miller, autori del libro “L’era delle migrazioni. Popoli in movimento nel mondo contemporaneo“, il modello assimilazionista non è adatto a far fronte al modo in cui le nostre società sono cambiate, cambiano e continueranno a cambiare. Insistere sull’adesione in toto alla cultura predominante come condizione necessaria per l’accesso distorce la percezione delle differenze culturali, che da possibili e preziose spinte verso l’innovazione diventano elementi di frizione, se non addirittura di aperto scontro. E gli esiti finali sono la nascita e l’internalizzazione di quei meccanismi che purtroppo conosciamo bene: esclusione, discriminazione, razzismo.
Esiste un antidoto a tutto questo? Sembrerebbe di sì, ed è la pratica quotidiana su piccola scala.
Siamo a Roma, nel quadrante Nord-Ovest della città, quartiere Valle Aurelia. In una via non molto distante dalla fermata della metropolitana ci sono due insegne, l’una accanto all’altra: El Pueblo e Gustamundo. El Pueblo apre i battenti nel 1993 su iniziativa di Pasquale Compagnone, che dopo un viaggio zaino in spalla attraverso il Messico zapatista si innamora di quelle terre e decide di portarne con sé un pezzetto attraverso la cucina.
Poi, nel 2017, l’intuizione di un nuovo progetto da affiancare al ristorante messicano. “L’idea di collaborare con i centri di accoglienza e verificare se ci fossero delle persone provenienti da esperienze di cucina era stata pensata per creare dei momenti di aggregazione e di socializzazione fra i migranti e i clienti del ristorante”, racconta Pasquale. “Lo scopo era quello di fare delle cene tutti insieme e attraverso la cucina avere qualche serata di incontro conviviale”.
Nasce così Gustamundo. Pasquale si mette in contatto con i centri di accoglienza presenti sul territorio cittadino, avviando collaborazioni con la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas, la Croce Rossa Italiana, il Joel Nafuma Refugee Center e molte altre realtà impegnate nel lavoro con rifugiati e richiedenti asilo. Inizialmente il progetto consiste nell’individuare persone già esperte in cucina, che abbiano voglia di cimentarsi nell’organizzazione di una serata in cui presentare i piatti delle proprie terre di origine.
“Il primo anno facevamo una media di 2-3 cene a settimana, si parlava con i migranti e si raccontavano un po’ le loro storie”, continua Pasquale. “Poi lentamente è venuta fuori l’esigenza di strutturarlo un po’ di più perché erano tutte collaborazioni una tantum, legate solamente alla prospettiva di queste cene, ed è giustamente subentrata da parte loro la richiesta di avere i permessi di soggiorno per restare in Italia. È così che abbiamo iniziato a pensare ad un vero e proprio ristorante multietnico dove poter fare contratti di lavoro e dare stabilità ai collaboratori”.
Accanto al ristorante El Pueblo si libera una piccola saletta: è l’occasione perfetta per fare il salto e dare una sede fisica a Gustamundo. Deciso a gettare fondamenta stabili che permettano al progetto di perdurare nel tempo, Pasquale comincia a fare una lenta e accurata selezione. E i risultati arrivano.
“Il gruppo si è lentamente costituito attorno a una quindicina di persone, tutti richiedenti asilo, rifugiati, o comunque di origine straniera. Ad oggi siamo riusciti a costruire un gruppo che funziona, ognuno con le proprie competenze e con i propri compiti, ed è un gruppo che riesce a lavorare bene insieme. Il ristorante adesso funziona tutti i giorni e tutte le sere.”
L’unicità del progetto risiede nella natura multiculturale dello staff e nell’amplissima scelta che il menu propone: ogni collaboratore, infatti, contribuisce con pietanze tipiche del proprio Paese. Ed effettivamente dare uno sguardo al menu di Gustamundo è un po’ come fare un viaggio intorno al mondo, in cui la cucina diventa un modo per veicolare conoscenza reciproca e nuove prospettive.
“All’inizio c’era la curiosità per un progetto nuovo, inedito per la sua tipologia, non è comune trovare un ristorante dove puoi andare a mangiare 15 cucine diverse. Poi si sono creati dei bei momenti, perché si mangiava tutti insieme. Sai, si parla spesso in maniera negativa dei migranti, poche cose positive. Per me la cucina è sempre stata una cosa positiva, in grado di stimolare la curiosità. Quindi all’inizio la gente si è avvicinata per l’idea nuova, ma poi constatando la qualità e soprattutto il tipo di progetto, quanto impegno e serietà ci fossero dietro, ha risposto molto bene.
Ad oggi se c’è da fare qualche raccolta fondi o altro la gente partecipa molto attivamente. Questo perché constatano giorno per giorno la presenza dei collaboratori e la loro crescita professionale. Inoltre, i risultati fanno crescere l’autostima di chi lavora con noi, la timidezza iniziale diminuisce, si sentono più accettati, più forti, e questo facilita il processo di incontro e conoscenza – anche quando ci sono delle storie di vita e di migrazione dolorose alle spalle.”
Gustamundo è quindi un luogo in cui si recupera il significato autentico della parola integrazione. Qui, attraverso la cucina, ognuno offre un pezzetto di sé, del proprio vissuto, della propria cultura. Si crea così quella possibilità di scambio e confronto che vede la differenza non come un ostacolo divisivo, bensì come portatrice di arricchimento ed evoluzione. Ed è proprio questo il primo e fondamentale passo verso rielaborazioni identitarie originali, inclusive, allargate.
L’esperienza di Dantoura ne è la prova. 28 anni, originario del Senegal, arriva in Italia nel 2014. La sua procedura di richiesta della protezione internazionale si conclude con l’ottenimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. A questo punto Dantoura comincia a pianificare la sua vita in Italia.
“Al centro di accoglienza facevamo solo corsi di formazione”, racconta. “Li ho fatti per tanto tempo, poi ad un certo punto ho detto agli operatori che volevo cercare lavoro. Mi hanno portato all’Accademia nazionale delle professioni alberghiere, lì ho fatto quasi sei mesi di formazione come cuoco.”
All’Anpa Dantoura apprende tecniche di cucina che comprendono nozioni legate alla tradizione italiana. Impara a fare la pasta all’uovo, per esempio. Al termine dei sei mesi accede a un tirocinio formativo, dopodiché ottiene un certificato.
“Sono andato in uno di quei posti dove ti aiutano a cercare lavoro e a scrivere il CV. Ho detto subito che cercavo qualcosa nella ristorazione, sia perché avevo il certificato sia perché era un lavoro che avevo già fatto nel mio Paese. Mi hanno detto che c’era qualcuno che cercava e mi hanno dato l’indirizzo di Gustamundo.”
E così nel 2019, col suo bagaglio di competenze acquisite in Senegal e in Italia, Dantoura comincia a collaborare con Pasquale. Dopo pochi mesi scoppia la pandemia; contestualmente si avvicina la scadenza del permesso di soggiorno, che non potrà essere rinnovato a causa delle modifiche introdotte dal decreto Salvini. Pasquale, sicuro di trovarsi di fronte ad una persona con grandi potenzialità, scommette su di lui: in pieno lockdown, firmano un contratto. Dantoura entra così a far parte dello staff di Gustamundo in pianta stabile, e può convertire il suo documento in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
“A Gustamundo cucino i piatti tipici del Senegal”, spiega. “Il ceebu yapp e il ceebu ginar, per esempio. Il primo si fa con il riso e la carne, il secondo con riso, pesce e verdure. O il mafé, uno spezzatino di carne con verdure e burro di arachidi. Ma conosco anche la cucina di altri Paesi africani, quindi preparo anche piatti diversi. La gente è curiosa, spesso mi chiede come si cucinano i miei piatti e quali sono le loro origini.”
Dantoura è stato assunto in pieno lockdown perché, nonostante le difficoltà portate dall’emergenza sanitaria, la filosofia di fondo di Gustamundo rimane la stessa: il processo di scambio e inclusione passa attraverso il lavoro.
“Molti mi chiedono: ma perché non hai aperto una Onlus?“, continua Pasquale. “Le Onlus fanno di sicuro un grandissimo lavoro di sensibilizzazione, magari attraverso conferenze e incontri, ma è un lavoro a senso unico che mira ai cittadini italiani. In fin dei conti ai diretti interessati, ai migranti, torna indietro poco. Io credo che le risposte dell’inclusione debbano passare attraverso una stabilità personale che si esprime tramite il lavoro, la casa, la conoscenza del sistema locale.”
Quanto affermato dal fondatore di Gustamundo trova fondamento nei fatti. Secondo i dati raccolti dall’Istat e rielaborati da Openpolis, nel 2020 gli stranieri costituivano l’8,4% della popolazione residente in Italia, rappresentandone però allo stesso tempo più del 15% dei disoccupati. E infatti, analizzando singolarmente la categoria dei cittadini extra-comunitari, si scopre che il tasso di disoccupazione è di 8,6 punti percentuali superiore rispetto agli autoctoni.
Lo studio condotto da Simona Colucci, ricercatrice in Politiche Pubbliche per il Territorio all’Università IUAV di Venezia, ha rivelato che i rifugiati mostrano tassi di occupazione ulteriormente inferiori rispetto alle altre categorie di cittadini stranieri. Ciò ha a che fare con la natura instabile della loro posizione: un passato spesso traumatico, ostacoli burocratici, tempi d’attesa dilatati all’estremo per la definizione della richiesta di asilo, incertezza generale sulla loro sorte nel Paese ospitante.
E sempre secondo tale studio, il lavoro sarebbe centrale nel modificare in senso migliorativo la dinamica descritta: da una parte, permette di velocizzare il processo di comprensione e apprendimento degli strumenti necessari a muoversi nel nuovo ambiente; dall’altra, rafforza una rappresentazione positiva di sé, aumentando l’autostima e facilitando l’instaurazione di un legame con la comunità e il territorio.
Tutte queste nozioni sembrano essere molto chiare nella linea d’azione di Gustamundo. Tant’è che per velocizzare ulteriormente il processo viene fatto un lavoro a doppio binario.
“C’è la parte commerciale“, spiega Pasquale, “però c’è anche un occhio attento al supporto in quella che è la vita di tutti i giorni. Per questo abbiamo istituito un’associazione di promozione sociale che lavora in modo parallelo, occupandosi di formazione e di affiancamento nell’espletamento di pratiche legali e burocratiche di vario genere. L’obiettivo è la totale autonomia delle persone.”
Dilruba conferma le parole del suo datore di lavoro. Ha 33 anni, viene dall’Azerbaijan e lavora a Gustamundo dal 2020. “Questo progetto è una strada per l’autonomia, sia per me che per i miei figli”, dice. Arrivata in Italia nel 2018 con il figlio maggiore e ottenuto nel giro di pochi mesi lo status di rifugiata, avvia la procedura per ricongiungersi con le due figlie minori, che oggi hanno 9 e 11 anni.
“In passato ho lavorato nella ristorazione con mio padre, però non ho mai studiato. Avrei voluto fare un corso di cucina, ma mi dicevano sempre che prima avrei dovuto prendere almeno il diploma di terza media e poi studiare per altri cinque anni. Però io con tre figli non ce la faccio. Poi il direttore del mio centro mi ha detto che c’era un progetto per richiedenti asilo in cui davano la possibilità di cucinare i piatti del proprio Paese. E così mi ha fatta conoscere Pasquale. Abbiamo fatto una prova, piano piano ho dimostrato le mie capacità. E alla fine sono rimasta.
Io sono cuoca, ma a Gustamundo ho anche imparato a interagire coi clienti facendo la cameriera e la responsabile di sala. Questo lavoro mi piace tantissimo, è la mia passione. Abbiamo da poco firmato il contratto definitivo, e mi è stato anche finanziato un corso che si è concluso con l’iscrizione al REC [Registro Esercenti Commercio, ndr] della Camera di Commercio.”
L’iscrizione di Dilruba al REC è il primo passo verso un progetto ancora in fase embrionale: l’apertura di un Gustamundo 2, la cui gestione verrebbe affidata a lei. “Questo“, aggiunge Pasquale, “vorrebbe anche dire espandere lo staff e creare così nuove opportunità per più persone”.
Dilruba fa emergere anche un altro elemento significativo dell’esperienza Gustamundo. “È diverso rispetto a lavorare in altri ristoranti, è qualcosa che ha a che fare anche coi sentimenti“, dice. “Lavoro con altre quattro donne che come me hanno figli, e stare con loro è una bellissima cosa. Ognuno ha i suoi problemi, ma insieme riusciamo sempre a darci una mano. Da straniera, potermi confrontare con persone che stanno vivendo la mia stessa situazione e muovendo i primi passi in un ambiente nuovo è molto importante.”
Il progetto non è quindi solamente un punto di incontro fra cittadini stranieri e locali, ma anche un piccolo porto multiculturale in cui gli stessi collaboratori hanno la possibilità di familiarizzare fra loro, scoprendo che al di là di lingue e culture diverse spesso si nascondono esperienze e difficoltà comuni. E quindi si socializza, ci si supporta, si fa rete. Si trova il proprio posizionamento, più o meno comodo, intersecando vecchie e nuove identità in una sintesi del tutto originale.
Anche Anna menziona questo aspetto. Ha 27 anni, viene dall’Albania e vive in Italia da 4 anni. A Gustamundo ha portato la cucina rom, come la variante albanese della moussaka e le sarme, involtini di foglia di vite farciti con riso e carne.
“Vado sempre a lavorare volentieri, contenta. C’è comunicazione e collaborazione, il clima è sempre rilassato e pacifico, ridiamo e scherziamo continuamente. Il fatto che proveniamo da Paesi e culture diverse non è mai un ostacolo.”
Dato il successo che Gustamundo sta riscuotendo, Pasquale e i suoi collaboratori stanno valutando l’ipotesi di trasformare l’attività in un’impresa sociale o in una cooperativa, in modo da poter accedere a bandi e fondi dedicati. Questo permetterebbe di espandere ancora di più le iniziative e coinvolgere un numero sempre maggiore di persone, nonché di dare più visibilità ad un progetto che sta dimostrando concretamente che l’inclusione non deve necessariamente assumere le sembianze di un processo violento e coatto.
Piuttosto, è uno scambio in cui la scoperta di differenze e punti di contatto apporta benefici ad entrambe le parti. Perché, come conclude Anna, “alla fine siamo tutti umani, questo è quello che conta.”
Immagine in evidenza di Gustamundo
Un articolo di Estella Carpi, Sara Al Helali e Amal Shaiah Istanbouli su openDemocracy, traduzione a cura di Rosamaria Castrovinci su Voci Globali
In tutto il mondo proliferano programmi di “inclusione” e di “integrazione” indirizzati ai rifugiati vittime di sfollamento, ma spesso non funzionano da catalizzatori della coesione sociale. Il che non è una sorpresa quando i cittadini del Paese di accoglienza non sono adeguatamente istruiti e informati sull’inclusione e integrazione dei migranti.
Anzi, tali programmi – lungi dall’essere in alcun modo radicali – non sono solamente inefficaci, ma sono anche politicamente conservatori. Questo perché principalmente non considerano la mobilità umana come un processo continuo e trasversale in tutti i gruppi sociali.
Nella storia contemporanea della migrazione forzata, la maggior parte dei programmi umanitari e di sviluppo si è rivolta principalmente all’assistenza ai rifugiati e ai richiedenti asilo, insistendo sui loro diritti e sui loro bisogni. Le associazioni della società civile e i gruppi di attivisti che, in generale, partecipano apertamente alla mobilitazione politica, spesso finiscono per adottare una strategia simile, focalizzandosi solo su un lato della medaglia durante le campagne di sensibilizzazione e i programmi di assistenza.
Fatta questa premessa, va detto che in alcune città e paesi a volte si svolgono piccole sessioni informali di informazione sulla migrazione forzata e sulle attività di integrazione che richiedono il coinvolgimento dei Paesi di accoglienza, ma non sono incluse nei programmi ufficiali di educazione fin dai primi anni di vita.
Tale carenza di un approccio sistematico per “educare il Paese ospitante” rispecchia un’offerta informativa molto poco convincente. Dovrebbe essere promossa l’educazione all’empatia per quei gruppi sociali che si mostrano indifferenti a questioni socialmente rilevanti come quelle della migrazione forzata e a tutto ciò che concerne l’accoglienza dei rifugiati.
Dai dati raccolti in Libano e in Turchia negli ultimi quattro anni, come parte del progetto Southern-led Responses to Displacement from Syria condotto dalla professoressa Elena Fiddian-Qasmiyeh alla University College di Londra, è emerso come molti dei rifugiati siriani intervistati abbiano sottolineato la necessità per i Paesi di accoglienza di essere “formati” circa l’esperienza della guerra e dello sfollamento per poter comprendere le motivazioni dell’arrivo dei migranti e per capire come accettare e sostenere i rifugiati appena arrivati all’interno delle loro società.
“I Governi e le autorità locali dovrebbero cercare, tramite i media, di trasmettere messaggi che incoraggino la popolazione locale a sostenere i Siriani o, quantomeno, che prevengano atteggiamenti razzisti. Tali messaggi dovrebbero essere indirizzati in particolare agli studenti locali“, ha spiegato una rifugiata siriana intervistata a Hatay, in Turchia.
In realtà è stato segnalato il suicidio di uno studente di nove anni rifugiato in Turchia nell’ottobre del 2019, come conseguenza dell’estremo razzismo subito a scuola, mentre i media locali e nazionali continuavano ad alimentare ondate di xenofobia in tutta la Turchia dall’inizio della crisi umanitaria in Siria.
Analogamente, un gran numero di rifugiati siriani ha affermato di avere la convinzione fuorviante che essi stessi costituiscano unicamente un fardello per le “economie ospitanti”.
Un rifugiato siriano a Gaziantep, città della Turchia, suggeriva che “i Governi dei Paesi arabi dovrebbero contribuire a educare la propria popolazione affinché i rifugiati siano accettati nei loro territori e ne sia facilitata l’integrazione: i Governi devono chiarire che i rifugiati non ricevono aiuti che vanno a discapito dell’economia ospitante.”
Un altro sosteneva che i suoi buoni in contanti non sono un regalo dei Governi ospitanti, e che veicolare questo messaggio pubblicamente alleggerirebbe le tensioni locali. Quello di educare i Paesi di accoglienza è spesso indicato come uno strumento efficace per ridurre il risentimento contro i rifugiati e stimolare un’empatia consapevole all’interno della società locale.
Uno studente di un villaggio del Libano del Nord ha confermato questa ipotesi: “Io non so molto di ciò che è successo in Siria nel 2011. Vedo soltanto un mucchio di siriani qui. Come posso imparare la loro storia se queste cose non vengono insegnate a scuola?“, ha chiesto.
Nelle interviste ed esperienze fatte in Turchia e Libano, le ONG internazionali sono state indicate come soggetti potenzialmente influenti nell’educazione delle popolazioni dei Paesi di arrivo su cosa significhi ospitare attivamente i rifugiati. Infatti, alcuni grandi enti umanitari e che si occupano di sviluppo hanno la capacità di esercitare pressione sui media internazionali e, a volte, anche sui Governi.
Le considerazioni di cui sopra, provenienti dai rifugiati, sollevano una questione fondamentale: quali sarebbero i luoghi più sicuri e adeguati per mettere in atto l’impresa di educare i Paesi ospitanti? In molte città l’accoglienza dei rifugiati è altamente politicizzata e viene regolarmente strumentalizzata dai detentori del potere locale per guadagnare elettori.
Una domanda che bisogna porsi è se davvero l’empatia possa essere “insegnata”. Tuttavia, sebbene la risposta a una domanda del genere sia piuttosto complessa, accettare lo status quo non è un’opzione.
Per fare un esempio, la presenza di programmi educativi ufficiali sull’emigrazione forzata nei Paesi di accoglienza aiuterebbe a combattere pubblicamente l’incitamento all’odio e a ispirare la comprensione della gente fornendo un quadro storico e giuridico sull’accoglienza dei rifugiati.
Attività ed eventi informali vengono organizzati spesso in città che ricevono un gran numero di migranti forzati, sia nel Nord che nel Sud del mondo.
In Europa, alcune città e paesi ospitano eventi gestiti dagli stessi comuni o iniziative portate avanti da gruppi con lo scopo di promuovere l’integrazione attraverso attività culturali o il dialogo interreligioso.
In città come Beirut e Istanbul, gli attivisti locali hanno organizzato numerose attività come la proiezione di film sulla Siria e tavole rotonde sull’argomento, allo scopo di sensibilizzare la società civile. Eppure queste iniziative spesso non riescono a raggiungere tutti i gruppi sociali e, inoltre, mancano ancora della comunicazione ufficiale sull’emigrazione forzata.
La responsabilità e la capacità di integrarsi e di essere inclusi sono, invece, esclusivamente ascritte agli stessi rifugiati. Paradossalmente,le società che ricevono i rifugiati sono ufficialmente definite “Paesi d’accoglienza”, senza però che accolgano attivamente.
Non si tratta di rifiutare l’importanza dell’integrazione e dell’inclusione nelle società contemporanee, ma piuttosto di battersi per la sana convivenza e la conoscenza reciproca tra gli abitanti di vecchia data e i nuovi arrivati in quelle società.
La comunità internazionale deve applicare la formula riguardante la “capacità di integrazione” non tanto ai rifugiati quanto ai Paesi ospitanti, e prendere atto della necessità di un progetto reale, con percorsi educativi obbligatori e a lungo termine.
Alcuni potrebbero vedere questo invito a educare il Paese ospitante come una mossa ideologica e, di conseguenza, opinabile, ma la verità è che a prescindere da che lo si voglia o no, le persone continueranno a spostarsi, e la sostenibilità del benessere di tutti non può che essere una questione condivisa.
Su UNHCR
Ieri, in occasione della Giornata mondiale degli insegnanti, UNHCR Italia ha lanciato un kit di strumenti realizzato appositamente per sostenere l’insegnamento sul tema dei rifugiati nelle scuole italiane.
Il kit, Insegnare il tema dei rifugiati, comprende programmi per le lezioni, attività, video e altri materiali adattabili su rifugiati, asilo, migrazione e apolidia per l’istruzione primaria e secondaria, e mira ad aiutare gli insegnanti a spiegare ai loro studenti il fenomeno delle migrazioni forzate e le sue complessità.
“In un momento in cui il numero di persone in fuga da guerre, violenze e persecuzioni ha raggiunto un livello record e con i media e internet che abbondano di informazioni sull’argomento, diventa quantomai necessario comprendere la condizione di chi e’ stato costretto ad abbandonare la propria casa, anche per poterlo accogliere quando arriva”, ha detto Chiara Cardoletti, Rappresentante UNHCR per l’Italia, la Santa Sede e San Marino. “Una società che sa accogliere e includere è una società che sa proteggere. In questo senso, il kit per gli insegnanti è anche un’importante strumento di protezione”.
Nello specifico, il Kit è composto inizialmente da una serie di animazioni video, le parole contano, che illustrano i concetti chiave. Chi sono i rifugiati? Cosa si intende per migrante? Qual è la differenza tra queste due categorie e perché è importante? Chi sono i richiedenti asilo? Cosa si intende con l’espressione ‘sfollati interni’? I video spiegano anche da dove provengono i rifugiati e dove si trovano, quali sono i loro diritti e quali organizzazioni forniscono loro assistenza. Successivamente vengono offerti agli insegnanti tre pacchetti completi di materiali didattici adatti alle varie fasce d’età: i pacchetti per la scuola primaria si focalizzano sull’apprendimento di abilità socio-emotive (SEL) e propongono esclusivamente contenuti adatti a questa fascia d’età. I pacchetti per la scuola secondaria ampliano la terminologia relativa a rifugiati, asilo e migrazione e propongono attività di classe volte all’approfondimento dei saperi, alla costruzione dell’empatia, alla comprensione di fatti e cifre e, infine, allo sviluppo del pensiero critico. Gli studenti sono anche incoraggiati a fare ricerche e ad agire per sostenere i rifugiati stessi, se lo desiderano.
Il Kit, Insegnare il tema dei rifugiati, è stato adattato in italiano ed altre lingue dalla versione in inglese sviluppata da UNHCR a livello globale.
Foto in evidenza di UNHCR
È stato presentato ieri il progetto “Voci senza frontiere”, una raccolta di 30 nomi di esperte/i in molteplici aree professionali – dalla sanità alla giustizia, dall’informazione alla ricerca – rappresentanti della società plurale italiana. Un progetto realizzato con il supporto dell’8 per Mille della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, con il patrocinio di Rai per il Sociale e dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR).
Un punto di partenza per raccogliere voci autorevoli e competenti con l’obiettivo, come affermato da Valerio Cataldi, Presidente della Carta di Roma, di “rappresentare la realtà che viviamo ogni giorno ma che non viene rappresentata”, e di diventare uno strumento utilizzato dalle redazioni. Capire chi siamo e dove siamo passa anche attraverso le voci che riescono a raccontare la realtà. “Mettere in lista, in fila persone che stanno facendo cose per l’interazione e per il nostro vivere plurale è importante. Noi siamo voci che si fanno sentire insieme”, racconta la scrittrice Igiaba Scego.
La brillante conduzione di Veronica Fernandes, giornalista di RaiNews24, conduce alla scoperta della guida, pensata come una raccolta di figure esperte che possono essere conosciute da tutti coloro che accedono ai media per informarsi. Ad oggi, le voci della società plurale risultano marginali nel nostro panorama informativo, il 2% di presenza nei telegiornali del prime time nel primo semestre del 2021, come ricordato da Paola Barretta (Coordinatrice dell’Associazione Carta di Roma e ricercatrice dell’Osservatorio di Pavia). Pertanto, la guida presentata oggi risponde alla sfida di portare la voce di esperti e professionisti esponenti della diaspora, di seconde e terze generazioni e di rappresentanti delle differenti comunità affinché “indipendentemente dall’origine e dalla provenienza, vengano intervistati in qualità di esperti. Un elenco non esaustivo, del tutto provvisorio, che rappresenta però un punto di partenza. Così un’avvocatessa di origine egiziana competente in diritto civile viene intervistata in materia giuridica non sulla situazione in Egitto”.
A questo proposito, Mehret Tewolde, Direttrice esecutiva Italia Africa Business Week, mette in luce come ci siano “tantissimi medici di origine straniera, tantissimi ricercatori e operatori sanitari: ce ne fosse stato solo uno che ha parlato durante la fase di emergenza sanitari nei media mainstream. Quello era il momento in cui potevamo abbattere le barriere, perché eravamo tutti spaventati e non abbiamo dato conto alle apparenze. Si poteva accompagnare la società a riconoscersi per quello che è nella realtà oggi”. Rivendica, inoltre, la necessità di includere le persone di origine straniera all’interno delle aziende: “è fondamentale perché favorisce e ti costringe a conoscere l’altro. Nel momento in cui tu lo conosci, ti fai ambasciatore della diversità” e conclude affermando che “le voci ci sono, ma è necessario l’ascolto attivo”.
“Voci senza frontiere è progetto prezioso per la RAI e per il Paese. La Rai considera l’inclusione una priorità e un dovere. Non si può essere deboli, in questo momento, sul tema delle diseguaglianze. Sui temi etici e civili, la Rai e la nostra redazione saranno sempre in prima linea, perché vogliamo sostenere le ragioni del bene comune”, sottolinea il Direttore Rai per il Sociale, Giovanni Parapini. “Il ruolo del Servizio Pubblico deve tornare alle sue origini e deve farlo con il contributo di voci diverse, appunto, voci senza frontiere”.
Kwanza Musi Dos Santos, co-fondatrice dell’Associazione QuestaèRoma, evidenzia come sia presente un’invisibilità sistemica non solo nei media, ma anche nelle aziende, nella Pubblica Amministrazione e nell’intera società. Non è dunque possibile limitarsi alla rappresentazione di esperti e professionisti di origine straniera nei media mainstream, ma è importante implementare la loro presenza “dall’inizio alla fine della catena di produzione di una qualsiasi azienda”. La necessità è quella di “inserire queste persone dentro tutti i livelli, tutte le istituzioni, tutte le aziende, tutte le organizzazioni”.
Triantafillos Loukarelis, Direttore dell’Ufficio Nazionale Anti-discriminazioni Razziali (UNAR), sottolinea come il progetto sia una “salita di livello, che entrerà a far parte della Strategia Nazionale contro il Razzismo, la Xenofobia e l’Intolleranza che attualmente si sta inaugurando insieme a 120 associazioni”. In questo paese – prosegue Loukarelis – c’è bisogno di affermative action, non un’azione obbligata ma una scelta di qualità. “Non ci interessa una “machiettizzazione”, un intervento sensazionalistico delle persone di origine straniera. A noi interessa rappresentare la professionalità e i contenuti delle persone in contesti informativi in cui possono esprimere la pienezza delle loro competenze”.
Roberto Natale, giornalista Rai, afferma come con questa guida “sia stato fatto un importante passo avanti” e sottolinea come essa “si inserisce in un momento in cui il valore della competenza sembra essere tornato in auge” e “il giornalismo italiano non può non cogliere questa occasione e fare un salto ulteriore di competenza per re-legittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica”. E se gli italiani hanno una percezione distorta di determinati fenomeni, questa non può non essere in parte responsabilità dei giornalisti, i quali hanno “strumentalmente fomentato percezioni distorte, raccontando i casi singoli, anziché raccontare le dimensioni reali dei fenomeni, senza saper raccontare il mondo che gli italiani di seconda e terza generazioni hanno costruito.”
“Comunicare le esistenze di soggetti della società multi-culturale significa cambiare il linguaggio a livello visivo e a livello verbale, significa decostruire dei concetti che feriscono i corpi delle persone di cui vogliamo parlare, significa in qualche modo decolonizzare il nostro linguaggio e il nostro immaginario collettivo”, così conclude Susanna Owusu Twumwah, Communication officer del Summit Nazionale delle Diaspore.
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GLI STRANIERI ELETTORI PER UN GIORNO IL VOTO SIMBOLICO SULLA SCHEDA AZZURRA (lun, 27 mag 2019 – GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO – Pag. III)
CITTADINANZA ATTIVA, LA RISORSA STRANIERA (sab, 25 mag 2019 – AVVENIRE – Autore: MARCELLI MATTEO – Pag. 9)
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