Su Vita
In particolare le osservazioni e proposte riguardano il riconoscimento della protezione temporanea anche alle persone che sono fuggite dall’Ucraina nelle settimane precedenti il 24 febbraio 2022 o che comunque in tale data già si trovavano nel territorio dell’Unione (per vacanza, lavoro, studio o altri motivi) e che, a causa del conflitto armato, non possono ritornare in Ucraina; prevedere procedure semplificate per la verifica della cittadinanza ucraina dei richiedenti, del godimento della protezione internazionale in Ucraina, nonchè del legame famigliare o parentale dei familiari, dal momento che il conflitto in atto può impedire alle persone di dimostrare il possesso di tali requisiti in via documentale; di differire il termine per l’esame delle domande di riconoscimento della protezione internazionale prevedendo che il richiedente possa intanto beneficiare comunque del regime di protezione temporanea; prevedere modalità semplificate e veloci per consentire un allontanamento temporaneo dal territorio nazionale dei beneficiari di protezione temporanea, nonchè dei cittadini/e ucraini/e presenti in Italia ancora in attesa della definizione della procedura di emersione; riconoscere la protezione temporanea anche a cittadini di paesi terzi che soggiornavano in Ucraina e che non possono ritornare in condizioni sicure nel proprio paese di origine; ampliare il sistema di accoglienza e integrazione, in particolare il sistema SAI, anche sostenendo concretamente le forme di “accoglienza esterna” (per esempio in famiglia) nell’ambito del sistema pubblico; coinvolgere il Tavolo Asilo e Immigrazione nella definizione degli strumenti operativi e legislativi che definiranno le modalità di gestione dell’accoglienza nel nostro Paese.
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Di Tiziana Ferrario su Articolo 21
In vista dell’ 8 marzo il mio pensiero va a tutte le donne rifugiate costrette a lasciare le proprie case e fuggire dalle guerre con i propri figli. Succede in Ucraina che è sulle nostre prime pagine, ma succede anche in Africa, in Medio Oriente, in Afghanistan e in tante aree dimenticate del pianeta. Le guerre portano solo dolore e non ci sono guerre più importanti delle altre.
Da un giorno all’altro oltre 82 milioni di civili in questi anni si sono ritrovati sradicati dai loro affetti. A loro in questi giorni si sono aggiunti gli ucraini vittime dell’aggressione russa. La più imponente migrazione di rifugiati mai vista nel cuore dell’ Europa. Uomini che restano a combattere, donne che portano in salvo quelli che hanno di più caro, i loro figli. Quando scoppiano le guerre le donne sono quelle che pagano un prezzo altissimo, spesso stuprate per umiliare il nemico.
È lacerante quello che accade fuori dai nostri confini, ma non possiamo mobilitarci solo quando abbiamo paura, perché le bombe stanno cadendo non lontano da noi e le donne con i loro bambini in fuga sono bianche bionde con gli occhi azzurri e vestono come noi. Non possiamo guardare dall’altra parte quando ad avere bisogno di aiuto sono persone che sentiamo lontane geograficamente e diverse esteticamente e culturalmente.
Il fatto che Trieste sia più vicina a Leopoli che a Catania non può farci ignorare il fatto che la pace su questo pianeta si costruisce tutti insieme e che se facciamo finta di ignorare le ingiustizie e le disuguaglianze che accadono ad altre latitudini prima o poi il conto ci verrà presentato.
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Di Fatou Diako su Articolo 21
Nel clima mediatico (e purtroppo pienamente giustificato) della paura collettiva generata dalla crisi ucraina, sembra andare sempre di più diversificandosi il concetto della diaspora, derivante da un significato etimologico comune di fuga o dispersione di un “popolo” o delle sue istituzioni nel mondo.
Se è vero che i conflitti, soprattutto se di violenza indiscriminata, e vicino casa nostra, come quello odierno, stimolano i più atavici timori e si stemperano tiepidamente soltanto nel conforto dell’accoglienza suggerita dalla “pietas” per i più deboli e dall’empatia per le sofferenze umane, è altrettanto vero che fino a poco tempo, nella nostra generale ottusa ignoranza, se si comprendeva in qualche modo che le migrazioni hanno (e hanno avuto nel tempo) origini e natura diversa, corrispondentemente alle differenti situazioni geopolitiche di provenienza, apparivano comunque tendenzialmente univoci il sentimento e l’espressione di quella pietas, che vuole abbracciare il più debole, come concetto o categoria generale, per non farne più distinzione con il sè e con gli altri. Non si è trattato in questo di una banalizzazione dei concetti e delle categorie, ma di una esternazione autentica di un antico senso di compassione umana, che appunto trae origine dalla consapevolezza e ricognizione di sofferenze e debolezze che appartengono indistintamente all’uomo come individuo. Da tale consapevolezza si è sviluppata l’esternazione dell’empatia, nel riconoscimento di una dignità che mai deve essere negata.
Ora, la crisi ucraina con la fuga di massa dei disperati ci sta mettendo di fronte ad uno stravolgimento di quanto sopra indicato e dello stesso concetto di umana compassione. L’empatia nostra non sembra più muoversi indistintamente verso i profughi, o il profugo inteso come individuo destinato alla dispersione, sua, di una collettività originaria, o identitaria, ma comunque degna di attenzione, ascolto e tutela, ma pare perseguire un assurdo ondeggiare suggerito da criteri discriminatori. La guerra che strazia un territorio, non è più la guerra di quel territorio, in grado di ospitare, fino a un certo momento, non un popolo, ma le popolazioni che lo abitano anche se non necessariamente autoctone. È, o sembra essere, la guerra contro i diritti degli ucraini, cui giustamente si volge il nostro sguardo affettuoso, ma solo verso questi appare muoversi l’attenzione, nella generale commozione collettiva, sprezzante degli altri. Ma che ne è di quei profughi, già profughi in terra ucraina e oggi straniti, smarriti e disconosciuti dal mondo? Come non ammettere che la migrazione della migrazione “non è ammessa” o non sempre tollerata? Forse le nostre limitazioni mentali, che ci fanno tendere alle eccessive semplificazioni non sono in grado di cogliere le sfumature delle migrazioni, dei loro caratteri. Nella nostra semplificazione eccessiva, e banalizzazione, del concetto di diaspora, non solo non vediamo le diaspore, ma le discriminiamo, addirittura, lasciandole fuori dall’accoglienza, bloccandole ai confini, facendo differenze che offendono l’uomo vulnerato, non riconoscendolo più come tale, destinandolo all’oblio, mediatico e sociale.
Questa lunga osservazione gira sull’idea di fondo che l’accoglienza è di tutti e per tutti; certamente sarà più facile la via della salvezza per la middle class munita di passaporto, ma come tale categoria non deve essere discriminata perchè in qualche modo già privilegiata, non deve discriminarsi nemmeno il povero o il profugo dell’Ucraina o il passeggero di turno, l’uomo del transito. L’accoglienza, si diceva, è per tutti; è la nota che accorda e consente l’uguaglianza, sociale e sostanziale, che si fa portavoce e portatrice di diritti e di tutele… In fondo, è questione di pietas…
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Di Giovanni Maria Del Re su Avvenire
Dopo una difficile giornata di discussioni, alla fine i ministri dell’Interno Ue hanno trovato l’accordo unanime sull’attivazione, per la prima volta in assoluto, della direttiva Ue per la protezione temporanea del 2001, sia pure con un compromesso per accontentare i Paesi dell’Est. «Accordo storico. L’Ue garantirà protezione temporanea a coloro che fuggono dalla guerra in Ucraina. L’Ue è unita e solidale» ha esultato via Twitter il ministro dell’Interno francese, Gérald Armanin, presidente di turno, al termine del Consiglio straordinario, cui ha partecipato in video anche il ministro dell’Interno ucraino, Denis Monastirski. «Dobbiamo essere soddisfatti – ha dichiarato la titolare del Viminale, Luciana Lamorgese – per l’attivazione di questa direttiva» che «è un’attivazione in linea con tutta l’attività posta in essere dall’Europa» di fronte alla guerra in Ucraina. «Ancora una volta – ha commentato anche Palazzo Chigi – la risposta dell’Ue è stata pronta, rapida, solidale e unita».
Fino al pomeriggio pochi ci speravano. «Se avessimo l’accordo oggi (ieri, ndr) sarei sorpresa positivamente – ammetteva, arrivando alla riunione, la commissaria agli Affari Interni Ylva Johansson –. Non abbiamo avuto il tempo di fare le necessarie consultazioni con gli Stati membri, quindi ci vorrà ancora qualche giorno». A bloccare l’intesa, il fatto che nella proposta della Commissione la protezione temporanea si applicava anche ai cittadini non ucraini residenti di lunga data (per quelli temporanei è previsto il rimpatrio). Inaccettabile per i Paesi di frontiera, Romania, Slovacchia, Ungheria e Polonia, cui ieri si è aggiunta anche l’Austria.
Dopo ore di stallo, Parigi, pur di incassare l’accordo, ha tagliato il nodo gordiano accontentando i Paesi recalcitranti. «Per i cittadini non ucraini o apolidi – si legge nell’articolo 2 modificato del testo della decisione di attivazione – che possano provare di esser legalmente residenti in Ucraina» e «che non sono in grado di ritornare al Paese di origine in condizioni sicure e stabili, gli Stati membri applicheranno o questa decisione (dunque le norme Ue, ndr) o uno status adeguato nel quadro della legislazione nazionale». Tradotto: per i non ucraini, ogni Stato membro potrà decidere liberamente se applicare le norme Ue o le proprie nazionali. Cedimento che ha di colpo sbloccato il negoziato. La presidenza francese era ansiosa di non dare l’impressione di una rottura di quella straordinaria compattezza che fin qui ha mostrato l’Ue di fronte alla guerra in Ucraina.
Probabilmente già oggi verrà formalizzato il testo che, all’articolo 1, certifica «l’esistenza di un afflusso di massa nell’Unione». In base alla direttiva, i profughi ucraini potranno restare legalmente in uno Stato Ue per un anno, prorogabile fino a tre, senza dover chiedere l’asilo. Questione cruciale, vista anche la massa in arrivo: a ieri erano giunti in Europa un milione di profughi.
«Si parla – ha detto Lamorgese – di 7-8 milioni di persone che usciranno dall’Ucraina e andranno nei vari Paesi Ue». Ricorrere alle normali procedure di asilo, oltre a ingolfare i rispettivi sistemi nazionali, ha spiegato Johansson, «avrebbe anche portato a lunghe attese», mentre con la direttiva gli ucraini possono da subito cercare casa e lavoro, andare dal medico o mandare i figli a scuola. Anche se, ammette la commissaria, «non siamo ingenui, i problemi ci saranno, ma siamo in una posizione migliore rispetto alla crisi del 2015».
Non si parla invece per ora di ridistribuzione. «Non è una situazione paragonabile al 2015-16» ha detto il vice presidente della Commissione Margaritis Schinas, oltretutto «le persone si ricollocheranno da sé, stabilendosi dove credono»: da tempo l’Ue ha soppresso l’obbligo di visto per i cittadini ucraini, che possono entrare con un passaporto biometrico (la Commissione ha soluzioni anche per gli ucraini sprovvisti di questo documento) e muoversi liberamente per un massimo di 90 giorni come turisti. Per il tempo successivo scatta la direttiva.
Foto in evidenza di Reuters, su Avvenire
Su Avvenire
Accuse di discriminazione razziale. Sugli autobus al confine tra Ucraina e Polonia, nelle stazioni dei treni, dentro i campi improvvisati per l’accoglienza. Nei giorni dell’apertura delle frontiere da parte dei Paesi di Visegrad, per lasciar spazio all’ondata di profughi in arrivo dall’ex repubblica sovietica, arrivano pesanti imputazioni a carico in particolare delle autorità polacche. Le voci sono state raccolte dalla stampa internazionale e dai social media e puntuale è arrivata la smentita di Varsavia.
«Ci hanno detto “No Blacks“, e ci hanno fatto scendere dal bus che stava attraversando la frontiera con la Polonia. A me, alla mia famiglia e ad altri immigrati» ha raccontato un attivista nigeriano, padre di tre figli, all’Indipendent. «Mio nipote, cittadino del Marocco, è stato respinto alla frontiera tra Ucraina e Polonia. Dopo varie peripezie, con tutta la documentazione, stava tentando di fuggire dall’Ucraina ed entrare in Polonia per prendere un aereo e tornare a casa» ha denunciato una donna italiana su Twitter.
Quanto stanno documentando alcuni inviati, al momento, è soprattutto un diverso trattamento, a seconda del colore della pelle. Razzismo a tutto tondo, in parole povere.
L’ambasciatrice polacca in Nigeria, Joanna Tarnawska, ha però smentito gli atti discriminatori. «Tutti ricevono uguale trattamento. Posso assicurare che ho rapporti sul fatto che alcuni nigeriani hanno già attraversato il confine della Polonia», ha spiegato ai media locali.
Le denunce di razzismo si stanno però diffondendo di ora in ora su Twitter e sugli altri social sotto l’hashtag #AfricansinUkraine. A pesare sarebbe soprattutto il limbo, fisico e giuridico, in cui verrebbero collocati i migranti originari dell’Africa rispetto alle persone nate nell’Est Europa. «Stanno dividendo profughi di serie A e di serie B. È una vergogna».
Nel territorio che separa l’Ucraina dalla Polonia, si stanno riversando dall’inizio del conflitto centinaia di migliaia di cittadini in fuga dalle esplosioni e dai bombardamenti. I primi post e video di denuncia sono comparsi settimana scorsa sul profilo Twitter della dottoressa Ayoade Alakija, inviata speciale dell’Oms per l’emergenza Covid. Nelle immagini dei video si vedono africani, in fuga insieme a centinaia di migliaia di ucraini, davanti ai fucili puntati della polizia di confine che decide chi far entrare e chi no in Polonia, e quindi in Unione Europea.
Sul tema, smentito come detto dall’ambasciatrice polacca in Nigeria, le autorità del Paese africano hanno sollecitato i funzionari governativi polacchi al confine a trattare in modo uguale tutti i profughi e i richiedenti asilo provenienti dalle città ucraine.
Immagine in evidenza di Ansa / Afp
Di Annalisa Camilli su Internazionale
“C’erano bombe giorno e notte, carri armati per strada”. Ha il viso segnato dalla stanchezza, ancora fatica a parlare quando ripensa alle sirene e alle urla che l’hanno svegliata la mattina che Kiev, la sua città, è stata bombardata. Ha detto ai genitori che non poteva più sopportare quella paura: è un’ossessione che ancora la immobilizza, anche adesso che è in salvo.
È scappata il 26 febbraio, portando con sé qualche vestito, delle fotografie e la sua gatta, Musa. Nataliia Lyha ha 26 anni, lavorava in un call center, viveva con sua madre e suo padre nella capitale ucraina e ora è sulla banchina della stazione ferroviaria di Przemyśl, in Polonia. Ci è arrivata prendendo tre treni che hanno percorso i cinquecento chilometri che separano la capitale ucraina dal confine polacco.
“Erano pieni di persone, di bambini, di famiglie. Sono scioccata”, racconta. Il suo fidanzato è in Crimea e sta cercando di raggiungerla, vorrebbero andare insieme in Germania per trovare un po’ di pace. Ha una sciarpa al collo e uno scaldaorecchie per ripararsi dal freddo, mentre le temperature stanno scendendo sotto lo zero e al valico di confine sono caduti i primi fiocchi di neve. Sono quasi tutte donne le passeggere scese dal treno che collega Leopoli a Cracovia, alcune arrivano da Kiev e sono in viaggio da giorni, sono accalcate sulla banchina: c’è un via vai di volontari polacchi, coordinati dai vigili del fuoco e dall’esercito che distribuiscono cibo, bevande calde, vestiti, organizzano l’accoglienza e gli spostamenti.
Gli aiuti arrivano da tutta la Polonia. Una donna ha un cartello in mano, con una scritta in ucraino: “Offro ospitalità a otto persone a casa mia”. Nataliia Lyha le si avvicina, le chiede aiuto. Si chiama Ludmilla Kolosowa, è ucraina, ma vive a Katowice, a quattro ore di macchina dal confine. È venuta per dare ospitalità ai profughi: “Ho un figlio che sta combattendo a Odessa, ho paura per lui, sono qui per dare una mano, offrire da dormire è l’unica cosa che posso fare”. Lyha con la sua gatta saranno ospitate da Ludmilla Kolosowa. “Per un paio di giorni potrò riposare, poi vedremo cosa fare”, afferma Lyha
Anche Maria Dmytryshyn, 16 anni, e sua madre dormiranno a casa della donna ucraina che vive in Polonia. Sono scappate da Leopoli e ci hanno messo un giorno per percorrere una tratta ferroviaria che di solito si fa in due ore. Dmytryshyn è una studentessa, ha portato con sé dei libri e delle foto. “Ho dovuto lasciare quasi tutto a casa, siamo andate vie di corsa”, spiega. Suo padre è rimasto a Leopoli, perché dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina nel paese è in vigore la legge marziale e tutti gli uomini tra i 18 e i 60 anni non possono andarsene, così molti di loro portano la famiglia in salvo nei paesi limitrofi e poi tornano indietro a combattere. Maria Dmytryshyn vuole andare a Varsavia e poi provare a studiare o a lavorare. “Non potevamo rimanere a casa, era troppo pericoloso”, racconta. Ha lasciato suo padre, sua nonna e il suo cane che si chiama Conchiglia. “Torneremo a prenderli appena ci sistemiamo”.
Ci sono file di ore ai valichi di frontiera con la Polonia. Una volta attraversato il confine i profughi trovano ad aspettarli amici o semplici conoscenti, ma anche sconosciuti che sono pronti ad accoglierli nelle loro case. C’è una pagina Facebook in polacco e ucraino in cui si offrono posti letto, passaggi in auto private, aiuti di ogni tipo per i profughi che sono al confine.
Stanno arrivando organizzazioni umanitarie e volontari da tutta Europa in Polonia per gestire quella che è già una nuova emergenza umanitaria. Necip Arslann è arrivato da Norimberga in macchina. Insieme a sua moglie ha fatto un gruppo whatsapp per raccogliere beni di prima necessità da portare in Polonia: “Abbiamo caricato la macchina più che potevamo e sono venuto qui, ma intendo tornare con la macchina piena di persone”, afferma, mentre al parcheggio degli autobus sventola un cartello con scritto “Germany”.
La Caritas Polonia ha allestito delle tende nel parcheggio degli autobus. “C’è tanta di quella gente, arrivano a tutte le ore, le persone stanno dormendo nelle scuole, qui distribuiamo bevande e cibo”, racconta Caroline Samp, un’operatrice della Caritas locale. “Ma abbiamo anche tante persone che arrivano qui per portarci cose per i profughi, spuntano persone dovunque ad aiutarci, è incredibile questa solidarietà”.
Solo qualche mese fa, i profughi iracheni e siriani che arrivavano al confine tra Polonia e Bielorussia erano respinti con violenza dalle guardie di frontiera polacche, invece il 27 febbraio il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha annunciato che Varsavia è pronta ad accogliere i profughi ucraini a braccia aperte.
Il 28 febbraio l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) Filippo Grandi ha annunciato che cinquecentomila ucraini hanno lasciato il loro paese e sono entrati in Polonia e negli altri paesi limitrofi come Romania, Ungheria, Moldova e Slovacchia. Ma i numeri potrebbero continuare a crescere nelle prossime ore. Secondo le stime, potrebbero lasciare il paese quattro milioni di persone: sarebbe l’arrivo più intenso di profughi in Europa nella storia recente, superiore anche alla cosiddetta crisi dei rifugiati quando un milione di siriani sono arrivati in Europa attraverso la rotta balcanica.
Ma questa volta l’atteggiamento dei paesi dell’Unione europea, soprattutto di quelli dell’Europa orientale, sembra essere cambiato: Polonia, ma anche Ungheria e Romania hanno detto che chi scappa dalla guerra in Ucraina sarà accolto senza problemi. Ma molti criticano il doppio standard dell’accoglienza applicato in base alla provenienza delle persone. Alcuni studenti africani che stavano scappando dall’Ucraina insieme a migliaia di cittadini ucraini hanno denunciato di essere stati respinti e picchiati dalla polizia di frontiera polacca.
Vitriana Liana è tra quelli che nutre dei dubbi sull’equità di questo sistema: è originaria di Luanda, in Angola, ha vissuto per otto anni a Kiev dove ha studiato e dove è nata sua figlia. Quando sono cominciate a cadere le bombe sulla capitale ucraina è scappata: “Credevo di morire, non ho portato via niente. Volevo solo andare via il prima possibile”. Ora dorme nella palestra della scuola primaria 14 di Przemyśl, allestita con le brande da campo per i profughi. È con sua figlia di cinque anni e suo marito. Ha paura che non le sarà riconosciuta nessuna forma di protezione. “Ci tratteranno come gli altri? Temo che ci rimandino in Angola, ma la mia vita è qui, mia figlia è nata qui”.
Ma l’annuncio più eclatante è venuto dalle autorità europee: il 27 febbraio al termine di una riunione dei ministri dell’interno dell’Unione è stato annunciato che Bruxelles potrebbe attivare una direttiva (55/2001) che non è mai stata usata prima per garantire una protezione temporanea ai profughi ucraini per tre anni: in questo modo non sarebbe necessario per loro chiedere l’asilo, ma potrebbero muoversi e lavorare senza problemi all’interno dell’Europa. La decisione deve essere presa dal consiglio europeo del 3 marzo. Un’azione che, se estesa a tutti i profughi senza distinzioni, potrebbe imprimere una svolta alle politiche migratorie europee.
Foto in evidenza di Michael Kappeler, Picture-Alliance/Dpa/Ap/LaPresse
Di Pierfrancesco Curzi su Il Fatto Quotidiano
“Chiedo all’Italia di aiutarci a uscire da questo inferno, per noi non c’è futuro qui in Afghanistan, come giornalisti e come uomini”. L’appello al Fattoquotidiano.it di Jawad, giovane documentarista di Kabul, risale all’inizio del settembre scorso, all’indomani del ritorno al potere dei Talebani che ha spazzato via vent’anni di vano tentativo da parte dell’Occidente di ‘salvare’ l’Afghanistan. Ora, dopo una vera e propria odissea lunga cinque mesi e mezzo lui e sua sorella Yasmin (preferiamo utilizzare nomi di fantasia in quanto i due giovani sono richiedenti protezione internazionale e a rischio vita nel loro paese, dunque è opportuno non identificarli) sono finalmente arrivati in Italia con un permesso umanitario e non attraverso i ‘corridoi’ e la cosa, giuridicamente, cambia tutto e rappresenta un precedente importante.
Di lui e di un suo collega il Fattoquotidiano.it aveva raccolto il grido d’aiuto, ma mentre un suo collega giornalista era riuscito quasi subito a lasciare il Paese centrasiatico grazie al regista e produttore Khyber Khan, per Jawad e sua sorella Yasmin l’incubo si è concluso soltanto lunedì pomeriggio alle 13 con l’arrivo a Malpensa del volo partito da Islamabad via Doha: “Non ci credevamo più – tira un sospiro di sollievo Jawad -, più volte siamo stati sul punto di mollare tutto, rientrare a Kabul e aspettarci di tutto. L’attesa per il visto e la documentazione dall’Italia è stata infinita e logorante, mentre noi ci ascondevamo in Pakistan dove siamo stati costretti a fuggire per non finire nelle mani dei Talebani. Ho temuto soprattutto per la tenuta psicofisica di mia sorella, per i miei genitori che vivono a Kabul, preoccupati che non ce l’avremmo fatta. Ora dico grazie all’Italia e ai tanti che hanno contribuito alla nostra salvezza”.
Jawad, 25 anni e Yasmin, 23, ora sono in salvo a Milano e trascorsa la quarantena anti-Covid, obbligatoria per chi è in arrivo da Paesi di fascia E come il Pakistan, inizieranno la loro nuova vita in Italia. Afghanistan e Pakistan, il destino di fratello e sorella si è legato indissolubilmente ai due Paesi, tra fughe e nascondigli, visti prenotati e permessi ottenuti attraverso il pagamento del ‘pizzo’ che manda avanti la vita a quelle latitudini. Il tutto mentre in Italia gli avvocati dell’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, e una libera professionista milanese, Elena Orlandini che li sta ospitando, si facevano in quattro per salvare la vita a Jawad e Yasmin.
A gennaio, quando tutto sembrava risolto, un inghippo a livello giuridico sembrava potesse far saltare il piano: “È stata durissima ma adesso la gioia per questo risultato è immensa. La causa a Tribunale di Roma non è ancora conclusa, ma ciò che contava era portare i due ragazzi in Italia”. A parlare è Nazzarena Zorzella, esperta legale di Asgi e alla base del successo giudiziario di cui avevamo raccontato gli intoppi a inizio anno: “Oltre ad aver salvato Jawad e Yasmin e dato loro la chance di un futuro migliore, c’è l’aspetto determinante del modo in cui siamo riusciti a portarli in Italia – aggiunge l’avvocato Zorzella -. Non attraverso i ‘corridoi’ o con dei visti particolari, studio, turismo e così via, ma con un visto umanitario individuale. Abbiamo dimostrato che queste persone erano a rischio incolumità e qui in Italia potranno godere di un supporto per il loro inserimento e l’integrazione. Ciò rappresenta un precedente importante che potrebbe modificare i destini di tanti migranti che si trovano in pericolo in varie parti del mondo facendo valere i loro diritti. È una grande vittoria e una gioia non indifferente”.
In effetti all’inizio di gennaio il Tribunale di Roma aveva emesso un’ordinanza che dava il via libera all’accoglienza dei due afghani con un visto umanitario, ma l’Avvocatura dello Stato si era opposta, bloccando l’iter e rendendo loro la vita un infermo senza fine. Jawad e Yasmin si stavano nascondendo in Pakistan e aspettavano solo il via libera per salire su un aereo e lasciarsi alle spalle la paura: “Avevamo fatto richiesta del visto pakistano, ma le cose da quelle parti non sempre funzionano – aggiunge Jawad che poi riassume la follia degli ultimi mesi del 2021 -. Non potevamo girare per Islamabad, se la polizia ci avesse fermato avremmo rischiato di essere deportati in Afghanistan e tutto sarebbe saltato. A settembre siamo stati contatti da Elena Orlandini e poi dagli avvocati di Asgi per avviare il percorso che ci imponeva di scappare dal paese e andare in Pakistan. Per farlo siamo dovuti scendere a sud e attraversare il confine al valico di Spin Boldak: era l’8 dicembre scorso. Da Quetta invece di riprendere verso nord, lungo il confine reso pericoloso da decine di check-point, siamo andati a Karachi (la città portuale più popolosa del Pakistan, ndr.) e poi ci siamo rimessi in viaggio verso la capitale Islamabad. Lì abbiamo atteso il nostro destino”.
Sono state settimane di tensione, fino a quando dall’Italia, anche attraverso la sua ambasciata a Islamabad, e dall’Asgi è arrivato il via libera. Mancava un ultimo documento e un’ultima prova per fratello e sorella: dovevano rientrare in Afghanistan per vedersi apposto un francobollo sul loro visto. L’unica alternativa era attraverso il pericolosissimo passo Torkham lungo la Grand Trunk road che collega la provincia afghana di Nangarhar (area dov’è diffusa la presenza dell’Isk, Islamic State of Khorasan,l’Isis in Afghanistan) e quella pakistana del Khyber Pakhtunkhwa: “Il 16 febbraio scorso – è il ricordo fresco del 25enne giornalista -, pare una vita ma in realtà è appena una settimana fa, una volta entrati sul fronte afghano della frontiera abbiamo ottenuto quel documento, ci siamo rimessi in fila in mezzo a centinaia di persone e sperato che i Talebani non ci fermassero. In fondo basta pagare, tutto ha un costo. Negli ultimi cinque mesi solo per i permessi e i transiti ho dovuto sborsare 2mila dollari. La corruzione dilaga sempre più, i Talebani sono troppo stupidi per capire chi va dove e perché, mentre il Pakistan sta succhiando il sangue degli afghani in fuga dall’Emirato. Per noi contava solo superare quell’ostacolo e ce l’abbiamo fatta”. Jawad e sua sorella sono in Italia da poche decine di ore e già hanno iniziato a fare pratica con la lingua, le abitudini e la cultura, mangiato pasta e goduto il piacere di un gelato. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza la determinante ostinazione di Elena Orlandini, libera professionista con interessi nel settore del turismo.
Una cittadina che si è presa a cuore le sorti di persone che neppure conosceva e l’inizio di questa storia ha dell’incredibile: “In quei giorni infernali di agosto seguivo l’evoluzione della crisi afghana attraverso i reportage del network di Khyber Khan che raccontava in tempo reale cosa stava accadendo a Kabul. Vidi in diretta la troupe giornalistica aggredita dai Talebani a colpi d’arma da fuoco (quell’episodio Jawad lo raccontò al Fatto.it, ndr.). Immagini scioccanti – spiega la Orlandini -. Mi sono apparsi come degli eroi perché raccontavano sul posto il dramma di un popolo, incuranti del pericolo. In quel preciso momento ho capito che dovevo fare qualcosa anche se non sapevo da dove partire e come muovermi. All’inizio ho preso tutto quasi alla leggera, poi le cose sono andate avanti e l’ansia è andata crescendo man mano che entravo in simbiosi con i ragazzi. Non potevo più tirarmi indietro, deluderli, anche se il compito sembrava improbo. A farmi coraggio attorno a me le tante persone che hanno collaborato, da Asgi ovviamente che ha seguito la causa, a Pangea che ha aiutato i ragazzi in Pakistan. L’ultimo mese è stato terribile, scandito da notti insonni e l’ansia del fallimento. Ora sono con me, li aiuterò a ripartire in questa seconda vita e una volta ottenuto lo status di rifugiato chiederemo il ricongiungimento familiare”.
Foto in evidenza su Il Fatto Quotidiano
Su Fondazione ISMU
Il Rapporto annuale ISMU sulle migrazioni giunge nel 2022 alla sua XXVII edizione e costituisce ormai un utile riferimento per chi si occupa di questo tema, in Italia e non solo. Questa edizione analizza sia l’impatto della pandemia sui flussi migratori e sugli immigrati, sia le conseguenze, sotto il profilo migratorio, della drammatica questione afghana.
Attenuata l’emergenza sanitaria nella seconda metà del 2021, si è riaccesa infatti l’attenzione sui temi delle migrazioni, facendo riemergere le sfide che il fenomeno presenta per l’Italia e l’Unione europea.
Oltre alle consuete aree di studio (salute, lavoro, quadro normativo e scuola) e agli aspetti statistici il XXVII Rapporto dedica una particolare attenzione agli atteggiamenti e orientamenti degli italiani e alle esperienze delle donne migranti in termini di discriminazione e di valorizzazione positiva. Inoltre, il volume è arricchito da approfondimenti sui rifugiati e sull’azione umanitaria, su come è stato affrontato il fenomeno migratorio nelle elezioni comunali, sulle misure alternative alla detenzione e sull’affido familiare dei minori stranieri non accompagnati. Infine, anche quest’anno è riservato uno sguardo all’Europa, in special modo alle nuove prospettive della politica migratoria dell’Unione nell’era post-Merkel, e al mondo, con una particolare attenzione alle iniziative politiche bilaterali con i paesi africani.
Il ventisettesimo Rapporto ISMU è disponibile qui.
Su Melting Pot Europa
Il primo dato che emerge dal rapporto è proprio quello di un’emergenza che non c’è, perché in tre anni, dal 2018 al 2020 le persone accolte in Italia sono diminuite del 42%.Eppure 7 su 10 sono accolti in centri straordinari, perché è il sistema di accoglienza ad essere basato sulla risposta emergenziale, evidenziando il fallimento di quanto stabilito dal primo Decreto Sicurezza.
Al nuovo rapporto si aggiunge una novità: una mappatura dettagliata – attraverso un sito web facilmente utilizzabile e liberamente accessibile – di tutti i centri di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo del paese. La piattaforma di monitoraggio centriditalia.it, realizzata da ActionAid insieme a openpolis, permette di avere a disposizione in formato aperto tutti i dati dei centri di accoglienza sparsi nel territorio nazionale.
E’ il risultato di un lavoro di raccolta e analisi dati sui centri esistenti in tutta Italia. Un lavoro capillare, che mostra nel dettaglio il numero dei posti disponibili nelle strutture, le presenze effettive, chi gestisce il centro, i prezzi, la localizzazione. Uno strumento per chiunque voglia conoscere, capire, monitorare il sistema, dal singolo cittadino, a giornalisti e ricercatori. E uno strumento che colma un vuoto informativo di Governo e Istituzioni: ad oggi – scrivono le organizzazioni – manca ancora la relazione annuale obbligatoria del 2020 del Ministero dell’Interno al Parlamento.
L’assenza di informazioni verificate e trasparenti ha prestato il fianco per troppo tempo a speculazioni politiche. Non serve gestire l’accoglienza con politiche emergenziali, perché l’emergenza non c’è. Nel 2020 i rifugiati e richiedenti asilo in accoglienza rappresentano solo lo 0,13% della popolazione italiana. Nonostante siano calati drasticamente gli sbarchi e gli ingressi, non c’è stata nessuna volontà di ripensare il sistema e privilegiare l’accoglienza diffusa e pubblica.
“Con un calo delle presenze di queste proporzioni, si sarebbe potuto incentivare con facilità l’accoglienza diffusa delle persone in piccoli centri. Un risultato positivo che invece si è evitato a causa di una scelta politica insita nel Decreto Sicurezza: destrutturare il sistema pubblico di accoglienza diffusa, incentivare l’approccio emergenziale e i centri straordinari e tagliare i servizi per l’integrazione, lasciando che le persone prive di mezzi scivolino verso una condizione di soggiorno irregolare e di estrema marginalità sociale” spiegano Fabrizio Coresi, Programme Expert on migration e Cristiano Maugeri Programme developer di ActionAid.
“Centri d’Italia può fornire elementi concreti per porre in essere politiche pubbliche basate sull’impatto delle riforme attuate negli anni, e non sulla strumentalizzazione della questione migratoria. Dobbiamo tuttavia rilevare che nonostante gli sforzi nella richiesta dei dati e i progressi nell’ottenimento degli stessi, rimangono ancora oscuri aspetti essenziali per la realizzazione di una trasparenza effettiva dell’accoglienza in Italia. Parliamo dei dati economico-finanziari che collegano i singoli centri agli enti gestori, che ad oggi ci sono stati negati”, continuano Michele Vannucchi e Mattia Fonzi, responsabili di progetto per openpolis.
In risposta alla diminuzione delle presenze, tra il 2018 e il 2020, i curatori del rapporto hanno assistito a una diminuzione del 25,1% del numero di centri attivi sul territorio nazionale e del 40,2% dei posti complessivamente disponibili (il 46,8% in meno nel sistema Sprar/Siproimi). A fine 2020, 7 persone su 10 sono accolte in centri di gestione prefettizia. Di questi, i centri di piccole dimensioni sono quelli ad aver perso più posti dal 2018 al 2020, quasi 22mila.
Ad aumentare è invece la centralità delle città più grandi. In 16 città vengono ospitate oltre il 18% delle persone e i centri di Roma e Milano tendono ad essere i più grandi. Due anni prima la percentuale era al 14,2%. Scendono anche i prezzi, ovvero la cifra attribuita per spese di vitto, alloggio e servizi per l’integrazione e a subire il maggior taglio sono i prezzi per i centri piccoli (-27%) e succede in particolare al nord, con punte che arrivano al -46%.
Gli autori spiegano che ci sono ancora molte informazioni fondamentali a cui non hanno avuto accesso, nonostante le molte richieste di accesso agli atti, ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato. Un esempio sono i codici fiscali e le partite IVA dei gestori, utili a identificarli con sicurezza e a verificare un fenomeno registrato anche in passato, ovvero l’ingresso nel sistema di società for profit prive di vocazione sociale, competenze ed esperienza necessarie. “Fino a quando la maggioranza dei richiedenti asilo che si trovano nel paese sarà ospitata in centri straordinari, non ci potrà essere approccio sistemico all’accoglienza sui territori” conclude Fabrizio Coresi di ActionAid.
La speranza per le organizzazioni è che il Ministero prenda atto della situazione e proceda e garantisca maggiore trasparenza sul sistema, quest’ultima giudicata come un antidoto contro il business sulle spalle dell’accoglienza e contro la criminalizzazione della solidarietà.
Il rapporto “L’emergenza che non c’è” è disponibile qui.
La piattaforma è disponibile qui.
Immagine in evidenza di Openpolis
Di Rabia Mehmood e Ottavia Spaggiari su Vita
Non più solo Turchia e Libia, potrebbe essere il Pakistan il nuovo alleato di Bruxelles nell’esternalizzazione delle frontiere.
Lo scorso agosto, mentre i talebani conquistavano Kabul, le truppe Nato lasciavano l’Afghanistan e il Paese piombava in quella che è stata definita l’emergenza umanitaria più grave al mondo, per l’Europa si stava profilando una nuova inaspettata intesa politica.
In quei giorni concitati, il governo pakistano aveva aiutato ad evacuare centinaia di funzionari europei e migliaia di afghani che avevano lavorato per gli Stati Uniti.
“Complimenti alle autorità pakistane per la collaborazione straordinaria,” aveva twittato l’ambasciatore tedesco in Pakistan, affermando che, senza l’aiuto di Islamabad, le evacuazioni non sarebbero state possibili. Il primo ministro pakistano, Imran Khan, aveva ricevuto una chiamata di ringraziamento anche da parte del presidente del Consiglio Europeo e, dopo anni di relazioni tese, in appena una settimana, i ministri degli esteri di Germania, Gran Bretagna e Olanda avevano visitato la capitale del Pakistan, promettendo ricompense per l’impegno nella crisi umanitaria afghana.
L’improvviso disgelo dei rapporti era stato così repentino e clamoroso che, il giornalista Saim Saeed, sul quotidiano americano Politico, aveva definito il Pakistan, “Il nuovo inaspettato migliore amico dell’Europa,” sostenendo però che l’aiuto nell’evacuazione non fosse l’unica ragione della ritrovata armonia tra Islamabad e Bruxelles, arrivata dopo anni di freddezza. Secondo Saeed e diversi analisti, già dallo scorso agosto, l’Europa aveva individuato nel governo pakistano un’altra potenzialità: il Pakistan rappresentava un nuovo potenziale alleato chiave dell’UE nelle politiche di esternalizzazione delle frontiere e nel contenimento dei rifugiati afghani diretti in Europa.
Per Jeff Crisp, ricercatore al Centro di Studi per i Rifugiati dell’Università di Oxford, la strategia europea era chiara. L’emergenza Afghanistan riportava alla memoria la crisi siriana e l’ingresso in Europa, di oltre 1milione di rifugiati nel 2015. “All’epoca, l’UE era stata presa letteralmente alla sprovvista dall’arrivo di così tanti rifugiati,” ha dichiarato Crisp ad Al Jazeera “Con la presa dei Talebani, la priorità per l’Europa è di evitare che si ripeta lo stesso scenario.”
È così che, il 31 agosto, mentre migliaia di profughi afghani cercavano disperatamente di entrare nell’aeroporto di Kabul e salire su un aereo che li avrebbe portati in salvo, i ministri dell’Interno dell’Unione Europea si incontravano in una riunione straordinaria del Consiglio. All’ordine del giorno, la possibilità di resettlement futuri e, soprattutto, l’intenzione di sostenere nel rafforzamento delle frontiere, non solo l’Afghanistan, ma anche i Paesi confinanti e quelli che avrebbero affrontato un’eventuale nuova crisi rifugiati. Poche settimane dopo, la presidente della Commissione Europea annunciava lo stanziamento di un pacchetto da 1 miliardo di euro per l’Afghanistan e le nazioni limitrofe. “I vicini diretti dell’Afghanistan sono stati i primi ad offrire sicurezza agli afghani in fuga,” si legge nel comunicato della Commissione, “Ecco perché a questi Paesi verranno destinati fondi aggiuntivi nella gestione delle frontiere.”
Il linguaggio ricorda gli assai controversi accordi con Turchia e Libia. Non è la prima volta, infatti, che l’Unione Europea premia lautamente un Paese terzo per allontanare i flussi migratori, a scapito del diritto internazionale e dei diritti umani. È del 2016 il patto da 6 miliardi di Euro con la Turchia per fermare le partenze dalle coste turche di richiedenti asilo, in gran parte siriani. Dal 2017, invece, l’UE ha versato circa €57 milioni alle autorità libiche per frenare gli sbarchi dalla Libia, ignorando gli appelli umanitari e, addirittura, il fatto che, in Libia, i migranti siano detenuti in centri di detenzione dove, secondo le Nazioni Unite, vengono commessi “crimini contro l’umanità.
Negli ultimi quarant’anni, dall’inizio dell’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, il Pakistan è diventato una destinazione chiave per gli afghani in fuga da guerre, disordini e violenza. Oggi, oltre 1.4 milioni di rifugiati afghani vivono nel Paese. Dall’inizio del 2021 ad oggi, l’UNHCR ha registrato l’ingresso in Pakistan di oltre 105mila rifugiati afghani. I profughi continuano ad arrivare, principalmente via terra, varcando il confine nelle città di Torkham, nel Pakistan Nord-Occidentale e di Spin Boldak-Chaman, nella provincia sud-occidentale del Balochistan.
Guardando al desiderio di Bruxelles di esternalizzare le frontiere, mai come ora, il Pakistan si trova nella posizione di fare cassa sulla presenza di rifugiati e richiedenti asilo sul proprio territorio.
Secondo Politico, con un occhio alla Turchia e uno alla Libia, il governo pakistano sta già negoziando con l’obiettivo di ottenere una serie di benefici non solo economici, ma anche diplomatici e reputazionali in cambio del contenimento dei profughi nel Paese.
Prima della crisi afghana, Bruxelles aveva condannato l’abuso sistematico dei diritti umani e la costante ambivalenza del Pakistan sulla situazione in Afghanistan, dove Islamabad offriva sostegno sia alla NATO che ai Talebani. Lo scorso Novembre, una delegazione del Parlamento Europeo in Pakistan aveva denunciato, ancora una volta, il pericoloso deteriorarsi della situazione dei diritti umani nel Paese, in particolare la persecuzione delle minoranze religiose e la repressione della libertà di stampa. Ma l’esternalizzazione delle frontiere è una strategia che finisce per indebolire il sistema di monitoraggio dei diritti umani della comunità internazionale. Secondo Akkerman la necessità di trovare nel Pakistan un nuovo alleato nella gestione dei flussi, spingerà sempre più l’UE a guardare dall’altra parte.
“Per anni l’Europa ha criticato il Pakistan e adesso, improvvisamente, lo ritiene un buon Paese,” dice Akkerman, “Esternalizzare le frontiere significa scendere a compromessi durissimi.”
La crescente militarizzazione delle frontiere è già iniziata. Da quando i Talebani hanno ripreso il potere, attraversare le frontiere con il Pakistan è diventato sempre più difficile. Islamabad ha iniziato a rafforzare i confini, respingendo i profughi e deportando chi è sprovvisto di un visto. La crescente fortificazione delle frontiere sta già spingendo sempre più afghani nelle mani dei trafficanti. Un rapporto recente del think tank Mixed Migration Center ha rilevato un aumento nel costo dei viaggi organizzati dai trafficanti. Mentre nel 2020 un attraversamento da Spin Boldak a Quetta costava tra gli 85 e I 105 dollari, oggi costa tra i 90 e in 125 dollari. Secondo lo stesso rapporto, anche le rotte verso ovest stanno cambiando. Mentre prima, i trafficanti trasferivano le persone dall’Afghanistan all’Iran attraverso il Pakistan, sempre più spesso adesso, cercano di evitare il Pakistan, trasferendo le persone direttamente in Iran, una rotta più breve ma molto più pericolosa. In questo caso infatti i richiedenti asilo devono utilizzare tunnel sotterranei per oltrepassare i muri al confine con l’Iran.
Per chi invece riesce ad entrare in Pakistan, la vita rimane difficile. Spesso dipinti dai media come terroristi e spacciatori e utilizzati come capro espiatorio per spiegare la fragile situazione economica pakistana, i rifugiati afghani sono sottoposti a discriminazioni costanti e, in molti casi, costretti a convivere nel terrore della deportazione. Secondo Human Rights Watch, nel 2016 le autorità Pakistane avevano costretto più di 500mila persone a ritornare in Afghanistan.
Eppure, ogni giorno, migliaia di profughi cercano di lasciare l’Afghanistan. Più dell’80% del Paese, si trova a combattere con una gravissima siccità che sta riducendo drasticamente la produzione alimentare. 22.8 milioni di persone, circa la metà della popolazione, stanno subendo gravi carenze alimentari. Secondo il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, nei prossimi mesi, l’Afghanistan potrebbe affrontare una povertà universale con il 97% della popolazione sotto la soglia di povertà di 1,90 dollari al giorno.
Dall’inizio della crisi umanitaria, circa 28mila afghani sono state accolte in ventiquattro Paesi dell’Unione Europea. A dicembre, quindici dei ventisette stati membri hanno annunciato l’intenzione di accogliere altri 40mila afghani. Più della metà delle persone arriveranno in Germania, 3.159 approderanno in Olanda e 2.500 in Spagna e Francia. Gli altri undici Paesi hanno invece annunciato che accoglieranno quote più ridotte. La decisione è arrivata dopo che, lo scorso ottobre, l’Alto Comissario delle Nazioni Unite, Filippo Grandi, aveva chiesto all’UE di ricollocare altri 42.500 afghani nei prossimi cinque anni.
Benché il Commissario per gli Affari Interni dell’Unione Europea abbia definito questo nuovo impegno, “un incredibile atto di solidarietà,” i numeri di queste nuove accoglienze impallidiscono di fronte alla portata della crisi umanitaria. Secondo il New York Times, nei quattro mesi tra lo scorso ottobre e gennaio, oltre un milione di persone si sono messe in viaggio verso Ovest.
Tra i leader europei, rimane chiara l’intenzione di bloccare l’arrivo di nuovi rifugiati afghani. Il mese scorso in una riunione del Consiglio di Sicurezza ONU, il Primo Ministro norvegese ha profilato la necessità di nuovi accordi con Paesi terzi per contenere i rifugiati. “Abbiamo bisogno di nuovi patti e impegni per assistere ed aiutare una popolazione civile estremamente vulnerabile,” ha dichiarato. “Dobbiamo fare qualsiasi cosa per evitare una nuova crisi migratoria e una nuova fonte di instabilità, nella regione e oltre.”
Secondo Akkerman, un nuovo accordo tra UE e Pakistan è molto probabile, ma mostra tutta la fragilità delle politiche europee sull’immigrazione. “L’Europa sta correndo da hotspot a hotspot,” dice Akkerman. “Sul lungo periodo questa corsa non è sostenibile.”
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