Di Francesca Spinelli su Internazionale
La morte di una persona è più grave se avviene in Spagna invece che in Marocco? E se invece avviene mezzo metro prima di varcare quel confine? Sono alcune delle domande sollevate dall’inchiesta Reconstructing the Melilla massacre, coordinata dalla redazione di giornalismo investigativo Lighthouse Reports e uscita lo scorso 29 novembre.
In collaborazione con alcune testate europee e con il sito d’informazione marocchino Enass, Lighthouse Reports ha ricostruito meticolosamente i fatti accaduti il 24 giugno 2022 nell’enclave spagnola in territorio marocchino.
Quel giorno di giugno, nel tentativo di entrare a Melilla per chiedere la protezione internazionale, centinaia di persone sono rimaste intrappolate tra uno spiegamento di agenti marocchini e le recinzioni oltre le quali erano schierati gli agenti spagnoli. Sotto una pioggia di lacrimogeni, manganellate e proiettili di gomma, sono morte nella calca almeno 37 persone. Di altre settantasette non si hanno più notizie. Chi era riuscito a superare la linea del confine è stato respinto. Nessuna assistenza medica è stata fornita ai feriti, nonostante la presenza di ambulanze da entrambi i lati della frontiera.
Nella regione non era la prima volta che si verificava una simile strage (non una “tragedia”, non un “incidente”, termini prediletti dalle autorità spagnole e da gran parte dei mezzi d’informazione locali). Il 6 febbraio 2014 circa duecento persone erano partite dalla costa marocchina per cercare di raggiungere a nuoto l’altra enclave spagnola nel nord del Marocco, Ceuta. La guardia civíl aveva risposto sparando lacrimogeni e proiettili di gomma e causando la morte di almeno 14 persone. Di tredici ne conosciamo il nome (Yves, Samba, Daouda, Armand, Luc, Roger Chimie, Larios, Youssouf, Ousmane, Keita, Jeannot, Oumarou, Blaise), una vittima è rimasta anonima. Ma i dispersi sono molti di più. È il “masacre del Tarajal”, dal nome di una spiaggia di Ceuta, commemorato ogni anno da una marcia per la dignità.
Quel giorno del 2014 gli spagnoli hanno imparato una lezione: e così nel giugno scorso a Melilla non si sono sporcati le mani, lasciando che gli agenti marocchini entrassero in territorio spagnolo per riprendere chi era riuscito a passare il confine. “Persone raccolte e gettate via come carcasse, persone con le mani legate dietro la schiena lasciate al sole a morire per le ferite riportate”, dice Daniel Howden, fondatore di Lighthouse Reports. “I vivi e i morti accatastati gli uni sugli altri”.
Dal primo giorno il ministro dell’interno spagnolo Fernando Grande-Marlaska ha dichiarato che non c’era stato “nessun morto sul suolo spagnolo”. Mentiva, come hanno sostenuto i sopravvissuti e come hanno dimostrato inchieste e rapporti, l’ultimo dei quali pubblicato da Amnesty international il 13 dicembre. Howden definisce Reconstructing the Melilla massacre un esempio di accountability journalism: per far sì che qualcuno in Spagna debba rendere conto di quello che è successo “abbiamo cercato di tracciare una linea di demarcazione netta lungo il confine per stabilire se le persone erano state schiacciate e picchiate a morte dal lato marocchino o da quello spagnolo”.
Tra le vittime c’era Anwar, 27 anni, che aveva lasciato il Sudan nella speranza di “migliorare le condizioni di vita” della sua famiglia, come ha raccontato sua nipote ad Amnesty international, e di aiutare la madre malata. Anwar è morto in territorio spagnolo.
Ma a prescindere dall’impatto politico che questa e altre inchieste avranno in Spagna, e a prescindere anche dalle gravissime responsabilità delle forze marocchine, Howden ci tiene a sottolineare una cosa: “Anwar è morto per colpa di un sistema creato a beneficio della Spagna. Il dispiegamento e le azioni delle forze marocchine di quel giorno sono il prodotto di negoziati con le autorità spagnole. I marocchini non hanno nessun interesse a impedire ai richiedenti asilo africani di entrare a Melilla. E la Spagna riceve fondi dall’Unione europea per finanziare le sue operazioni alla frontiera. Melilla è una frontiera europea, le persone cercano una protezione nell’Ue, quindi questa è una vicenda europea, indipendentemente dal fatto che le persone siano morte o meno un metro oltre quella che di fatto è una linea arbitraria” (nonché un retaggio del passato coloniale della Spagna, che rifiuta di restituire le due enclave al Marocco).
C’è un’altra bugia di Grande-Marlaska su cui occorre soffermarsi, perché riflette uno slittamento linguistico e politico preoccupante a livello europeo. Grande-Marlaska ha dichiarato a più riprese che a Melilla la guardia civíl si è dovuta difendere da un “attacco violento”, versione smentita da un rapportopubblicato già a luglio dall’Association marocaine des droits humains. Dopo la crisi al confine tra Polonia e Bielorussia nel 2021, i discorsi di governi e istituzioni europee sui migranti si sono ulteriormente induriti attraverso la scelta deliberata di presentarli come “assalitori”, manipolati o meno da stati terzi. Dopo i trafficanti e le ong, ora i governi europei includono tra i nemici da combattere anche i profughi, e non lo fanno solo a parole. Nella proposta di regolamento sulla fantomatica “strumentalizzazione della migrazione”, elaborata dopo la crisi con la Bielorussia, la migrazione è stata associata – per la prima volta in un testo legislativo – al termine “attacco”.
Se approvato, il regolamento permetterebbe di derogare al diritto d’asilo in determinate circostanze e questo, per riprendere il titolo di un comunicato firmato da oltre ottanta organizzazioni, sarebbe “il colpo di grazia per il sistema europeo comune di asilo”. L’8 dicembre i ministri dell’interno europei riuniti a Bruxelles non sono riusciti a trovare un accordo sulla proposta, che la presidenza ceca sperava di far approvare entro la fine dell’anno. In un commento, l’European council on refugees and exiles (Ecre) auspica che la proposta sia ritirata, ma dipenderà dalle priorità della Svezia, prossimo stato a esercitare la presidenza del consiglio.
Mentre “attacco” si fa strada nel lessico istituzionale, c’è una parola che non si troverà mai nei discorsi e nei testi ufficiali sulle politiche migratorie e d’asilo europee. Ma è la parola che collega l’uccisione di Anwar al regolamento sulla strumentalizzazione, le bugie di Grande-Marlaska ai centri di detenzione segreti in Bulgaria, Croazia e Ungheria al centro dell’ultima inchiesta coordinata da Lighthouse Reports (in Italia è uscita su Domani). È la parola razzismo.
Come osserva la rete Picum (Platform for cooperation on undocumented people), l’impegno espresso dall’Unione europea attraverso il suo Piano di azione contro il razzismo, lanciato nel 2020, si ferma dove cominciano le sue politiche migratorie e d’asilo. I controlli esercitati sulla circolazione delle persone, spiega il ricercatore Luke de Noronha, citato nell’analisi di Picum, infatti “producono e riconfigurano distinzioni e gerarchie razziali (anche se non formulate in termini razziali)”. In un recente commento pubblicato su OpenDemocracy, la ricercatrice Iriann Freemantle parla di “terrorismo razziale contemporaneo, volto a dissuadere i migranti non solo dal muoversi fisicamente, ma anche dal desiderare una vita migliore”.
Se le sue radici affondano nel passato coloniale europeo, il razzismo che oggi si esprime nella violenza con cui l’Ue tratta persone originarie di alcuni paesi va inquadrato nel suo contesto storico. Secondo il ricercatore Fabian Georgi, “l’attuale recrudescenza del razzismo in Europa può essere interpretata come una controreazione a una serie di sconfitte politiche” subite dalla destra conservatrice. La prima è la diversificazione delle società europee “sul piano etnico e culturale” rispetto agli anni novanta, diversificazione che è andata di pari passo con l’affermarsi delle lotte antirazziste e la messa al bando quasi unanime del razzismo “vecchio stile e diretto” degli anni ottanta. La seconda sconfitta è stata la scelta – vissuta come un tradimento dalla destra – di alcuni attori neoliberali di promuovere “una retorica nuova e meritocratica sulla diversità e il multiculturalismo, sottolineando i benefici economici e altri effetti positivi legati alla migrazione”.
La “lunga estate della migrazione”, come alcuni studiosi chiamano la “crisi dei rifugiati” del 2015, ha accelerato questa controreazione e oggi, in un contesto di crisi sociale ed economica, una parte sempre più ampia della popolazione europea si riconosce nei programmi populisti della destra e dell’estrema destra, in cui s’intersecano razzismo, autoritarismo e nazionalismo ultraconservatore.
Eppure, diversamente da quanto succede negli Stati Uniti, “in Europa parlare di razza e di uguaglianza spesso è considerato inopportuno”, osserva Howden. A molti europei non piace ammetterlo, ma se a Melilla le persone sono picchiate e uccise “e le loro storie ricevono così poca attenzione è per via della loro provenienza e del colore della loro pelle”. Se il diritto d’asilo cade a pezzi e il rispetto dei diritti fondamentali è diventato facoltativo agli occhi di gran parte dei governi europei, è perché molti di quei leader si considerano superiori ad Anwar. E ora che i profughi hanno la pelle più scura considerano superato un quadro giuridico nato per proteggere dei profughi bianchi nel secondo dopoguerra.
Il 14 dicembre, in un’intervista al settimanale belga Knack, la ministra dell’ambiente delle Fiandre, Zuhal Demir, ha messo sullo stesso piano richiedenti asilo e suini, dichiarando che nelle Fiandre non c’è posto né per i primi né per i secondi. Da mesi il suo partito, la formazione nazionalista N-Va, si contende il primo posto nei sondaggi con il partito di estrema Vlaams Belang. Insieme raccolgono quasi il 48 per cento delle preferenze nelle Fiandre.
È un esempio tra tanti dello sdoganamento di discorsi, pratiche e politiche razziste in tutta l’Unione europea. Ma i movimenti di denuncia si moltiplicano e sempre più spesso si alleano su scala transnazionale, come dimostra la campagna “Unfair. The Un refusal agency”, che il 9 e il 10 dicembre ha portato fino a Ginevra le rivendicazioni di chi è intrappolato in Libia e negli altri paesi ai quali l’Ue appalta le sue politiche di respingimento. Alle persone presenti alla conferenza stampa, David Yambio, portavoce di Refugees in Libya, si è rivolto con queste parole: “Siamo pieni di storie da raccontare, pieni di incubi da scrollare via dai nostri corpi. Ma voi, siete pronti ad accoglierli? Siete pronti a lottare per un mondo migliore?”.
Foto in evidenza Javier Bernardo, Ap/LaPresse (su Internazionale)
Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Una lunga distesa di tetti in lamiera, casette di terra, tende sorrette da pezzi di legno, impilati uno sull’altro. Per 13 anni il campo profughi Zam Zam è stato la casa di Said*. Nato in Darfur, una delle regioni più povere del Sudan, dove gli sfollati interni sono migliaia, il ragazzo ha passato l’infanzia in questo luogo sospeso, tra precarietà e insicurezza. Gli unici momenti felici erano i giochi con gli altri bambini e i giorni in cui il vicino di tenda, un medico, lo portava con sé mostrandogli il suo lavoro. “Un giorno anch’io diventerò un dottore” pensava, ma la sua istruzione è sempre stata irregolare. Ma a cambiargli la vita da un giorno all’altro è stata la violenza: poco più che bambino ha dovuto assistere alla ferocia brutale delle milizie janjaweed, che una volta entrate nel campo hanno ucciso e torturato alcuni membri della sua famiglia. Said è riuscito a nascondersi e, messosi miracolosamente in salvo, ha capito che l’unica speranza erala fuga: a fatica è riuscito ad arrivare in Libia dove è stato portato subito in un centro di detenzione per migranti. Qui è stato trattenuto per 5 mesi, tra gli abusi e le vessazioni degli aguzzini che volevano far pagare un riscatto ai suoi familiari. Così, per la seconda volta, Said si è dato alla fuga: nel 2020, è fuggito in Niger e lì ha chiesto asilo. Per due anni la sua casa è stata di nuovo un campo per rifugiati, stavolta ad Agadez. Qui ha incontrato Abdoul* anche lui diciassettenne, nato in Darfur e scappato dai janjaweed. Insieme hanno iniziato a immaginare una nuova vita lontano, dove poter ricominciare a vivere come gli altri ragazzi della loro età.
Nel 2021 sono arrivati in Italia con il programma “Pagella in tasca”, realizzato da Intersos insieme a Unhcr. Il nome è un omaggio alla storia di un bambino maliano di soli 14 anni, morto nel Mediterraneo centrale, che viaggiava con un unico documento addosso: una pagella scolastica, arrotolata nella tasca del giubbotto, con voti altissimi. Nella pratica, si tratta di uno speciale corridoio umanitario riservato ai minori non accompagnati. Un progetto unico a livello mondiale che l’Italia per prima sta sperimentando proprio a partire dal campo di Agadez.
Il Niger è uno snodo cruciale dei flussi migratori lungo la rotta del Mediterraneo Centrale soprattutto a partire dal 2015, quando le politiche di esternalizzazione dell’Unione europea finalizzate a bloccare i flussi migratori hanno determinato la sostanziale chiusura delle frontiere verso Nord. Questo ha aumentato fortemente i rischi per chi tenta di attraversare il deserto e raggiungere la Libia. Contestualmente negli ultimi anni proprio dal Niger sono stati attivati programmi di resettlement e complementary pathways per realizzare l’arrivo sicuro di un piccolo numero di rifugiati dai campi di Agadez verso l’Europa, gli Stati Uniti e il Canada.
Paradossalmente, tuttavia, i minori non accompagnati (cioè che viaggiano da soli) sono esclusi dalla maggior parte di questi programmi. Non possono, infatti, essere inseriti nei corridoi umanitari verso l’Italia. E non si tratta di una specificità italiana: a livello internazionale, non risulta che minori non accompagnati siano mai stati inseriti nell’ambito di complementary pathways, neanche verso Paesi con una consolidata esperienza in questo ambito come il Canada o la Gran Bretagna. Molti Stati, infine, non accettano questi minori nei propri programmi di resettlement.
I più vulnerabili tra i rifugiati sono dunque esclusi a priori dalle vie legali più sicure. “Uno dei problemi è costituito dalla complessità delle procedure per il trasferimento e l’accoglienza dei minori non accompagnati – spiega Elena Rozzi, responsabile del programma “Pagella in tasca” per Intersos -: Gli adulti possono decidere autonomamente, per i minorenni invece serve qualcuno che possa valutare se il trasferimento in un altro Paese risponda o meno al ‘superiore interesse del minore’. Può sembrare scontato che per un ragazzo non accompagnato rifugiato sia meglio andare in Italia anziché restare in un campo profughi, ma serve comunque una procedura formale per stabilirlo”.
Per trasferire un minore da un paese all’altro è necessario, poi, il consenso dei genitori che vanno rintracciati nel Paese d’origine o in un Paese terzo. “Se ciò non è possibile bisogna almeno dimostrare di avere svolto tutti gli sforzi possibili per trovare i familiari- aggiunge Rozzi -. L’altra questione riguarda poi l’accoglienza perché un minore non accompagnato può essere accolto solo in un centro autorizzato o accreditato come struttura idonea ai sensi della legge, oppure si può ricorrere all’affidamento familiare. E non è facile trovare posti disponibili nelle strutture per minori così come famiglie disponibili e valutate idonee”.
Infine ci sono gli ostacoli legati alla gestione delle procedure amministrative: ogni minore non accompagnato deve essere segnalato al Tribunale per i minorenni, che deve nominare un tutore. Ma la nomina spesso arriva dopo mesi. E fino a quel momento chi gestisce l’accoglienza del minore spesso incontra problemi per iscriverlo a scuola o al Servizio Sanitario Nazionale o ad avviare la procedura per la domanda d’asilo. “Tutti questi elementi rendono il trasferimento e l’accoglienza in Italia dei minori non accompagnati particolarmente complessi. Si spiega perché sia così difficile inserirli in programmi di resettlement e, soprattutto, nei complementary pathways – spiega ancora la responsabile di Intersos -. Questo paradosso lo vediamo bene nei due campi in Niger, ad Hamdallaye e Agadez. In questi campi, infatti, sono accolte alcune centinaia di minori non accompagnati, prevalentemente originari del Darfur, nati durante la guerra che ha insanguinato la loro terra d’origine provocando centinaia di migliaia di morti. Molti di questi ragazzi sono fuggiti da soli dal Sudan in Libia, dove hanno subito maltrattamenti, sfruttamento e torture, e spesso sono stati detenuti in centri di detenzione. Ma una volta accolti in Niger hanno poche possibilità soprattutto dal punto di vista educativo e formativo”.
Così la maggior parte degli adulti e dei nuclei familiari accolti nel centro Etm (Emergency Transit Mechanism) sono inseriti in programmi di resettlement e in complementary pathways come i corridoi umanitari verso l’Italia. I minori non accompagnati no. Alcuni in questi anni, colti dalla disperazione, sono nuovamente partiti per la Libia. Il progetto “Pagella in tasca” è nato proprio per provare a superare questo paradosso.
L’organizzazione umanitaria Intersos, che lavora dal 2018 in Niger, ha avviato nel 2020 il progetto pilota per la sperimentazione a livello internazionale di un complementary pathway per minori non accompagnati. Prevede l’ingresso in Italia di 35 minori rifugiati in Niger, con un visto per studio e la loro accoglienza in affidamento familiare. Il progetto è innovativo anche perché finalizzato alla promozione del diritto allo studio ed è fondato sul rilascio di un visto d’ingresso per studio non universitario, previsto dal Testo Unico sull’Immigrazione per minorenni tra i 15 e i 17 anni, ma ad oggi mai utilizzato per promuovere l’ingresso di minori rifugiati: a differenza dei corridoi umanitari, dunque, questo canale di ingresso si fonda non su una “concessione” da parte dello Stato relativa a una specifica quota di ingressi, ma su una norma ordinaria che prevede il rilascio del visto per studio a fronte di determinati requisiti oggettivi e senza quote. Inoltre “Pagella in tasca” è basato sulla community sponsorship con il supporto delle famiglie affidatarie, dei tutori volontari e delle organizzazioni del privato sociale, e sul ruolo centrale dei Comuni e delle scuole. Il progetto è realizzato in partenariato con UNHCR, il Comune di Torino, l’Ufficio Pastorale Migranti della Diocesi di Torino, la Rete CPIA Piemonte, la cooperativa Terremondo, le associazioni ASAI, Mosaico – Azioni per i rifugiati e Frantz Fanon, e con il sostegno della Conferenza Episcopale Italiana, della Fondazione Migrantes, di Acri e della Fondazione Compagnia di San Paolo.
Ad agosto 2021, dopo quasi un anno di negoziazione, è stato firmato un Protocollo d’intesa nazionale che vede tra i firmatari, oltre ai partner del progetto, anche il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, il Ministero dell’Interno, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e la Fondazione Migrantes. “Il primo gruppo di 5 minori è entrato in Italia a ottobre 2021, mentre il secondo gruppo è arrivato a ottobre 2022. Per poter far arrivare in Italia attraverso questo canale altri minori non accompagnati rifugiati, stiamo cercando nuove famiglie affidatarie disponibili ad accoglierli e altri Comuni interessati a partecipare al progetto – aggiunge Rozzi -. Naturalmente, “Pagella in tasca” è solo una goccia nel mare: si tratta di 35 minori che entreranno in Italia con un canale regolare e sicuro, a fronte di più di 10.000 persone morte o disperse nel Mediterraneo negli ultimi 5 anni e oltre 85.000 persone intercettate e riportate forzatamente in Libia mentre cercavano di fuggire dalla guerra, dalle violenze e dalle torture, con il supporto delle autorità italiane e dell’Unione Europea – conclude Rozzi -. Ma bisogna ricordare che i complementary pathways non devono essere usati mai per legittimare le politiche di esternalizzazione e di chiusura delle frontiere”.
Anche secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) il progetto “Pagella in Tasca” è innovativo sotto vari punti di vista. “In primo luogo, ha come focus specifico la tutela dei minori. In secondo luogo, si basa sull’idea di garantire l’accesso al diritto fondamentale allo studio dei minori rifugiati, un diritto negato nella stragrande maggioranza dei casi. Infatti, i minori vengono selezionati per il progetto tenendo in considerazione non solo le loro necessità ma anche la loro propensione a proseguire il percorso di studio – spiega la rappresentante per l’Italia, la Santa Sede e San Marino, Chiara Cardoletti -. In terzo luogo, il progetto prevede, attraverso la sinergia tra il terzo settore, enti locali e comunità di accoglienza, la possibilità che i ragazzi inclusi nel progetto, una volta giunti in Italia, vengano accolti presso famiglie affidatarie e non in centri per minori”.
* I cognomi dei soggetti coinvolti, minori non accompagnati, non vengono indicati per tutelarne l’identità. UNA VIA SICURA è un reportage in dieci puntate realizzato e pubblicato da Redattore Sociale in collaborazione con Acri. Il lavoro giornalistico, curato da Eleonora Camilli con il supporto grafico di Diego Marsicano e la supervisione di Stefano Caredda, affronta da più punti di vista il tema delle migrazioni, raccontando alcune delle esperienze supportate da Acri nel suo Progetto Migranti.
Foto in evidenza di Redattore Sociale
Di Anna Spena su Vita.it
Siamo a Trieste, in Piazza della Libertà, una delle più importanti della città, dove si trova la stazione ferroviaria. Ogni giorno, tra il tardo pomeriggio e la sera, qui arrivano più di 100 persone: i migranti della Rotta Balcanica, in molti partiranno subito per il Nord Europa. Il flusso aumenta o diminuisce a seconda dei mesi e a seconda di quanto la polizia croata – al confine con la Bosnia Erzegovina – li respinge indietro in modo che non possano arrivare in Europa. E in queste settimane il numero di ingressi è aumentato. L’ultimo rapporto di Frontex ha rilevato che, nei primi dieci mesi del 2022, gli arrivi ai confini esterni dell’Unione Europea sono stati circa 275mila, con un aumento del 73% rispetto ai primi dieci mesi dell’anno precedente. La rotta più attiva rimane quella dei Balcani Occidentali, dove si sono registrati 128.438 attraversamenti, un aumento del 168%. E Infatti «in Bosnia Erzegovina, in modo particolare nel Cantone di Una – Sana», dice Silvia Maraone, project Manager dell’Ipsia, ong delle Acli, «oggi ci sono poco meno di 4mila migranti. Ma il numero delle persone ancora bloccate qui, inferiore agli anni passati, non dice tutto su quello che sta accadendo. Il dato interessante è un altro: il numero delle persone che superano il “game” – espressione utilizzata dai migranti per indicare il passaggio tra il confine bosniaco e quello croato – ad oggi è circa il 170% più alto dello scorso anno». Mentre il neo Governo si è lanciato contro una nuova crociata verso le ong che soccorrono i migranti in mare e urla ad un’emergenza che in Italia non esiste, è solo il sistema dell’accoglienza a operare in maniera emergenziale dato che 7 migranti su 10 sono accolti in centri straordinari, erroneamente si continua a non guardare alle rotte terrestri.
Non tutti i migranti che passano i confini terrestri vengono registrati. L’unico dato ufficiale che esiste in Italia, pubblicato dal Ministero dell’Interno, tiene conto solo del numero dei migranti arrivati via mare, quindi degli sbarchi. Dal primo gennaio al 16 novembre 2022 in Italia sono arrivati 93.241 migranti, tra loro 11.172 (dato aggiornato al 14 novembre ndr) sono minori stranieri non accompagnati. E allora alla domanda: “quanti sono i migranti che ogni anno passano per l’Italia?”, la risposta è “non lo sappiamo”. Quello che possiamo fare è avere delle stime e confrontare le voci delle organizzazioni umanitarie e dei volontari che presidiano i punti nevralgici delle rotte di terra per dare prima assistenza ai migranti che arrivano. Tre i luoghi principali da considerare: il Friuli Venezia Giulia, nello specifico la città di Trieste, perché il punto d’arrivo delle Rotta Balcanica, quindi l’ingresso in Italia e le due frontiere d’uscita, Oulx in Val di Susa, e i comuni di Ventimiglia e Mentone, dove i migranti provano a passare il confine con la Francia, ma più e più volte vengono respinti dalla parte Italiana del confine.
«Dallo scorso agosto», spiega Gian Andrea Franchi, vice presidente dell’associazione Linea d’Ombra odv, organizzazione di volontari che presta cure mediche, dà indumenti puliti a chi passa in transito per la città di Trieste e organizza viaggi in Bosnia per portare aiuti concreti ai migranti e agli attivisti presenti sul posto, «il flusso dei migranti che arrivano dalla Rotta Balcanica è aumentato notevolmente. Parliamo di una media di almeno 80 persone al giorno, con picchi fino a 200. Questo dipende anche dal fatto che la polizia croata – che da anni ormai effettua respingimenti illegali e usa lo strumento della violenza contro i migranti – sta facendo passare più persone, questo per loro significa anche un impiego minore di forze di polizia ai confini». A Trieste stanno arrivando anche molte famiglie con minori. «Diverse famiglie curde», continua Franchi. «Stanno arrivando persone anche dall’Africa subsahariana, che prima non vedevamo, e poi sempre pakistani, afghani, nepalesi».
Per avere un’idea, o almeno per provare a ricostruire, quante persone passano per il territorio italiano dobbiamo guardare oltre agli sbarchi via mare, alle stime di Frontex, alle domande d’asilo che ci dicono chi si ferma qui, anche ad un altro dato: quello dei respingimenti. Un flusso di persone maggiori in ingressi significa che ad Oulx, in Val di Susa, ma ancora di più a Ventimiglia e Mentone, le persone si bloccano perché vengono rispedite indietro dalla polizia francese. Guardando i dati del Prefetto del Dipartimento PACA (Provence-Alpes Maritimes-Cote d’Azur) e del Ministero dell’Interno Italiano nel 2016 ce ne sono stati 31mila, nel 2017 è stato registrato un picco di 50mila, per poi tornare a 29.600 nel 2018. Nel 2019 il numero è calato ancora, con poco più di 18mila respingimenti. E il 2020 non è stato da meno: nonostante la pandemia abbia bloccato quasi totalmente i flussi durante la primavera, il numero delle persone respinte è pari a 22.616. «Nel 2021», spiega Jacopo Colomba, project Manager di WeWorld a Ventimiglia, «al confine con la Francia sono state respinte 22mila persone. Quest’anno i respingimenti saranno superiori ai 30mila».
Per la stragrande maggioranza delle persone che arrivano dalla Rotta Balcanica, l’Italia non è il Paese di destinazione. Ma anche se lo fosse, non è così scontato risalire al numero di migranti che decide di fare domanda d’asilo nel Paese: «Il ministero dell’Interno», spiega Gianfranco Schiavone dell’Asgi, Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, «non pubblica mai i dati complessivi sulle domande d’asilo presentate dalla persone che non arrivano via mare. È una volontaria omissione, come se queste persone non esistessero anche quando poi di fatto fanno domanda d’asilo in Italia e rientrano nel nostro sistema di accoglienza. Solo in Friuli Venezia Giulia, lo scorso anno, sono state presentate circa 10mila domande».
WeWorld ha aperto 2 anni fa a Ventimiglia una struttura di accoglienza insieme a Caritas Intemelia e Diaconia Valdese, pensata per famiglie e donne che cercano di attraversare il confine con la Francia e che hanno bisogno di un riparo per la notte. Dal novembre 2020 ha ospitato 787 nuclei familiari per un totale di 2.278 persone in fuga da 37 paesi diversi. La struttura è stata aperta per sopperire alla chiusura del Campo Roja, il presidio della Croce Rossa italiana dove venivano accolti i migranti di passaggio. «Le stime sono sempre imprecise», continua Jacopo Colomba, «ma tra agosto e fine ottobre ci sono stati circa 150 respingenti al giorno. Dall’inizio di novembre i respingimenti si sono attestati sui cento. Il 10% delle persone che intercettiamo sono minori stranieri non accompagnati, in prevalenza afghani, anche molto piccoli. La maggior parte delle persone sono originarie dell’Africa sub-sahariana, soprattutto da Eritrea, Costa d’Avorio, Nigeria, Guinea ed Etiopia, sono arrivate dalla rotta mediterranea, o già nel nostro paese ma uscite dal sistema di accoglienza italiano. Poi c’è un’altra parte proveniente dai Paesi del Nord Africa – Tunisia e Libia- dal Medio Oriente, principalmente da Afghanistan, Siria, Iran e Iraq/Kurdistan. Loro arrivano principalmente seguendo la rotta balcanica o quella del Mediterraneo orientale. Ventimiglia è diventata la “Lampedusa del nord” dal 2015. Quando la Francia ha letteralmente chiuso ogni punto di passaggio abbiamo visto la militarizzazione dei valichi per fermare e scoraggiare i flussi migratori».
Prima la maggior parte dei migranti provava ad attraversare la frontiera in treno: di solito alla prima stazione francese, quella di Menton Garavan, li aspettava la polizia francese, che perquisiva tutte le carrozze. Alcuni provavano a nascondersi nei bagni, altri nei vani elettrici. Lo scenario è cambiato a partire da marzo 2021, ovvero da quando sono stati introdotti i controlli sui documenti da parte di pattuglie miste italo-francesi direttamente sul binario del treno diretto in Francia alla stazione di Ventimiglia, sulla base di un nuovo accordo bilaterale fra i Ministeri dell’Interno dei due paesi. Ciò ha determinato che provare il passaggio tramite treno è diventato estremamente più difficile, di conseguenza vengono attualmente preferiti altri metodi. «Molti provano ad attraversare rivolgendosi a un passeur, pagando per nascondersi in una macchina o nel retro di un camion. Altrimenti c’è chi tenta camminando sulla ferrovia, o in autostrada, o ancora per i sentieri del crinale: il più famoso è il cosiddetto “passo della morte”, alla fine del quale la polizia francese ha installato telecamere e droni per controllare la montagna dall’alto».
Foto in evidenza di Lorena Fornasir, presidente dell’associazione Linea d’Ombra
Di Maurizio Ambrosini su Avvenire.it
Italia e Francia si rinfacciano, dunque, accuse di disumanità e di irresponsabilità sul dossier sbarchi e rifugiati, offrendo un deprimente spettacolo di discordia e di contrapposizione in un momento in cui l’Europa dei diritti e dei valori universali dovrebbe essere più che mai unita.Ma che cosa c’è di vero nell’idea dell’Italia «lasciata sola» a fronteggiare gli afflussi di profughi? Non molto, in verità, se si allarga lo sguardo dagli approdi via mare (e dalla parte minima di essi derivanti dai salvataggi in mare operati da Ong internazionali) all’accoglienza delle persone in cerca di protezione internazionale: quelle in definitiva che comportano oneri di ospitalità e presa in carico da parte degli Stati riceventi.
Secondo Eurostat, nel 2021, sono arrivate ai governi della Ue 537mila prime richieste di asilo, aumentate del 28% rispetto al 2020, anno della pandemia. E ad accoglierne di più è stata come sempre la Germania (148.000), seguita proprio dalla Francia (104.000), poi dalla Spagna (62.000). L’Italia si è collocata al quarto posto, con 45.000 richieste di asilo: meno della metà dei cugini transalpini. Se guardiamo al rapporto con la numerosità della popolazione, la Svezia (25 richiedenti asilo ogni 1.000 abitanti), l’Austria (15), o la stessa Francia (6), sono più ospitali dell’Italia (3,5), collocata sotto la media dell’Europa Occidentale.Ci sono poi i cosiddetti “movimenti secondari” dei rifugiati che, arrivati sul territorio di uno Stato, si spostano in un altro e ripresentano una domanda di asilo: la Francia nel 2021 ne ha ricevuti 30.000, molti dei quali passati attraverso l’Italia. Il punto è che i profughi non arrivano solo dal mare, ma anche via terra, a piedi, in auto, con trasporti pubblici, oppure in aereo, come i venezuelani che sbarcano in Spagna. Gli sbarchi sono più drammatici e visibili, ma non prevalenti. È uno sguardo ristretto, disinformato o volutamente distorto, quello che vede soltanto i profughi che approdano sotto casa sua.
Parigi ha poi accettato volontariamente la ricollocazione di 3.500 persone sbarcate in Italia: impegno appunto volontario, attuato con lentezza e presumibile riluttanza, ma pur sempre gesto di buona volontà. La provocazione italiana, che ha rivendicato come una vittoria l’accoglienza della Ocean Viking in un porto francese («L’aria è cambiata»: il ministro Salvini su facebook), ha scatenato la contro-provocazione francese: niente più accoglienza volontaria. Chiedere solidarietà ai vicini per storia e geografia e poi bastonarli o irriderli non è mai una buona mossa, così come far finta di non vedere le frontiere ermeticamente chiuse e la solidarietà sistematicamente negata dai vicini ideologici (i Paesi con governi nazional-sovranisti).
Dove la Francia si muove su un terreno discusso e discutibile è il controllo dei confini terrestri: qui la libera circolazione attraverso le frontiere interne della Ue è stata di fatto ristretta, sono state introdotte forme di profilazione razziale, sono stati perseguitati gli attivisti, è stata messa a repentaglio la vita dei profughi in transito per un principio di difesa dei confini non meno assolutizzato, e disumano, di quello che l’Italia si è tornati a inalberare. Nessuno in Europa d’altronde ha la coscienza pulita, se si pensa alle discusse imprese di Frontex ai confini esterni, o agli accordi con Paesi di transito come Libia, Turchia, Marocco.Viviamo un tempo fosco in cui le persone in fuga diventano «armi di una guerra ibrida», ai confini della Polonia, «carico residuale» sulle coste italiane, «animali» nel linguaggio di Donald Trump. Si cercano e ottengono voti respingendo le persone, oppure deportandole da un’altra parte. Basti pensare al tentativo di Danimarca e Regno Unito di trasferire i richiedenti asilo in altri continenti.
Ma anche Ron DeSantis è diventato una celebrità trasportando sull’isola di Martha’s Vineyard 50 migranti senza documenti validi, perlopiù venezuelani, convinti di andare a Boston. Gli esseri umani bisognosi di protezione diventano strumento cinico e crudele di cattura del consenso politico. Vogliamo tenacemente sperare in un Occidente e in un’Europa migliori, di cui l’accoglienza ai profughi ucraini ha dato un esempio: non sia un’eccezione, ma un’anticipazione profetica di un mondo migliore e più umano.
Di Nello Scavo su Avvenire.it
Si dice che le parole plasmano il mondo. Non sempre in meglio. Specie se sono parole infarcite di menzogna, di tornaconto, usate per scavare fossati e tenere a distanza i morsi della coscienza.A chi verrebbe in mente di definire degli esseri umani «carico residuale»? Ci vorrebbe un Primo Levi per farsi spiegare cos’è un «carico residuale» fatto di carne umana, di anime ferite, di sguardi spersi, di famiglie separate: mamme e figli a terra, papà da rispedire ai mittenti da cui scappano. «Le parole erano originariamente incantesimi, e la parola ha conservato ancora oggi molto del suo antico potere magico.
Con le parole un uomo può renderne felice un altro o spingerlo alla disperazione». Chissà se i nuovi governanti e legislatori hanno mai letto Freud. O hanno ascoltato almeno un po’ papa Francesco, che a certe parole ha restituito il peso che fingiamo di non sentire più: «La cultura dello scarto, che colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura».
È «il carico residuale», in fondo non è che un altro nome dato agli «scartati». La neolingua orwelliana si arricchisce così di nuove allocuzioni. Con l’obiettivo non dichiarato di confondere la realtà rimescolando proprio le parole e il loro senso. Ma le parole sono anche rivelatrici. Diversi decenni dopo, quando ancora una volta in Europa risuonano le sirene antiaeree e il disprezzo dell’altro è di nuovo elevato ad arma di guerra con cui giustificare i colpi di fucile e le peggiori depravazioni, in quel Mediterraneo culla delle civiltà da chissà quale abisso vengono a galla editti ministeriali che sembrano vergati da doganieri addetti allo smistamento di qualche mercanzia.
Intervistato da Rtl 102.5 , ieri Matteo Salvini ha detto: «Bisogna stroncare il traffico non solo di esseri umani, ma anche di armi e droga». Esattamente ciò che “Avvenire” denuncia da anni, con nomi, cognomi, rivelando connessioni internazionali, legami che vanno dalla politica libica a quei faccendieri maltesi con un pied-à-terre nei palazzi del potere e coinvolti nell’omicidio di Daphne Caruana Galizia, fino ai mammasantissima della mafia siciliana. Prove passate al vaglio della magistratura nazionale e internazionale. Quel “Libyagate” che continua ad essere alimentato dalla “trattativa” tra Roma e Tripoli, sfociata nel memorandum d’intesa varato nel 2017 e confermato per due volte dai nostri governi.
Anche quello attuale, che appena cinque giorni fa ha lasciato che “il patto della vergogna” si rinnovasse d’inerzia. Nessuna parola, ancora una volta, viene spesa contro i crimini commessi in Libia dalle autorità del Paese e denunciati (se non bastassero anni di inchieste giornalistiche) da una ventina di rapporti firmati dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres e da 23 dossier della Procura internazionale dell’Aja. Ma del resto, se si tratta di «carico residuale», che senso ha sprecare anche una sola parola per loro?
Il Garante nazionale, nell’urgenza di salvaguardare l’incolumità fisica e psichica delle persone soccorse in mare da alcune navi battenti bandiera norvegese e tedesca, ribadisce fermamente la necessità che i diritti fondamentali delle persone prevalgano sulle controversie tra Stati.
Come già in passato e quale proprio dovere in quanto Meccanismo nazionale di prevenzione di trattamenti inumani o degradanti in virtù di un trattato ONU ratificato dall’Italia, ricorda a tutte le parti coinvolte i rischi che un mancato celere sbarco in un porto sicuro comporta, non solo per la salute delle persone ma anche sul piano della responsabilità in sede internazionale. A bordo delle navi in attesa si trovano centinaia di minori non accompagnati e persone vulnerabili provate da una lunga e travagliata permanenza in mare. Una situazione che deve terminare.
Se, in base ai trattati internazionali, gli Stati di bandiera delle navi in attesa di sbarco non hanno un obbligo di coordinamento delle operazioni di soccorso, è però vero che lascia stupiti la generale indisponibilità degli Stati membri a partecipare alla redistribuzione delle persone soccorse, una volta terminata la fase di salvataggio. Ancora una volta viene a mancare lo spirito che è alla base dei valori fondanti dell’Unione Europea.
Il Garante nazionale riafferma la propria censura di ogni tentativo di leggere primariamente con le lenti della contrapposizione politica il tema della salvaguardia dei diritti umani, trasformando le persone, comprese quelle più vulnerabili, in strumenti per affermare una propria visione della realtà, anche se astrattamente legittima.
Foto in evidenza di Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale
Di Alessandro Cinciripini su Voci Globali
Lo scorso 3 ottobre a Lampedusa si è svolta la celebrazione in memoria dei 368 morti e 20 dispersi del naufragio avvenuto nove anni fa al largo dell’isola. Dal 2013 più di 24.000 persone hanno perso la vita nel Mediterraneo. Di fronte alle morti in mare e al caos politico che interessa la Libia, l’Italia, appoggiata dall’UE, ha perseguito una cinica politica di esternalizzazione delle frontiere.
Nel 2017 venne siglato il cosiddetto Memorandum d’intesa con la Libia, il cui rinnovo automatico per altri tre anni avverrà il prossimo 3 novembre 2022. Così facendo il Governo italiano ha nei fatti derogato i propri valori costituzionali anteponendo i propri interessi politici ai diritti umani.
L’indomani del naufragio di Lampedusa fu varata la missione militare di soccorso “Mare Nostrum”, ma ben presto il Governo italiano si mosse verso l’instaurazione di rapporti bilaterali con il Governo di Tripoli. Il documento, siglato il 2 febbraio 2017 dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e dall’allora primo ministro libico Fayez al-Sarraj, prevede il sostegno diretto dell’Italia al fianco di Tripoli nel contrasto all’immigrazione clandestina e alla tratta di esseri umani. L’iniziativa seguì uno schema già consolidato dal Governo Berlusconi nel 2008 con il Trattato di Amicizia Cooperazione e Partenariato.
Con la stipula dell’accordo si è assistito a una completa cessione del controllo dei flussi migratori provenienti dal Sahel e dall’Asia alle milizie libiche. Negli ultimi 5 anni l’Italia ha sostenuto capi militari che hanno aggravato e perpetuato la spirale di violenza che oggi coinvolge il Paese africano. Grazie ai fondi ricevuti, i gruppi armati hanno fatto della schiavitù dei migranti la loro principale fonte di reddito. Nei centri di detenzione trattamenti disumani, violenze e abusi sono una tremenda normalità.
In aggiunta, la Guardia Costiera Libica, formata e addestrata dall’Italia, si è dimostrata null’altro che una delle tante bande al potere in Libia. Dal 2017 al 2020 sono stati emessi finanziamenti diretti alla GCL per un valore di 22 milioni. Nel 2021 le cifre sono aumentate a 10,5 milioni, mentre per il 2022 si arriverà a 11,8 milioni. Nella sua leadership spiccano nomi di trafficanti come Abd al-Rahman Milad noto come Bija, ricercato per traffico di esseri umani. Attraverso il Memorandum, la Libia ha visto riconosciuta dall’Europa la propria zona SAR (Search and Rescue) nella quale oggi si consumano naufragi, respingimenti e plateali omissioni di soccorso.
Per questo motivo, dal 2017 nel Mediterraneo opera un servizio civile europeo di soccorso marittimo. Organizzazioni non governative da tutt’Europa hanno riempito il vuoto lasciato dagli Stati, cercando di garantire una possibilità di soccorso a chi sfida le acque del Mediterraneo. Tra queste, l’italiana Mediterranea Saving Humans. Voci Globali ha raccolto la testimonianza di uno dei fondatori nonché capomissione sulla Mare Jonio, Luca Casarini:
“Mediterranea nasce nel 2018 durante la cosiddetta “politica dei porti chiusi” dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. Di fronte al diniego dell’Italia di ottemperare agli obblighi della Convenzione di Amburgo e della Convenzione di Ginevra sui Rifugiati, abbiamo dato vita a Mediterranea. La nostra è una ANG, “azione non governativa”, siamo una piattaforma che accoglie sigle come Banca Etica, la Chiesa Cattolica, l’ARCI e molte altre. Ciò che ci unisce è la volontà di salvare vite umane, il resto è venuto da sé.”
In merito alla decisione dell’Italia di siglare l’accordo con Tripoli, Casarini prosegue:
“L’esternalizzazione delle frontiere in Europa non è un fenomeno nuovo. In Italia si è costruita una narrazione emergenziale completamente distorta sul fenomeno migratorio. Attraverso la retorica “dell’invasione” abbiamo normalizzato questa situazione, in cui il mero tornaconto politico seppellisce i diritti umani. Questo è un fattore trasversale, che unisce tutta la politica ed è per questo che ci battiamo affinché il Memorandum venga stracciato. Dal 2018 è in atto una campagna di criminalizzazione del soccorso civile in mare, Mediterranea è nata per aggirare la politica di chiusura dell’Italia, il termine che uso è quello di “Cospirazione del Bene”. Perciò siamo stati investiti da un’inchiesta della Procura di Agrigento per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma non ci hanno fermato.”
In Libia si susseguono scontri armati tra i trafficanti, l’ultimo che risale al 7 ottobre ha lasciato sul campo i corpi carbonizzati di 15 migranti. Il monopolio delle milizie sul traffico ha causato un aumento dei rischi collegati alla traversata in mare e maggiori difficoltà per le attività di soccorso:
“Le operazioni di contrasto dei libici si strutturano su tre livelli. Il primo consiste nell’anticipare il nostro intervento e riportare in Libia i migranti. Il secondo è invece la minaccia diretta ai nostri equipaggi di essere deportati per cercare di farci desistere e allontanare. Questo tipo di intimidazioni sono all’ordine del giorno. Infine, le motovedette libiche con la complicità di La Valletta hanno iniziato a eseguire i push-back anche nella SAR maltese. Tutto questo accade con il supporto diretto della flotta aerea e dei droni di FRONTEX . Abbiamo prodotto delle prove che implicano il coinvolgimento in questo tipo di operazioni anche del moto-trasporto italiano “Caprera” adesso in rada a Tripoli.”
Per ciò che riguarda le testimonianze raccolte in questi anni, il quadro che emerge è estremamente drammatico:
“Le persone che soccorriamo a bordo portano i segni delle violenze subite nei lager libici. In quei campi gli stupri sono sistematici, così come gli omicidi, i pestaggi e le torture. Tutto questo viene reso possibile dai finanziamenti italiani ed europei. Oggi tutti gli undici centri di detenzione presenti nel Paese sono gestiti da bande armate, eppure ciò non ostacolerà minimamente il rinnovo dell’accordo. Paradossalmente, l’unica possibilità di cambiamento consiste proprio l’imminente implosione della Libia. In questi anni il tessuto sociale si è completamente disgregato e la violenza endemica rischia di raggiungere livelli ancor più disperati.”
Sui futuri sviluppi del soccorso in mare e del fenomeno migratorio la posizione di Luca Casarini è netta:
“Oggi la flotta del salvataggio civile europeo sta facendo ciò che gli Stati rifiutano. Grazie all’impegno di Sea Watch abbiamo oggi una flotta aerea che è in grado di individuare le imbarcazioni in difficoltà. Alarm Phone ha allestito un MRCC (Maritime Rescue Coordination Centre) indipendente, che segnala i vascelli in avaria e inoltra le chiamate di aiuto. Non possiamo aspettare che siano gli Stati a cambiare idea. Siamo testimoni della progressiva involuzione delle istituzioni pubbliche europee in materia di diritti. Questa, invece, è la risposta delle società civili del Mediterraneo che stanno elaborando una nuova idea di cittadinanza attiva. Nella stessa Libia ci sono organizzazioni come Refugees in Libya, che lotta in maniera pacifica contro le armi dei trafficanti. Il futuro in cui credo è quello delle istituzioni dal basso, che legano le culture e i popoli del Mediterraneo attraverso l’agire insieme per il bene.”
Il rinnovo automatico del Memorandum, previsto per il 3 novembre, non incontrerà nessun tipo di opposizione. Tuttavia, è cruciale riflettere sul peso storico e umano che tale accordo ha riversato non soltanto sulla società italiana ma sull’idea stessa di Europa. C’è da chiedersi quale sarà il giudizio storico sulle scelte dell’attuale leadership e quali prospettive politiche potrà offrire la democrazia europea di fronte alla tragedia in corso nel Mediterraneo.
Foto in evidenza di Mediterranea Saving Humans
Di Luca Rondi su Altreconomia
“Le violenze al confine sono nuovamente tornate a crescere. L’utilizzo di spray urticante, pallini di gomma sparati su persone inermi, giovani obbligati a mangiare le sigarette che avevano nello zaino, bambini divisi dai loro genitori. È il solito copione”. Giulia Moretto, attivista di No Name Kitchen (Nnk), descrive così quanto accade sul confine serbo-ungherese: da quella piccola porzione di confine, in cui un’alta rete metallica e un filo spinato separa i due Paesi, migliaia di persone, uomini, donne e bambini, ancora oggi tentano di entrare nell’Unione europea. La “rotta balcanica” -tante vie che collegano la Turchia al sogno europeo- vede il consueto cambiamento nelle traiettorie percorse dalle persone che tentano il game, come viene chiamato il tentativo di attraversamento della frontiera, in base a dove il confine sembra più permeabile. Quello che non cambia, però, sono la violenza e le chiusure realizzate dalle politiche di governi locali ed europei. Sabato 24 settembre la rete RiVolti ai Balcani ha fatto il “punto” su quanto accade nella regione dei Balcani. E non solo.
La “strategia” europea che vuole trasformare il diritto di asilo in un privilegio per chi è abbastanza forte da resistere ai soprusi non è attuata solamente dai Paesi autocratici dell’Est Europa. Così, quanto succede in Turchia, Grecia, Bosnia ed Erzegovina e Ungheria è collegato alle politiche di esclusione che troviamo anche nel nostro Paese. La “democratica” Italia oggi ostacola infatti sistematicamente l’accesso all’asilo su tutto il territorio. Come ricostruito anche su Altreconomia, chiedere oggi asilo per chi arriva in Italia via terra è un miraggio. “È come se ci fosse una sorta di colpa nel fatto di non essere stati soccorsi in mare o rintracciati nei pressi della frontiera – ha spiegato Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà di Trieste (Ics)-. Per chi incontra le forze dell’ordine al suo arrivo l’amministrazione provvede a collocarlo in un centro e permettergli di chiedere asilo, tutti gli altri, invece, si scontrano contro un muro di gomma che è difficile da bucare”.
Da Trieste a Torino, passando per Milano, Piacenza, Roma: il copione si ripete. “È una strategia di deterrenza evidente, non possiamo parlare di inefficienza. Non si fa presentare la richiesta d’asilo alla persona di modo che questa non abbia diritto all’accoglienza nonostante questo sia un diritto previsto dal nostro ordinamento. Tanto che i tribunali amministrativi stanno condannando per inadempienza le questure e le prefetture. In certi casi si va anche oltre: si chiede ai richiedenti asilo di presentare il proprio domicilio. In un paradosso per cui chi dovrebbe darti un tetto su cui stare, te lo chiede”. È la frontiera burocratica, che oggi lascia all’addiaccio migliaia di persone. “Attualmente abbiamo 275 persone in strada che sono richiedenti asilo ma non vengono accolti – racconta Maddalena Avòn, operatrice legale di Ics-. Dov’è lo stato di diritto? Che tutela stiamo offrendo a queste persone? Vivo in prima persona la sensazione di frustrazione per chi, dopo anni di cammino, pensa di aver concluso il viaggio e si ritrova senza nulla”.
Quel che è certo è che non sono i “numeri” a giustificare la difficoltà delle amministrazioni nel disbrigo delle procedure burocratiche. Sono stati circa duemila gli arrivi a Trieste in agosto. Un numero più elevato rispetto ai mesi precedenti che diventa problematico per chi lavora nell’emergenza ma che in termini assoluti resta una briciola per un Paese, l’Italia, che ha tra le percentuali più basse di richiedenti asilo per abitante. Che l’Italia non sia Paese di arrivo ma di transito lo sa bene anche Martina Cociglio, operatrice legale di Diaconia Valdese che opera nell’alta Val Susa, a Oulx. Qui, a meno di venti chilometri dal confine, il rifugio Massi fornisce sostegno e un pasto caldo a circa 70 persone a notte. Ad agosto sono transitate circa 800 persone, in prevalenza provenienti da Afghanistan, Iran e Marocco e con un’elevata percentuale di minori stranieri non accompagnati. La polizia francese presidia i confini e respinge chi tenta di attraversare.
“Privazione della libertà personale, mancanza di assistenza legale, impossibilità di mediazione, nessun esame individuale della domanda d’asilo: queste sono le principali violazioni dei diritti di chi vuole raggiungere parenti, amici in un altro Paese dell’Ue -racconta Cociglio-. Chi arriva qui è convinto che non esistano più i confini militarizzati e le barriere che ha incontrato fino al giorno prima di quando non era nel nostro Paese. E invece non è così”. I controlli sono stati ripristinati nel 2015 con la giustificazione delle minacce legate al terrorismo: oggi vengono rinnovati ogni sei mesi da parte del Consiglio di Stato francese, senza motivazioni attuali e in contrasto con quanto previsto dal Codice frontiere Schengen. “Il paradosso è che ha più tutele chi arriva in Francia da un Paese terzo, via aereo, rispetto a chi arriva da un altro Paese dell’Ue. In aeroporto vengono riconosciuti molti più diritti che in frontiera. Il tutto con una base pretestuosa: l’Austria nell’aprile 2022 è stata condannata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea per aver ripristinato per un periodo di tempo troppo lungo i controlli ai confini interni”.
Anche chi si vuole fermare e sceglie di tornare a Torino da Oulx, si scontra contro il “muro di gomma” dell’impossibilità di presentare richiesta d’asilo. Un’impossibilità che si riscontra anche nei porti italiani di Ancona, Venezia e Brindisi. Un altro “tassello” di una strategia di negazione del diritto d’asilo messa in atto dal nostro Paese. “Vengono respinti senza neanche aver messo i piedi sul territorio italiano -dice Anna Clementi, operatrice sociale dell’associazione Lungo la rotta balcanica-. Una volta intercettati sono riconsegnati al comandante della nave che li riporta al punto di partenza. Senza alcuna garanzia”.
Ed ecco il collegamento con quanto succede nei Balcani. Il punto di partenza è a Patrasso, in Grecia, dove le persone vivono la violenza della polizia sistematica verso chi vuole imbarcarsi tentando la traversata in container caricati su navi merci. “Vengono spessi chiusi in celle, a volte anche all’aperto, sotto il sole, e lasciati per ore senza un documento che giustifichi il loro trattenimento. Un ‘segnale’ che la polizia vuole mandare a tutti coloro che sono pronti a imbarcarsi”. Più in generale la Grecia continua a essere un “laboratorio per le politiche securitarie messe in atto dall’Ue”, spiega Andrea Contenta, ricercatore indipendente attivo nel Paese. “Il governo porta avanti una politica di apartheid nei confronti dei migranti. C’è una forte criminalizzazione della solidarietà e il tentativo di cambiare l’ordinamento giuridico per poter utilizzare i fondi dell’Ue per realizzare politiche illegali”.
Risalendo dalla Grecia verso i Balcani occidentali, le rotte percorse da chi è in transito sono cambiate. In Bosnia ed Erzegovina la situazione sembra più “tranquilla” rispetto al passato. Meno respingimenti al confine anche connessi a un cambio di approccio della polizia croata che permetterebbe alle persone di presentarsi nelle stazioni di polizia e ricevere un “foglio di via” con cui poter viaggiare e lasciare il Paese entro sette giorni. “È difficile capire il perché di questo repentino cambio di atteggiamento dal marzo 2022. Sicuramente la vicinanza delle elezioni nel Paese ha un’influenza su tutto questo”, racconta Tamara Cetkovic di Iscos Emilia-Romagna. In Bosnia ed Erzegovina le associazioni incontrano soprattutto famiglie provenienti dal Burundi, che scappano da una situazione molto violenta nel loro Paese, come ricostruito anche da Human rights watch, e che raggiungono in aereo la Serbia e poi tentano di entrare in Ue da diversi confini, oltre che minorenni provenienti da Afghanistan e Pakistan.
Lipa, il campo di confinamento “all’avanguardia” costruito anche dall’Ue, a cui RiVolti ai Balcani ha dedicato uno specifico dossier di approfondimento, oggi conta poche centinaia di presenze e probabilmente verrà sempre più utilizzato come hub per poter aumentare i rimpatri dei migranti verso i Paesi d’origine. Nonostante questo la criminalizzazione della solidarietà continua a colpire. “Il 22 settembre il Service for foreigners affairs del ministro degli Esteri bosniaco ha notificato alla nostra organizzazione uno sfratto per sgomberare una casa entro 48 ore che usiamo come appoggio per immagazzinare il materiale che arriva dalle donazioni -racconta Matilda Zacco di Nnk-. Un atto di intimidazione accompagnato da convocazioni presso le stazioni di polizia per essere interrogati. Sono venuti per trovare un motivo ‘illecito’ per giustificare lo sgombero: non hanno trovato nulla, ma l’obiettivo è stato comunque raggiunto”.
No Name Kitchen è attiva anche in Serbia dove nelle ultime settimane, come detto, si registra un aumento delle violenze. Al confine con l’Ungheria, da un lato, e con la Romania, dall’altro, le persone vengono brutalmente respinte dalla polizia. “È una violenza sistematica -racconta ancora Zacco-. Oltre alla polizia ungherese è presente anche quella austriaca, registriamo infatti moltissimi respingimenti a catena con le persone ‘riportate’ indietro dall’Austria. Abbiamo testimonianze di persone che hanno ricevuto la ‘benedizione’ cristiana e a cui sono state disegnate le croci sulla testa. È una situazione tremenda”. No Name Kitchen stima la presenza di circa 3mila persone nel Nord della Serbia: la difficoltà dell’attraversamento di quel confine, militarizzato e con la presenza di un’alta rete metallica, aumenta anche i profitti per chi contrabbanda i migranti. Il prezzo del confine sale, soprattutto per le famiglie.
Dalla Serbia o dalla Croazia, per chi arriva a Trieste dopo aver attraversato la Slovenia, comincia l’incubo italiano. Le riammissioni, la pagina buia del nostro Paese che ha visto nel 2020 oltre 1.200 persone respinte dal confine orientale verso le violenze della rotta balcanica, sembrano essere interrotte ma permangono gravi violazioni dei diritti. “Sì, è una frontiera in cui l’esercizio dei diritti fondamentali non è garantito -riprende Avòn di Ics- Si verificano situazioni gravi: minorenni registrati come maggiorenni nonostante la presenza di Ong al confine. E poi anche chi viene identificato come minorenne viene lasciato in strada”. Proprio in strada, in piazza della Libertà, continua il lavoro di Linea d’Ombra. “L’aumento degli arrivi e delle richieste degli ultimi mesi ci mette in difficoltà -spiegano Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir-. Questa piazza, la piazza del mondo, resta però il simbolo della resistenza. Di chi vuole cambiare le cose. È un patrimonio che resta di tutti e tutte”.
Di Luigi Ciotti su Lavialibera
La speranza non è reato. Non può essere reato sperare di migliorare le proprie condizioni di vita. Senza speranza non c’è vita ma soltanto sopravvivenza. E a volte neppure quella, quando la situazione intorno è fatta di guerra, carestia, persecuzioni e violenze. Eppure noi pretendiamo di decidere chi ha diritto di sperare, e chi no. Chi ha diritto di vivere, e chi no.La guerra in Ucraina, una sciagurata aggressione militare che in poche settimane ha costretto milioni di persone a lasciare le proprie case per cercare salvezza oltre i confini del Paese, ha smascherato anni di propaganda sul tema dell’immigrazione. La risposta coesa dell’Europa nell’accogliere i profughi e la generosità delle popolazioni, a partire da quelle più prossime al conflitto, ha dimostrato ciò che alcuni sostenevano, inascoltati, da sempre: quando c’è la volontà politica di salvare vite, e mettere la vita umana al primo posto, tutto diventa possibile.
In un tempo veramente breve, la solidarietà nei confronti delle persone in fuga ha consentito di dare efficacia a norme rimaste a lungo sulla carta, di superare vincoli sanitari e burocratici che sembravano insormontabili, di trovare accordi economici e far dialogare pubblico e privati in vista di un migliore coordinamento. Soprattutto, ha messo a tacere chi era abituato a definire “emergenza” l’arrivo, ogni anno, di poche migliaia di disperati attraverso le rotte pericolose del Mediterraneo o dei Balcani. Poiché si è visto che, anche di fronte a numeri ben maggiori, è possibile trovare spazi e costruire condizioni di accoglienza dignitose.
È partita allora la gara dei distinguo, delle classifiche di cosa è più guerra, di chi è più profugo, di quali situazioni sono disperate davvero e meritano la nostra mobilitazione. E poi, magia, si è smesso semplicemente di parlarne, come del resto è molto calata l’attenzione sul conflitto ucraino, non diversamente da quanto accaduto a tutti gli altri conflitti che pure continuano a provocare morte e devastazione nel mondo.
Intanto, i disperati cui si nega il diritto di sperare non hanno smesso di affrontare le rotte di morte del mare e dei monti, trovando sempre le stesse porte chiuse, le stesse leggi selettive, la stessa disumanità. Di fronte a famiglie che con dedizione hanno accolto donne e bambini, investendo spazi privati, soldi e cuore. Di fronte ad associazioni che hanno messo in gioco le loro risorse sempre scarse, pur di rispondere al bisogno di protezione dei più fragili. Di fronte a un sistema scolastico che immediatamente si è attivato per far sentire a casa i piccoli arrivati col trauma della guerra, non è mancato chi ha speculato e ha visto nell’accoglienza un’occasione di tornaconto personale, a livello economico e di immagine. Così, se prima si monetizzava consenso sulla paura dei profughi, subito dopo lo stesso consenso si è monetizzato su una frettolosa pietà nei loro confronti. Quanta ipocrisia e quanto cinismo, mascherati da solidarietà.
Sperare non è reato, ma c’è chi auspica che lo diventi. Mentre scrivo questo articolo, tornano alla ribalta proposte già rivelatesi fallimentari in passato: blocchi navali, decreti sicurezza, respingimenti. E intanto governi illiberali – come Turchia, Egitto, Libia – riescono a condizionare gli equilibri internazionali, mercificando la speranza dei diseredati e la paura di chi vede a rischio i propri privilegi. Tengono in ostaggio migliaia di esseri umani che l’Europa non vuole e in cambio di questo “favore” pretendono soldi e la libertà di reprimere qualsiasi opposizione interna.
Sperare non è reato, ma su quella speranza quanti reati si compiono! Dai trafficanti di esseri umani ai caporali, dai gestori corrotti dei meccanismi di accoglienza ai politici che usano il tema come un’arma elettorale. Il tutto a scapito di chi si muove onestamente per salvare vite e costruire opportunità durevoli, rispettose dei bisogni, dei legami e delle aspirazioni della gente.Sperare non è reato, e noi continuiamo a sperare che questo concetto sacrosanto venga tradotto in politiche lungimiranti e leggi che guardano altrettanto lontano. Non è solo un problema di immigrazione, del resto.
Pensiamo alle norme sullo ius soli – delle quali lavialibera si è occupata qualche numero fa – che non riguardano persone migranti ma giovani nati qui, italiani di fatto. Pensiamo alle sacche di povertà e illegalità in cui vengono lasciate campare comunità di diversa origine: dagli insediamenti informali di famiglie rom alle baraccopoli dei lavoratori stagionali, come se fossero realtà extraterritoriali, fuori dalla nostra giurisdizione, e dove si interviene, se si interviene, perlopiù in maniera repressiva.Pensiamo anche solo al diverso taglio che viene dato alle notizie, specie quelle tragiche: quando a morire in un incidente è un agiato turista straniero oppure uno straniero immigrato, quando a compiere un delitto è un italiano contro uno straniero o viceversa. Il razzismo strisciante che detta i titoli dei giornali in molti casi è lo stesso razzismo applicato ai flussi migratori o alle politiche di integrazione: tu sì e tu no, tu mi somigli mentre a te non voglio correre il rischio di somigliare mai.La speranza non è reato, mentre sarebbe da introdurre il reato di “selezione delle speranze”. La presunzione che abbiamo di definire il grado di felicità e pienezza a cui può aspirare ciascuna vita, in base al luogo di nascita e alla cultura di appartenenza. Non lasciamo che su questo come su altri temi a fare la differenza sia l’indifferenza.
Di Stefano Vecchia su Avvenire
Crescono gli schiavi moderni. Un nuovo rapporto dovuto alla collaborazione tra l’Organizzazione internazionale del Lavoro (Oil), quella per le Migrazioni (Oim) e Walk Free, organizzazione australiana impegnata nel contrasto all’asservimento di esseri umani, traccia in modo aggiornato le coordinate della serie di fenomeni di abuso e sfruttamento che definiscono il fenomeno. Il contenuto del Global estimates of modern slavery report, presentato ieri a Ginevra, è allarmante: dal 2016, ci sono dieci milioni di “nuovi schiavi” in più, per un totale di 49,6 milioni di «nuovi schiavi», il 54 per cento sono donne. Una umanità disperata che si suddivide in due grandi gruppi: quello costretto ai lavori forzati in un gran numero di attività disagiate, pericolose, degradanti, inclusa la prostituzione – 27,6 milioni –; e quello dei 22 milioni di donne costrette a matrimoni forzati.
Una moltitudine che non ha un orizzonte sicuro a cui guardare, perché la nuova schiavitù è diffusa in quasi ogni Paese e colpisce e assoggetta soprattutto i soggetti più deboli e indifesi: gruppi minoritari o emarginati, donne, bambini. I minori sono almeno il 3,3 per cento dei lavoratori forzati, costretti per oltre la metà a sottostare allo sfruttamento sessuale. In un mondo in cui le diseguaglianze si acuiscono, a farne le spese sono spesso ancora oggi gli “ultimi” di ogni realtà. Il paradigma, però, va cambiando.
Il rapporto evidenzia come il 52 per cento del lavoro forzato e un quarto di tutti i matrimoni forzati si ritrovino oggi in Paesi a reddito-medio alto e non a caso – precisa il documento –, i lavoratori migranti hanno una probabilità più che tripla di essere schiavizzati rispetto ai colleghi di cittadinanza locale. La ragione è evidente: privi di documenti, sono facilmente ricattabili, data la condizione di estrema necessità. Gli “schiavi moderni” sono, dunque, invisibili. E il fenomeno si fa sempre più trasnazionale.
Anche per questo il direttore generale dell’Ilo, Guy Ryder, nel presentare il rapporto ha parlato della schiavitù moderna come di «una realtà sconvolgente» la cui persistenza non si può giustificare. Il suo omologo dell’Iom, António Vitorino ha confermato che «sappiamo cosa bisogna fare e sappiamo che si può fare. Politiche e normative nazionali efficaci sono fondamentali, ma i governi non possono farlo da soli.
Le norme internazionali forniscono una base solida ed è necessario un approccio che coinvolga tutti». Una realtà globale va affrontata con strumenti globali e senza indugio perché «l’urgenza è di garantire che tutte le migrazioni siano sicure, ordinate e regolari». Per Grace Forrest, fondatrice e direttrice di Walk Free, occorre che i governi si impegnino però maggiormente e in modo coerente perché «in un periodo di crisi interconnesse, una vera volontà politica è la chiave per porre fine a queste violazioni dei diritti umani».
Nelle raccomandazioni finali il rapporto insiste sull’applicazione delle norme per la sicurezza e la garanzia del lavoro e sull’impegno a mettere fine al lavoro forzato promosso dallo Stato dove questo persiste. Il documento, infine, chiede di estendere la protezione sociale e rafforzare le tutele legali, in particolare delle donne, per cui è labile il confine tra lavoro forzato e matrimonio forzato. In questo senso, l’innalzamento universale dell’età legale per il matrimonio a 18 anni resta un impegno da perseguire con ferma determinazione.
Immagine di Agenzia Ansa
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