Di Ilvo Diamanti su la Repubblica
Per molti anni e da molti anni gli immigrati hanno costituito un riferimento del dibattito politico e mediatico. Due piani che si incrociano, inevitabilmente, perché il dibattito politico ha bisogno dei media, per orientare il “pubblico”. Cioè, gli “elettori”, che, ormai da tempo, coincidono. Largamente. Perché gli “elettori” sono il “pubblico” a cui rivolgersi per costruire il consenso. Per ottenere e aumentare l’audience. E i voti. Gli immigrati, infatti, hanno dato un volto alla nostra insicurezza e alle nostre paure. Protagonisti di uno “spettacolo permanente” che, per molto tempo, ha garantito ascolti. E consensi. Fino a ieri. Perché oggi il clima d’opinione sta cambiando, come mostrano le ricerche condotte dall’Associazione Carta di Roma, che presenterà un nuovo rapporto nei prossimi giorni.
La relazione fra insicurezza, migrazione e comunicazione ha, infatti, funzionato fino alla fine dello scorso decennio. Quando migranti e migrazioni hanno influenzato il clima politico e d’opinione. Infatti, il picco più elevato di presenza sui media e di coinvolgimento emotivo intorno all’arrivo degli immigrati, negli ultimi recenti, si osserva negli fra il 2017 e il 2018. Nella precedente stagione elettorale. Una tendenza che riemerge negli ultimi mesi. Segnati, non a caso, dal voto dello scorso 25 settembre. Ma con misure ed effetti diversi. La media giornaliera dei titoli dedicati ai migranti e alle migrazioni, infatti, si è ridotta a meno di un terzo, rispetto al 2018. E il grado di insicurezza generato da questo tema è, sua volta, sceso sensibilmente, per quanto in ripresa, rispetto agli ultimi mesi.
I temi della campagna elettorale e le ragioni del voto, in questa occasione, sono stati altri. L’affermazione di Giorgia Meloni, infatti, riflette soprattutto una domanda di cambiamento. Per “andare oltre” la stagione della responsabilità segnata dal governo guidato da Draghi. Accompagnato da un sostegno troppo ampio per riprodurre le in-soddisfazioni diffuse nella società, di fronte ai sacrifici “promessi”. Così, davanti agli altri, si è imposto l’unico partito rimasto “fuori” dalla coalizione di governo. I Fratelli d’Italia guidati da Giorgia Meloni. Sospinta non tanto da messaggi di paura, ma da immagini rassicuranti. Giorgia. “Madre, donna, cristiana”. Ha richiamato le tradizioni e le radici sociali. Mentre gli immigrati sono rimasti ai margini della “sua” e di “questa” campagna elettorale.
D’altronde, dopo molti anni di evidenza ed emergenza, sul piano mediatico e politico, ormai, gli immigrati non suscitano emozione. E neppure paura. Prevale, piuttosto, un diffuso senso di abitudine. Anche per chi li vede come “un Male”. È la “crisi dei dogmi”, come l’ha definita Luigi Manconi. Degli argomenti utilizzati per “far fronte” a un fenomeno che va “affrontato” senza ideologie. Tanto più in un Paese dove l’economia ha bisogno di manodopera, fornita, in misura crescente, dai migranti, come ha chiarito esplicitamente la Coldiretti.
In secondo luogo, gli immigrati non evocano più “l’altro che viene da lontano”. Perché i flussi più rilevanti di immigrati, nell’ultimo anno, provengono dall’Europa. Da Est. Dai Paesi coinvolti nel conflitto fra Russia e Ucraina. E, quindi, anzitutto dall’Ucraina. Verso la quale il senso di solidarietà, fra i cittadini, è molto ampio. L’immigrato, dunque, non è più “l’altro”. Con un “altro colore”. Ma (quasi) uno di noi. Costretto a emigrare per fuggire da una minaccia che anche noi sentiamo vicina. Per le conseguenze largamente evocate sul piano delle risorse “energetiche” ed “economiche”. Che condizioneranno – con effetti già evidenti – la nostra vita nei prossimi mesi.
Si intuisce, così, la ragione forse più importante della minore inquietudine provocata dagli immigrati. “L’emergere di nuove emergenze”. Di nuove paure. Anzitutto, il Covid, che dal 2020 si è insinuato e diffuso fra noi. E siamo noi stessi a diffonderlo. Il Covid è uno straniero “invisibile”, che attraversa le frontiere. Perché non ha frontiere. Inoltre, come conferma il Report curato da “Carta di Roma”, assistiamo, sui media, a una “guerra in diretta”. Che si combatte non lontano da noi e avrà conseguenze anche per noi.
Per questo, nel XIV Rapporto sulla Sicurezza (in realtà, sull’In-sicurezza), realizzato, alcuni mesi fa, in base a una ricerca condotta da Demos – Fondazione Unipolis in 5 Paesi Europei, “l’immigrazione” è indicata solo dal 7 per cento degli italiani fra le (due) emergenze prioritarie. Superata, di gran lunga, dai problemi economici, dall’inefficienza e dalla corruzione politica. Oltre che dalla pandemia.
Gli immigrati, dunque, non fanno più notizia, come un tempo. Perché giungono da Paesi relativamente vicini. In fuga da guerre che inquietano anche noi. Perché ci siamo abituati a loro. Perché siamo stati “costretti” a considerarne l’utilità. Così, chi in passato ne ha fatto una bandiera per attrarre consensi oggi deve cercare altri argomenti, se non altri nemici. Per questo, conviene considerare gli immigrati non come “altri da noi”, ma “altri fra noi”. Che dobbiamo “integrare”. Per guardare avanti. Insieme.
Di Anna Pozzi su Avvenire
«Ci sono ragazzi che partono senza sapere cosa li aspetta. Alcuni arrivano in Marocco e pensano di essere già in Europa. Invece, il peggio deve ancora cominciare!». Un velo di tristezza adombra per un attimo gli occhi di Nafy Konaré che solitamente sono luminosi e fieri. Esprimono tutta la caparbietà e l’entusiasmo di questa giovane donna che ha deciso di intraprendere una strada “al contrario”: quella di una migrante di successo in Europa che è tornata nel suo Paese, il Senegal, per investire nell’agricoltura. «E’ questo il futuro – si dice convinta nella sua casa di Thiès, a est di Dakar – sia per dar da mangiare a questo Paese molto vulnerabile dal punto di vista della sicurezza alimentare, sia per frenare i flussi migratori di tanti giovani che partono con la sola idea di partire».
Sognano l’Eldorado e finiscono all’inferno. E’ quello che è successo lo scorso 24 giugno a ridosso dell’exclave spagnola di Melilla, dove sono morte 37 persone. Ma è quello che succede continuamente anche lungo la rotta marittima verso le Canarie, una strage quotidiana e invisibile di migliaia di giovani africani che tentano la traversata su fragili piroghe. Sono già quasi 9mila quelli sbarcati nel 2022, ma nessuno sa esattamente quanti ce l’hanno fatta. Quella di Nafy e della sua famiglia, che ha creato KonaTrans, una società di produzione, trasformazione e trasporto di prodotti alimentari – tra cui il fonio, un cereale tipico dell’Africa Occidentale, recentemente riscoperto per le sue proprietà nutritive – è una delle tante storie di impegno dal basso che si incontrano in Senegal. Storie di coraggio, di fatiche e di lotte. Per Nafy, come per molti altri, non si tratta solo – ed è già tanto – di contrastare l’impatto dei cambiamenti climatici sull’agricoltura e di far fronte ai troppi impedimenti e ai pochi finanziamenti: è anche una battaglia culturale per cambiare una mentalità diffusa specialmente tra i giovani che considerano degradante il lavoro nei campi e preferiscono partire, andando a ingrossare i flussi migratori interni – che stanno facendo esplodere le periferie sempre più sterminate e degradate di città come Dakar – e quelli verso l’Europa.
Ababacar Diouf è stato in un certo senso un “pioniere” della migrazione verso l’Italia, che si è ingrossata sino a fare della comunità senegalese la prima subsahariana con le sue 111 mila presenze. Diouf è arrivato nel nostro Paese nel 1979 per studiare Agraria a Firenze e poi tornare a Dakar. Oggi lavora come capo dipartimento al ministero dell’Agricoltura. «Una delle questioni che ci preoccupa di più – spiega – è la gestione dell’acqua. La nostra agricoltura è strettamente legata alle precipitazioni che sono sempre più irregolari. Già da dieci anni lavoriamo su cambiamento climatico, agricoltura e insicurezza alimentare. E già diverse volte siamo dovuti intervenire con piani straordinari».
Il suo ministero, in collaborazione con l’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo (Aics), ha avviato nel 2021 un importante programma triennale denominato Piesan nella zona delle Niayes. «Si tratta di un progetto di agricoltura eco-sostenibile – spiega Serigne Cissé, consigliere del ministero per Piesan – che mira ad appoggiare gli agricoltori, in particolare giovani e donne, affinché possano migliorare le produzioni, il trasporto e le vendite e unirsi in cooperative per diventare più forti». L’obiettivo è anche quello di fornire strumenti e competenze per far fronte ai cambiamenti climatici, alla salinizzazione della terra e all’utilizzo abusivo di pesticidi, ma anche di creare lavoro e promuovere la salvaguardia dell’ambiente. «Sono coinvolti anche giovani che pensavano di emigrare e altri che sono di ritorno. Un po’ alla volta si rendono contro che attraverso l’agricoltura possono vivere meglio loro e le loro comunità».
Ci sono anche diverse ong italiane che lavoro in questo ambito: come Cospe, Lvia e Cisv, che hanno da poco concluso il progetto Migra (Migrazioni, Impiego, Giovani, Resilienza, Auto-impresa) nelle regioni meridionali, al confine con Guinea e Guinea-Bissau, coinvolgendo pure migranti di ritorno, che spesso soffrono lo stigma sociale del fallimento, oltre ai traumi del viaggio. Queste regioni sono potenzialmente più ricche d’acqua, rispetto a quelle del centro e del nord, ma anche qui si è sentito, insieme ai cambiamenti del clima, l’impatto del Covid-19. «In tutti i settori che abbiamo analizzato – agricoltura, allevamento, pesca, ma anche ristorazione, artigianato e trasporti – abbiamo notato come siano state colpite principalmente le imprese più piccole e meno strutturate. Tutto ciò si è tradotto in un calo importante delle attività», precisa Anna Meli, responsabile comunicazione di Cospe, in missione in queste terre.
Terre dalle grandi potenzialità, ma anche estremamente fragili, dove si vede in maniera ancora più evidente l’intreccio di cause ed effetti del clima impazzito, anche di conflitti e instabilità, di speculazioni e sperequazioni, dei contraccolpi della pandemia e di quelli della guerra in Ucraina, con migliaia di tonnellate di cereali bloccate nei porti, mentre nel mondo cresce l’allarme- fame e l’esodo forzato di popolazioni. Il Senegal, del resto, si colloca proprio sul margine occidentale di quella vasta ragione del Sahel e dell’Africa Occidentale che oggi è tra le più a rischio al mondo. Quest’anno le previsioni delle agenzie internazionali sono particolarmente catastrofiche: si stima, infatti, che tra giugno e agosto più di 38 milioni di persone saranno in situazioni di crisi alimentare, con particolari criticità nelle aree interessate da crisi e insicurezza. Anche in Senegal c’è molta preoccupazione. Il Paese – che è uno dei pochi stabili nella regione – sta vivendo settimane di fibrillazioni politiche e di manifestazioni talvolta violente, in vista delle elezioni legislative di fine luglio. Ma se a Dakar si respira un po’ di questa tensione, nelle aree rurali lo sguardo è rivolto innanzitutto verso l’alto a scrutare il cielo in vista delle attesissime piogge stagionali.
«Quest’anno nel Sud sono arrivate in anticipo di due settimane – spiega il responsabile del servizio meteorologico dell’aeronautica militare senegalese (Anacim), Diabel Ndiaye – ma nel 2020 il gioverno ha dovuto mettere in campo un piano d’urgenza per la sicurezza alimentare a causa della siccità. La situazione climatica è sempre più instabile». Il grafico che ci mostra non lascia spazio a dubbi: dall’inizio del secolo scorso sino agli anni Novanta, si susseguono con regolarità strisce azzurre, che un po’ alla volta si alternano a strisce arancioni e rosse, sino a diventare progressivamente di un unico colore bordeaux sempre più scuro. «L’innalzamento delle temperature – ci dice – è un’evidenza- Ma a creare molti problemi sono anche l’imprevedibilità delle precipitazioni e i fenomeni meteorologici estremi, così come la salinizzazione e l’erosione delle terre».
Sidy Sarr sa bene cosa significa tutto questo. «Sono loro che mi danno da vivere! – esclama mentre ci mostra orgoglioso i suoi campi lussureggianti -. Occorre però modernizzarci. Non possiamo più affidarci solo alle piogge». Lui, infatti, si affida al sole. Accanto a una vasca piena d’acqua, c’è un piccolo impianto solare che fa funzionare la pompa e l’irrigazione. «L’altra grande forza sta nel non rimanere isolati». Lui, ad esempio, è vice segretario di una cooperativa con circa cinquemila iscritti: «Lo sviluppo – dice – si fa insieme!».
Hanno collaborato Codou Loum e Anna Sarr nell’ambito del progetto Nouvelles Perspectives.
Immagine in evidenza su Avvenire
In riferimento al secondo principio della Carta di Roma (Tutela della privacy e dell’identità di rifugiati, migranti e richiedenti asilo), si chiede a giornaliste/i e ai professionisti della comunicazione di tutelare l’identità e la privacy delle persone afghane di cui si riporta la notizia o che vengono intervistate.
La natura delle motivazioni alla base della scelta di fuggire dal proprio paese può essere tale da esporre loro stessi e soprattutto i familiari (rimasti in Afghanistan) a ritorsioni, tanto da parte delle autorità, sia da parte di entità non statali o di organizzazioni criminali, nel caso in cui si verifichi un’esposizione mediatica non attenta.
Nel caso di persone di nazionalità afghana giunte nel nostro paese o in attesa di lasciare il paese si chiede di evitare la pubblicazione di qualsiasi elemento che possa portare alla loro identificazione. In caso di interviste si chiede di proteggere nome, volto e voce e di prestare attenzione a tutti quei dettagli che possono permettere di risalire all’identità dell’intervistato (caratteristiche fisiche peculiari o il racconto di aneddoti particolari).
Si suggerisce inoltre, anche in presenza di un consenso libero e informato dell’interessato, di evitare la pubblicazione del nome completo dell’intervistato (a meno che sia indispensabile per la sopravvivenza propria e/o della famiglia).
Nella attualità della crisi drammatica che sta attraversando il paese, ci sono pervenute informazioni circa arresti e aggressioni a familiari di persone afghane giunte in Italia nelle ultime 48 ore; è responsabilità degli operatori dei media ridurre i rischi di rappresaglie verso i familiari rimasti in patria, tutelando l’identità delle persone afghane che accettano di raccontare la propria esperienza.
Le Linee guida per l’applicazione della Carta di Roma sono scaricabili qui
Foto in evidenza di Roberto Salomone
A cura della redazione di Carta di Roma
Nel Tg2 delle 13 di oggi, 28 giugno, il quinto titolo era dedicato ad una notizia molto allarmante giunta dalla Germania. Questo il testo del titolo letto dalla conduttrice: “Dopo il caso di venerdì a Wurzburg, su cui si indaga per odio islamista, nuovo attacco ai passanti in Germania, due persone sono state ferite, in fuga l’aggressore”.
A distanza di pochi giorni, dunque, due “attacchi” con modalità analoghe, su uno si “indaga per odio islamista”. L’ombra del terrorismo è evidente.
Il lancio da studio del studio del servizio si concentra sull’episodio del giorno e non ripropone l’accostamento con quello precedente: “In Germania questa mattina c’è stato un nuovo attacco con un coltello a Erfurt. Ferite due persone. L’aggressore è ancora in fuga”.
La cronaca del corrispondente invece è centrata sulla sovrapposizione dei due episodi. La prima metà del servizio racconta quello più recente, quello avvenuto nella mattinata: “Tutto è successo in pochi secondi. Alle sei del mattino in una zona periferica di Erfurt, capoluogo della Turingia, nell’est della Germania. Un uomo ha ferito due passanti con un coltello. Sono in ospedale ma non in pericolo di vita”. A questo punto il corrispondente traccia il profilo dell’aggressore e qui le informazioni risultano dissonanti rispetto all’enfasi del titolo: “Testimoni lo descrivono sui 30 anni, biondo, parla tedesco senza alcun accento. La polizia lo cerca invano da stamane, anche con gli elicotteri”. Quindi l’attacco è condotto presumibilmente da un tedesco, certamente da un uomo biondo che “parla tedesco senza accento”.
Cosa ha a che fare questo episodio con il paventato allarme terrorismo dell'”odio islamista” annunciato nel titolo? Sembra non c’entri un bel niente, in effetti lo ammette anche il corrispondente della Germania che prosegue il racconto della seconda metà del servizio dedicata al primo episodio di aggressione avvenuto un paio di giorni prima in un’altra parte della Germania: “Ci sono evidenti differenze, ma la strage di oggi riporta alla strage di tre giorni fa a Wurzburg nel sud della Germania”. Ci sono evidenti differenze, dunque. La prima, il corrispondente la sottolinea subito, a Wurzburg: “Un somalo 24enne con problemi psichici nel centro della città ha preso di mira diverse donne uccidendone 3, ferendone gravemente 5 e molte altre più lievemente”. Cambia l’episodio e cambia anche il linguaggio: nel primo caso l’aggressore era “un uomo”, adesso invece diventa “un somalo”. È un esempio da manuale di etnicizzazione della notizia, quella cattiva abitudine del giornalismo che trasforma nazionalità in notizia. Non è più una persona a commettere il reato ma è un somalo, per di più con problemi psichici. La nazionalità è associata all’atto commesso, come se ne fosse un sinonimo.
Ma il racconto non finisce con la negazione della dimensione umana dell’aggressore. Poco dopo succede qualcosa di ancora più sorprendente, anche l’ipotesi che il movente sia da attribuire all'”odio islamista” sembra perdere consistenza, affidata solo a degli indizi. Ci informa il servizio che: “nel rifugio per senzatetto dove l’uomo abitava ci sono indizi di propaganda d’odio islamista, ha detto il portavoce della Cancelleria Zeiberg. Ma l’aggressore ha precedenti per patologie psichiche, tutti elementi, ha concluso sui quali bisogna indagare”.
Quindi qual è davvero la storia che il servizio ci ha raccontato? Perché nel titolo si parla di un duplice attacco e ne viene suggerita la matrice dell’odio islamista? Cos’è poi l'”odio islamista”, come si configura effettivamente?
A noi sembra un modo inaccettabile di raccontare notizie, un modo centrato sull’equivoco, la supposizione, l’indizio, che fanno carta straccia della ricerca della verità sostanziale dei fatti che dovrebbe essere il primo dei principi del buon giornalismo. Non del giornalismo buono, ma del buon giornalismo (tra gli obiettivi del contratto di servizio pubblico della Rai che integra, tra le altre, la Carta di Roma) di cui oggi, nel Tg delle 13, non si è vista traccia.
ELOGIO DELLA CONVIVENZA (dom, 19 mag 2019 – LA LETTURA (CORRIERE DELLA SERA) – Autore: FALOPPA FEDERICO – Pag. 10)
I RIFLESSIONI LA METAFORA DEL SABIR PER COSTRUIRE UMANITA’ (lun, 20 mag 2019 – NUOVO QUOTIDIANO DI PUGLIA – ED. LECCE – Pag. 1)
SABIR: IL FESTIVAL CHE CELEBRA LE CULTURE DEL MEDITERRANEO (sab, 18 mag 2019 – IL FATTO QUOTIDIANO – Pag. 16)
VIAGGIO AL CENTRO DEL MEDITERRANEO COL FESTIVAL SABIR (ven, 17 mag 2019 – LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO – ED. LECCE – Pag. 19)
LA RESISTIBILE ASCESA DEI NERI (gio, 23 mag 2019 – LEFT – Pag. 14/15)
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SABIR, II FESTIVAL A LECCE: MUSICA IN PIAZZA DUOMO (gio, 09 mag 2019 – NUOVO QUOTIDIANO DI PUGLIA – ED. LECCE – Pag. 22)
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