Di Maurizio Ambrosini su Avvenire
Mentre i rifugiati in fuga dall’Ucraina sono stimati ormai in circa cinque milioni, di cui circa 100mila in Italia, la brutta storia dell’accoglienza differenziata aggiunge nuovi anelli a una catena sempre più stretta. Dopo il Regno Unito, anche la Danimarca ha annunciato di voler sottoscrivere un accordo con il Ruanda per decentrare laggiù i propri obblighi di protezione dei rifugiati, deportandoli a migliaia di chilometri dal suo territorio. Ma non si tratta di una novità, bensì dell’inasprimento di un progressivo distacco del nobile Paese scandinavo dalla propria tradizione di impegno umanitario. Suona invece come un campanello d’allarme, per la sua rilevanza istituzionale e il suo significato politico, la notizia dell’accordo che l’Unione Europea sta negoziando con il Senegal per dispiegare nel Paese dell’Africa Occidentale l’apparato di Frontex, la discussa Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. Lo ha riferito ‘Nigrizia’, la rivista dei missionari comboniani nel suo numero di questo aprile 2022.
Se l’accordo andrà in porto, sarà la prima volta di una missione di Frontex fuori dall’Europa, lontano dai confini della Ue e sul territorio di uno Stato sovrano africano, con truppe armate che vestono uniformi della Ue, dispiegano mezzi militari e dispongono di (costose) attrezzature di sorveglianza con i colori dell’Unione. Gli scopi sono quelli delle altre ormai numerose iniziative di «esternalizzazione delle frontiere» della Ue verso i Paesi di transito e talvolta di origine dei migranti e dei richiedenti asilo. Con una retorica sempre più stantia e sempre meno convincente, Bruxelles si trincera dietro gli obiettivi di lottare contro il traffico di esseri umani e di salvare le vite di chi dal Senegal sale a bordo di fragili imbarcazioni in direzione delle Isole Canarie, 1.500 km più a Nord: 19mila persone nel 2021. Le forze aeronavali di Frontex verrebbero pertanto inviate a presidiare la costa senegalese e il confine con la Mauritania. Come se i rischiosi viaggi della speranza non fossero l’effetto della mancanza di mezzi legali per raggiungere l’Europa, e tra i viaggiatori non si contassero persone che una volta giunte nel nostro continente avrebbero titolo per ottenere l’asilo. Frontex è diventata in pochi anni la più ricca e potente agenzia della Ue, con un bilancio rapidamente cresciuto, fino a raggiungere i 757 milioni di euro nel 2022. Forte già oggi di 2mila effettivi, dovrebbe arrivare a quota 10mila entro il 2027. Questo nonostante l’agenzia sia oggetto dal 2019 di accuse per violazione dei diritti fondamentali dei migranti, nel 2020 sia stata posta sotto inchiesta dall’Olaf, l’Ufficio europeo per la lotta anti-frode, nel 2021 sia stata stigmatizzata da un rapporto molto critico della Corte dei Conti europea.
L’obiettivo politico di sigillare le frontiere nei confronti dell’immigrazione indesiderata, compresa quella umanitaria, a Bruxelles pesa più delle crescenti riserve sui metodi adottati da Frontex e sulle modalità d’impiego dei suoi ingenti fondi. L’annuncio della proposta di accordo Ue-Senegal da parte dell’eurocommissaria Johansson ha già suscitato le proteste delle organizzazioni della società civile africana ed europea.
In un documento presentato a febbraio a Bruxelles hanno richiamato il fatto che l’accordo mette in discussione la sovranità nazionale del Senegal, compromette la libertà di mobilità dei cittadini africani, solleva il problema dello squilibrio di potere tra un Paese in via di sviluppo e una potente istituzione interstatale del Nord del mondo come la Ue. Nel tempo delle porte aperte ai rifugiati ucraini, la disuguaglianza nel trattamento che ricevono i rifugiati di altre guerre, altre crisi umanitarie e altre persecuzioni, appare stridente come forse mai in passato. L’impeto di generosità a cui assistiamo è prezioso, ma deve fare breccia anche in altre direzioni, e non fermarsi ai confini d’Europa.
di Carlo Ciavoni su La Repubblica
Nel corso di “Prima Pagina”, la trasmissione quotidiana di Radio 3 dedicata alla lettura e ai commenti sui giornali, una ascoltatrice ha ricordato alla collega de La Stampa, Francesca Paci, questa settimana alla conduzione del programma, che esiste ancora un articolo della legge n. 94 del 2009 (il famigerato “pacchetto sicurezza”) che all’art. 6 del Testo Unico sull’Immigrazione impedisce di fatto la registrazione alla nascita dei figli di cittadini stranieri irregolari, cioè senza permesso di soggiorno. Un ostacolo che danneggia e pregiudica il futuro da cittadini dei neonati, privi di certificato di nascita solo perché figli di migranti irregolari. “Non costerebbe nulla cancellare o modificare quell’articolo”, ha sottolineato l’ascoltatrice, sarebbe una semplice correzione, senza nessun impegno finanziario da parte dello Stato. Basterebbe solo la sempre evocata “volontà politica”, finora mai dimostrata dai sette esecutivi che si sono succeduti dal 2009 ad oggi: rispettivamente i governi Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, i due governi Conte e quello attuale di Mario Draghi.
La possibile scelta dell’inesistenza. Le legge che vieta il certificato di nascita ai bambini di genitori senza permesso di soggiorno – è stato ricordato durante la conversazione tra l’ascoltatrice e Francesca Paci – contiene anche l’intento di far uscire allo scoperto gli immigrati irregolari, nel momento in cui vanno ad ufficializzare la nascita di un figlio. L’alternativa tragica – praticata chissà da quante persone – è invece quella di non registrare il neonato e sancire così la sua inesistenza come cittadino. Esiste una proposta di legge per reintrodurre esplicitamente gli atti di stato civile tra quelli per i quali non è necessaria l’esibizione dei documenti di soggiorno. L’ASGI – l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione – assieme ad altre organizzazioni, ha avviato una campagna per chiarire che l’obbligo di esibizione del permesso di soggiorno non venga applicato alla dichiarazione di nascita e al riconoscimento del figlio naturale, in quanto tra le possibili interpretazioni della legge, questa era ritenuta la sola conforme alla Costituzione e agli obblighi internazionali. Dunque è ormai da tempo – sebbene non se ne parli spesso – che diverse Associazioni per la tutela dei minori, assieme ad alcuni rappresentanti politici, richiedono una modifica legislativa per chiarire in modo definitivo i dubbi.
L’urgenza di imporre modifiche alla legge. Del resto, i principi Costituzionali evocati si riscontrano anche nell’ultimo Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione Onu sull’infanzia e l’adolescenza, oltre che suoi Protocolli Opzionali il Gruppo CRC, il network composto da più di 100 soggetti del Terzo Settore che da anni si occupano della promozione e la tutela dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, coordinato da Save the Children Italia. Si ribadisce, insomma, l’urgenza di imporre modifiche normative per assicurare la sicura registrazione anagrafica per i minori stranieri figli di cittadini presenti irregolarmente.
Su Fondazione ISMU
Dopo la significativa riduzione del numero di richiedenti asilo, iniziata tra il 2017 e il 2018, e l’ulteriore contrazione delle domande di protezione avvenuta del 2020 nel periodo della pandemia Covid-19, Fondazione ISMU segnala che nel 2021 le richieste di protezione sono tornate a crescere. Infatti oltre 56mila migranti hanno fatto domanda di asilo nel nostro paese durante il 2021, più del doppio rispetto al 2020 quando le domande pervenute erano state 27mila.
Nel 2021 sono aumentati soprattutto i richiedenti asilo afghani e i minori. Tra i richiedenti asilo del 2021 spicca il dato relativo ai minorenni, che costituiscono un quinto di tutti i richiedenti, di cui 3.257 non accompagnati e 8.312 al seguito di adulti. La crisi afghana dell’agosto 2021 in particolare ha determinato un flusso importante di migranti in cerca di protezione: sono stati oltre 6mila i cittadini afghani che hanno fatto domanda di asilo in Italia l’anno scorso, mentre furono “solo” 600 del 2020. Nel complesso dei paesi UE gli afghani hanno presentato circa 97.800 domande di asilo, il doppio rispetto al 2020.
Nel nostro paese spiccano durante il 2021, oltre alle provenienze asiatiche ormai consolidate quali quelle da Pakistan (7.513) e Bangladesh (7.134), anche le domande presentate da cittadini tunisini, al terzo posto in graduatoria (7.102 richiedenti asilo).
Sul fronte degli esiti in prima battuta va segnalato come il numero di domande esaminate ha risentito dell’andamento delle richieste: le domande esaminate nel corso del 2020 sono state 42mila e quasi 53mila nel 2021, numeri ben diversi rispetto agli anni 2016-2019 quando le commissioni territoriali hanno esaminato in media 90mila domande all’anno.
Nel corso dell’ultimo biennio è diminuito il numero di esiti negativi (56% nel 2021 contro 75% del 2020), mentre nel 2021 è cresciuta la quota di coloro che hanno ricevuto lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria (oltre 16mila persone) ed è aumentata significativamente la risposta positiva delle Commissioni per la concessione di protezione speciale (6mila persone, pari al 12% di tutti gli esiti).
A determinare gli esiti positivi con massima protezione sono soprattutto le domande presentate da cittadini afghani, che nel 2021 hanno ricevuto nel 97% dei casi lo status di rifugiato o quantomeno la protezione sussidiaria, e da cittadini somali (95%). Gli esiti negativi alle domande esaminate nel 2021 sono invece determinati soprattutto dai dinieghi riguardanti cittadini provenienti da: Tunisia (92%), Bangladesh (85%) e Marocco (83%).
Se nel 2021 la crisi afghana ha determinato un flusso importante di richiedenti asilo anche nel nostro paese, nel 2022 si sta assistendo alla crisi dei profughi ucraini in fuga dalla guerra iniziata con l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe. I dati relativi alle richieste di protezione di cittadini ucraini non sono ancora disponibili, ma soprattutto la grave crisi umanitaria sta determinando uno scenario in continua evoluzione con l’adozione di provvedimenti straordinari a livello europeo e nazionale per far fonte all’emergenza. Uno tra tutti il provvedimento che consente di concedere la protezione temporanea per la prima volta in Europa: il 4 marzo il Consiglio europeo ha adottato all’unanimità una decisione di esecuzione che permette una protezione temporanea a seguito dell’afflusso massiccio di persone in fuga dall’Ucraina a causa della guerra. La protezione temporanea è un meccanismo di emergenza applicabile in casi di afflussi massicci di persone e teso a fornire protezione immediata, senza che sia necessario esaminare la sussistenza dei presupposti per lo status di rifugiato o protezione sussidiaria (previo accertamento della sussistenza dei presupposti e l’assenza di condizioni ostative indicati nel DPCM 29 marzo 2022). In Italia sono aperte le richieste di permesso di soggiorno per protezione temporanea per gli sfollati provenienti dall’Ucraina (per informazioni dettagliate consultare il sito https://integrazionemigranti.gov.it/it-it/Ricerca-news/Dettaglio-news/id/2373/Protezione-temporanea-emergenza-Ucraina-domande-in-Questura)
Flussi dall’Ucraina nei primi mesi del 2022. Nei prossimi giorni e mesi si capirà quale sarà il flusso verso l’Italia alla luce anche dell’introduzione della protezione temporanea, tenendo conto comunque che la maggior parte dei profughi per il momento si è spostata nei paesi limitrofi, con la speranza di poter tornare presto nelle proprie case, ma la situazione potrebbe cambiare in funzione dell’andamento del conflitto e della sua durata. I dati UNHCR, infatti, mostrano come i profughi ucraini siano attualmente soprattutto: in Polonia (2,5 milioni), in Romania (645mila), nella Repubblica Moldova e in Ungheria (400mila in entrambi in paesi). Per maggiori informazioni clicca qui.
Occorre, tuttavia, considerare che i cittadini ucraini sono esentati dall’obbligo di visto e possono circolare liberamente nell’area Schengen per 90 giorni. e, quindi, potrebbero spostarsi in altri Stati membri UE nelle prossime settimane.
Secondo gli ultimi dati del Ministero dell’Interno, nel 2022 le persone in fuga dal conflitto in Ucraina arrivate in Italia alla data di oggi 13 aprile sono complessivamente 91.137: 47.112 donne, 10.229 uomini e 33.796 minori (aggiornamenti disponibili su: https://www.interno.gov.it/it).
Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Sono oltre 76 mila i profughi ucraini arrivati in Italia dal 24 febbraio scorso (data di inizio dell’offensiva russa nel paese) a oggi. La maggior parte è composta da donne e bambini ospitati per ora presso familiari e amici. Per il flusso straordinario delle persone in fuga dalle zone di conflitto il coordinamento della gestione dell’accoglienza è stata affidata alla protezione civile, che ieri (29 marzo) ha emesso un’ordinanza (n.881) per fissare alcuni criteri base in termini di spesa e di assistenza. Sempre nella giornata di ieri (29 marzo) il presidente del Consiglio Mario Draghi ha firmato il dpcm sulla protezione temporanea che recepisce la decisione del Consiglio Ue del 4 marzo scorso.
I beneficiari della protezione temporanea prevista dalla direttiva 55/2001 sono gli sfollati dall’Ucraina a partire dal 24 febbraio 2022. In questa categoria rientrano non solo i residenti in Ucraina, ma anche cittadini di Paesi terzi che beneficiavano di protezione internazionale e i familiari. Il permesso di soggiorno ha validità di un anno e può essere prorogato di sei mesi più sei, per un massimo di un anno. Consente l’accesso all’assistenza erogata dal servizio sanitario nazionale, al mercato del lavoro e allo studio. Il provvedimento prevede anche specifiche misure assistenziali e consente ai cittadini ucraini già presenti in Italia di chiedere il ricongiungimento con i propri familiari ancora presenti in Ucraina. Per quanto riguarda l’accoglienza l’ordinanza 881 prevede contributi sia ai singoli che alle organizzazioni del terzo settore. In particolare per le persone che hanno trovato autonomamente un posto è previsto un contributo una tantum di 300 euro per tre mesi. A questi si aggiungono 150 euro per ogni minore presente in famiglia. Alle regioni e alle province autonome, invece, vengono riconosciuti 1500 euro circa per ciascun profugo. Il governo si impegna inoltre ad allargare di 15mila i posti attualmente in accoglienza.
“Dopo oltre un mese di guerra la montagna ha partorito topolino: abbiamo atteso tre settimane senza ragione, il dpcm di ieri non cambia nulla rispetto alle decisioni prese in sede europea. L’Italia poteva fare qualcosa di più e invece il governo ha scelto di appiattirsi sulle posizioni dei paesi di Visegrad”, è il commento duro di Filippo Miraglia, responsabile Immigrazione di Arci nazionale. Le critiche sono rivolte alla scelte di includere tra i beneficiari solo gli ucraini, i lungosoggiornanti in Ucraina e i titolari di protezione internazionale, lasciando fuori chi aveva un permesso di breve periodo per studio o lavoro. “La decisione presa in sede europea consente ai governi di lasciarsi una aperta porta e di decidere autonomamente, l’Italia ha deciso di attenersi su posizioni più restrittive, questo implica che le persone dovranno fare domanda d’asilo, intasando il sistema”.Critiche arrivano anche sulla gestione dell’accoglienza. Secondo OpenPolis l’Italia si è fatta trovare impreparata anche stavolta, nonostante le riforme fatte negli anni per una gestione adeguata. “Ad oggi il 65% delle persone presenti nei centri di accoglienza sono ospitate nei Cas – scrivono in una nota -. Non stupisce quindi che il governo, in questa difficile situazione, abbia deciso di attivare la protezione civile, attraverso meccanismi emergenziali, piuttosto che affidarsi al sistema previsto dalle norme vigenti. In questo modo tuttavia si va delineando, almeno provvisoriamente, una nuova struttura emergenziale per la gestione dei rifugiati, del tutto sovrapposta, anche se in buona parte intersecata, a quella prevista dalla normativa vigente”.
Foto in evidenza di Daniele Napolitano su Redattore Sociale
Di Luca Rondi su Altreconomia
È la sera di martedì primo marzo quando il Flixbus su cui sta viaggiando Amol (nome di fantasia), cittadino di origine indiana, viene fermato all’imbocco del traforo del Frejus, verso la Francia, per i controlli di frontiera. La polizia d’Oltralpe controlla i documenti, Amol mostra il suo permesso di soggiorno ottenuto in Ucraina, racconta di essere scappato dalla guerra il 27 febbraio ed esibisce il suo passaporto con un timbro dell’Ungheria. Spiega che vuole raggiungere un parente in Portogallo. “Non puoi passare”, gli rispondono gli agenti francesi. Amol viene respinto dalla Francia verso l’Italia e accompagnato a Oulx, cittadina dell’Alta Val Susa, dalla polizia italiana. La storia dell’uomo indiano non è un caso isolato: decine di migliaia di persone rischiano di trovarsi “intrappolate” in un limbo giuridico. Sono i cittadini stranieri, originari di Paesi terzi, che in seguito all’invasione russa dell’Ucraina dello scorso 24 febbraio sono scappati dal Paese e oggi rischiano di essere esclusi dalla “protezione temporanea” attivata dalle istituzioni europee per garantire accoglienza ai rifugiati ucraini.
In fase di votazione dell’applicazione della Direttiva 55 del 2001, che prevede appunto la possibilità per chi lascia il territorio ucraino di accedere a un permesso di soggiorno (e a forme di accoglienza) con un canale più veloce rispetto alla richiesta di protezione internazionale, il gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) ha contestato in sede di Consiglio europeo l’estensione della protezione temporanea ai cittadini non ucraini. Come ha spiegato Gianfranco Schiavone su Altreconomia, proprio su questo punto i Paesi del “gruppo” hanno minacciato di far “saltare il banco” e l’attivazione della Direttiva in toto. Il risultato è stato un testo “timido” in termini di garanzie per i cittadini di Paesi extra-Ue. La decisione infatti prevede, al considerando 12, la possibilità di garantire protezione a coloro che “soggiornavano legalmente in Ucraina prima del 24 febbraio 2022 sulla base di un permesso di soggiorno permanente valido rilasciato conformemente al diritto ucraino e che non possono ritornare in condizioni sicure e stabili nel proprio Paese o regione di origine”. Il termine “permanente” lascia ampio spazio interpretativo ai singoli Stati membri così come il passaggio, al 13esimo punto, che invita i governi dell’Ue a garantire protezione, in caso di impossibilità di rientro nel Paese d’origine, anche a chi si trovava in Ucraina “per un breve periodo per motivi di studio o lavoro al momento degli eventi che hanno determinato l’afflusso massiccio di persone sfollate”. In entrambi i casi, comunque, resta necessario dimostrare per lo “straniero” il pericolo in caso di rientro nel suo Paese.
In Italia, dodici giorni dopo la pubblicazione della Decisione sulla Gazzetta ufficiale dell’Ue manca ancora il decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri (Dpcm) che dovrebbe delineare le regole di applicazione della protezione temporanea. Il 10 marzo 2022, però, una circolare della Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere, in seno al ministero dell’Interno, specifica che “in attesa del Dpcm” la possibilità di richiedere il permesso di soggiorno per protezione temporanea è riservata solamente ai “cittadini ucraini e loro famigliari”, “apolidi” e a “cittadini di Paesi terzi diversi dall’Ucraina che beneficiavano di protezione internazionale o protezione nazionale equivalente prima del 24 febbraio 2022”.
In altri termini: solo se un organo ucraino ha già dichiarato che la persona sarebbe in pericolo in caso di rientro nel Paese d’origine allora è possibile accedere alla protezione temporanea. In tutti gli altri casi, teoricamente, l’unica via possibile è la richiesta d’asilo anche per accedere a forme di accoglienza. Questo porterebbe, tra l’altro, a una “concentrazione” delle persone in fuga nei Paesi confinanti con l’Ucraina perché per il regolamento di Dublino la domanda d’asilo deve essere esaminata nel Paese dell’Unione europea di primo ingresso.
Il differente trattamento tra profughi che scappano da “diverse” guerre è lampante sui confini esterni europei. Il New York Times racconta in un dettagliato reportage i diversi destini di Albagir, giovane del Sudan di 22 anni, e Katya Maslova, 21 anni, originaria di Odessa in Ucraina. Entrambi vogliono attraversare la Polonia per raggiungere l’Ue: il primo, al confine con la Bielorussia, viene preso a pugni in faccia, insultato e lasciato nelle mani di una guardia di frontiera polacca che lo picchia brutalmente. Katya, invece, si sveglia ogni giorno “con un frigorifero rifornito e del pane fresco in tavola, grazie a un uomo che lei chiama santo”. Questa disparità sta però emergendo anche lungo i confini interni dell’Unione, per persone che scappano dallo stesso conflitto, come conseguenza della “stretta” sull’attivazione della protezione temporanea per i cittadini di Paesi terzi che lasciano l’Ucraina.
Lo sguardo sulle frontiere interne è quello degli operatori legali di Diaconia Valdese, attivi sul confine orientale di ingresso di Trieste e in uscita, lungo quello italo-francese, a Ventimiglia e Oulx. “Non rileviamo grossi problemi in ingresso in Italia. Più complessa invece è la situazione al confine francese -spiega Simone Alterisio, responsabile del Progetto Open Europe per Diaconia Valdese-. Chi ha permessi di soggiorno temporanei per lavoro e studio viene respinto e trattato allo stesso modo di coloro che vogliono attraversare la frontiera e non scappano dal conflitto in Ucraina”. I casi di persone a cui viene negata la possibilità di far ingresso in Francia restano, per ora, contenuti. “Probabilmente la maggior parte delle persone non vengono intercettate -spiega Costanza Mendola, operatrice legale di Diaconia Valdese a Ventimiglia- perché arrivano in macchina e vengono respinte senza ‘passare’ dal nostro Sportello. Anche perché spesso non hanno bisogno di assistenza e cercano in autonomia altre soluzioni”.
Sul confine marittimo sono sei i casi registrati, tutti di persone di origine nigeriana e provenienti da Kiev, di cui quattro uomini soli e una famiglia. Avevano tutti un permesso temporaneo per studio e alcuni di loro nel giro di pochi giorni hanno preso un volo per tornare in Nigeria con non pochi problemi perché, non essendo vaccinati, non riuscivano a raggiungere Milano Malpensa. “Avevano tutti il timbro della polizia ungherese sul passaporto quindi teoricamente per 90 giorni avrebbero potuto circolare nello spazio Schengen -spiega Mendola-. La stessa polizia di frontiera italiana ha provato a chiedere chiarimenti ai francesi, senza successo. ‘Le regole dall’alto sono queste’ hanno risposto”.
Chi viene respinto resta in un limbo. A Oulx un cittadino nepalese è rimasto bloccato per diversi giorni al rifugio Massi, struttura in cui le persone in transito trovano sostegno. “Era confuso sulla propria situazione -spiega Martina Cociglio, operatrice legale di Diaconia Valdese-. Aveva viaggiato liberamente in autobus fino in Italia, dopo essere uscito dall’Ucraina dove da qualche mese studiava la lingua locale per prepararsi al primo anno di università. Aveva un permesso di soggiorno temporaneo e voleva raggiungere il Portogallo. Mi ha raccontato che ha provato a spiegare la sua fuga dal conflitto alla polizia e la condizione di regolarità nel Paese ma la polizia gli ha notificato un refus d’entrée”. Un rifiuto d’ingresso giustificato dall’assenza di un documento di soggiorno valido per attraversare il confine. Come lui, altre due persone di origine nepalese, un indiano, due algerini e un nigeriano sono stati respinti tra il 3 e il 17 marzo.
“Nel decreto di attuazione francese della Decisione sulla protezione temporanea viene ripreso interamente quanto scritto nella decisione del Consiglio -spiega l’avvocata Anna Brambilla, membro dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi)-. Chi ha un titolo di soggiorno permanente e non aveva una protezione riconosciuta dovrà dimostrare i motivi per cui non può rientrare nel Paese d’origine. Nel testo la locuzione ‘et’ viene messa in grassetto per sottolineare come non basti un documento ma la ‘prova’ del pericolo in caso di rimpatrio. La diversa trasposizione del testo tra i diversi Paesi creerà dei problemi”. Se la Spagna, ad esempio, garantirà protezione a tutti i soggetti, compresi i cittadini di Paesi extra-Ue, allora il passaggio alla frontiera interna per raggiungere il territorio spagnolo dovrà essere garantito. “Le difficoltà riguardano soprattutto gli studenti, chi era ‘irregolare’ in Ucraina e i richiedenti asilo. Soprattutto con riferimento a chi aveva un permesso per studio resta la difficoltà di iscrivere le persone in istituti italiani perché, banalmente, resta necessario convertire gli esami e far sì che sia tutto in regola”.
Se per gli studenti internazionali è complesso avere delle stime, così non è per gli “irregolari”. Nell’aprile 2021 l’Organizzazione mondiale per le migrazioni dichiarava una presenza alla fine del 2019 di un numero compreso “tra le 37.700 e 60.900 persone senza un regolare documento di soggiorno”. Una stima basata su tre diversi metodi di studio, di cui due su tre propendono per un numero superiore alle 60mila presenze. “La maggior parte di questi entra in Ucraina -si legge nel documento- con un valido permesso per studio o turismo ma successivamente perde il documento”. A questi si aggiungono circa 2.800 richiedenti asilo presenti nel Paese secondo i dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Tra l’altro, l’Unhcr sottolinea nel documento come il tasso di riconoscimento sia pari a circa il 21% ma “ancora più basso” per coloro che provengono da “Paesi produttori di rifugiati” come Siria e Afghanistan. L’Oim stimava che al 9 marzo, a fronte di 2,2 milioni di profughi che avevano lasciato il Paese circa 109mila erano cittadini di Paesi terzi.
In questo quadro, Frontex, l’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee ha annunciato il 2 marzo l’invio di 150 agenti e 45 auto di pattuglia in Romania, al confine con la Moldavia e l’Ucraina, come misura per “sostenere” gli Stati membri nella gestione del flusso di rifugiati in fuga dal conflitto. Ma non solo. Lo scorso 10 e 11 marzo i primi voli hanno lasciato la Polonia con a bordo 394 persone, soprattutto famiglie, verso il Tagikistan e il Kirghizistan. “Frontex – si legge nel comunicato stampa- sta anche esaminando i modi in cui l’agenzia può sostenere i cittadini non ucraini che sono fuggiti dal Paese e che desiderano tornare nei loro Paesi d’origine con voli di rientro”. Sperando che il “desiderio” non sia drammaticamente l’unica opzione possibile per le persone.
Sono passati trent’anni dall’approvazione dell’attuale legge sulla cittadinanza, la legge 91 del 5 febbraio 1992. Già allora l’Italia si era scoperta multietnica, soprattutto per effetto dell’ampio dibattito attorno alla legge Martelli del 1990 e alla sanatoria correlata. Eppure, la reazione del sistema politico, pressoché unanime, fu quella di guardare al passato, riconoscendo una serie di diritti a figli e nipoti degli antichi emigranti italiani, guardando con favore ai concittadini della Ue (che, pure, della cittadinanza italiana non avevano bisogno), ma raddoppiando il tempo richiesto per diventare cittadini agli immigrati provenienti da Paesi extracomunitari: da cinque a dieci anni.
Nemmeno il fascismo aveva preso una misura del genere, essendo la legge precedente (quella dei cinque anni) in vigore dal lontano 1912. Il fatto che nella maggior parte dei Paesi dell’Europa Occidentale (Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Svezia…) oltre che negli Usa, vigesse la soglia dei cinque anni non scalfì l’improvvisa sete di italianità ancestrale dei nostri legislatori, trascinati all’epoca dalle argomentazioni parlamentare missino Mirko Tremaglia.
Iniziarono tempi duri anche per i figli degli stranieri residenti: la legge riconosceva loro la cittadinanza solo al compimento della maggiore età, a patto che – nati qui – fossero sempre vissuti in Italia. Sei mesi passati, anche in tenera età, coi nonni nel paese di origine della famiglia o, più grandi, all’estero per un qualsiasi motivo bastavano a sbarrare la strada.
Da allora molti flussi di persone sono passati attraverso frontiere, sanatorie, dinamiche familiari. La popolazione immigrata, stagnante nei numeri da circa dieci anni, si è attestata poco sopra i cinque milioni di persone, in prevalenza donne. È composta oggi prevalentemente di famiglie ricongiunte, in cui vivono circa un milione di minorenni. In altri Paesi europei, come Germania, Spagna, Grecia, nel frattempo le norme sono state riformate in senso più favorevole agli immigrati, sebbene con cautela.
Lo Ius soli automatico, alla nascita, per tutti, non esiste più in nessun Paese europeo, ma le norme complessivamente vanno incontro al desiderio d’integrazione delle nuove generazioni. In Spagna per chi nasce sul territorio è sufficiente un anno di residenza. In Germania si applica lo Ius soli a condizione che almeno uno dei genitori sia residente da almeno otto anni e in possesso di un permesso a tempo indeterminato. In Grecia è stata introdotta una forma di Ius culturae: cittadinanza a chi ha frequentato almeno sei anni di scuola.
Solo l’Italia è rimasta ferma al palo, prigioniera di un dibattito insieme ideologico e dominato dalla paura di un’«invasione» mai avvenuta. Deteniamo ora il poco invidiabile primato di Paese più restrittivo dell’Europa occidentale sulla materia. Anche ai legislatori idealmente più aperti a una ragionevole riforma – quella, a suo tempo, definita dello Ius culturae con elementi di Ius soli temperato – manca il coraggio di affrontare un dibattito pubblico in cui temono di essere sovrastati dalle urla di chi griderebbe al «tradimento» di un’identità italiana basata sul sangue (e rivolta sostanzialmente al passato).
Anzitutto, nonostante norme tanto sfavorevoli, un volume di cinque milioni di residenti stranieri, ormai insediati da anni, produce naturalmente ogni anno un numero consistente di candidati eleggibili per la naturalizzazione. Gli ostacoli non mancano (ricordiamo che il Ministero dell’Interno mantiene un potere discrezionale sulla materia, e può bastare molto poco per vedersi rigettare l’istanza) e i tempi sono lunghi.
Molti si scoraggiano, ma un bel numero di domande di cittadinanza ogni anno vanno in porto: 132.736 nel 2020, pari al 26,4 per 1.000 stranieri residenti. In secondo luogo, un numero considerevole di neo-cittadini si serve del nuovo passaporto italiano (ed europeo) per compiere una nuova emigrazione. Si prende la via di Paesi più promettenti: 228.000 nel decennio 2010-2019, su un totale di 898.000 (Dossier immigrazione 2021). Paradossalmente, chi vorrebbe veder diminuire il numero degli immigrati dovrebbe facilitare la loro naturalizzazione. In terzo luogo, come osservano Salvatore Strozza, Cinzia Conti ed Enrico Tucci su ‘Neodemos’, non è affatto detto che tutti gli stranieri residenti facciano la fila per diventare italiani appena se ne dischiuda l’opportunità.
Vivono in Italia oltre 1,1 milioni di stranieri con un’anzianità di presenza di oltre 15 anni che non hanno acquisito la cittadinanza. Ed è giusto che sia così: diventare cittadini dovrebbe essere una scelta, non una condizione per accedere a qualche diritto in più. Da questo punto di vista, il fatto che l’impiego pubblico continui a essere precluso agli stranieri, persino ai medici e infermieri in tempi di Covid, ha l’effetto paradossale di spingere verso la cittadinanza chi magari preferirebbe farne a meno.
Resta il paradosso di ragazzi a cui si chiede di studiare lingua, letteratura, storia, geografia e Costituzione italiane, per centinaia di ore all’anno, ma a cui si chiudono le porte della piena appartenenza nazionale, come minimo fino ai 18 anni. Ragazzi che poi scoprono l’inconveniente di essere ‘stranieri’ a casa loro quando vorrebbero andare in gita all’estero con i compagni, oppure praticare uno sport agonistico, e soprattutto quando si affacciano al mercato del lavoro, dove un numero innaturale di datori richiede la cittadinanza come requisito per l’assunzione.
Siamo in un anno pre-elettorale e gli slogan e le cattive approssimazioni minacciano ancora una volta di prevalere sulla realtà e sulla ragione. Abbiamo ancora molta strada da percorrere per diventare un Paese capace di consentire una vita normale a chi lo abita e lo vorrebbe riconoscere come sua patria. E per valorizzare tutto intero il suo patrimonio umano.
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Su Melting Pot Europa
Il primo dato che emerge dal rapporto è proprio quello di un’emergenza che non c’è, perché in tre anni, dal 2018 al 2020 le persone accolte in Italia sono diminuite del 42%.Eppure 7 su 10 sono accolti in centri straordinari, perché è il sistema di accoglienza ad essere basato sulla risposta emergenziale, evidenziando il fallimento di quanto stabilito dal primo Decreto Sicurezza.
Al nuovo rapporto si aggiunge una novità: una mappatura dettagliata – attraverso un sito web facilmente utilizzabile e liberamente accessibile – di tutti i centri di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo del paese. La piattaforma di monitoraggio centriditalia.it, realizzata da ActionAid insieme a openpolis, permette di avere a disposizione in formato aperto tutti i dati dei centri di accoglienza sparsi nel territorio nazionale.
E’ il risultato di un lavoro di raccolta e analisi dati sui centri esistenti in tutta Italia. Un lavoro capillare, che mostra nel dettaglio il numero dei posti disponibili nelle strutture, le presenze effettive, chi gestisce il centro, i prezzi, la localizzazione. Uno strumento per chiunque voglia conoscere, capire, monitorare il sistema, dal singolo cittadino, a giornalisti e ricercatori. E uno strumento che colma un vuoto informativo di Governo e Istituzioni: ad oggi – scrivono le organizzazioni – manca ancora la relazione annuale obbligatoria del 2020 del Ministero dell’Interno al Parlamento.
L’assenza di informazioni verificate e trasparenti ha prestato il fianco per troppo tempo a speculazioni politiche. Non serve gestire l’accoglienza con politiche emergenziali, perché l’emergenza non c’è. Nel 2020 i rifugiati e richiedenti asilo in accoglienza rappresentano solo lo 0,13% della popolazione italiana. Nonostante siano calati drasticamente gli sbarchi e gli ingressi, non c’è stata nessuna volontà di ripensare il sistema e privilegiare l’accoglienza diffusa e pubblica.
“Con un calo delle presenze di queste proporzioni, si sarebbe potuto incentivare con facilità l’accoglienza diffusa delle persone in piccoli centri. Un risultato positivo che invece si è evitato a causa di una scelta politica insita nel Decreto Sicurezza: destrutturare il sistema pubblico di accoglienza diffusa, incentivare l’approccio emergenziale e i centri straordinari e tagliare i servizi per l’integrazione, lasciando che le persone prive di mezzi scivolino verso una condizione di soggiorno irregolare e di estrema marginalità sociale” spiegano Fabrizio Coresi, Programme Expert on migration e Cristiano Maugeri Programme developer di ActionAid.
“Centri d’Italia può fornire elementi concreti per porre in essere politiche pubbliche basate sull’impatto delle riforme attuate negli anni, e non sulla strumentalizzazione della questione migratoria. Dobbiamo tuttavia rilevare che nonostante gli sforzi nella richiesta dei dati e i progressi nell’ottenimento degli stessi, rimangono ancora oscuri aspetti essenziali per la realizzazione di una trasparenza effettiva dell’accoglienza in Italia. Parliamo dei dati economico-finanziari che collegano i singoli centri agli enti gestori, che ad oggi ci sono stati negati”, continuano Michele Vannucchi e Mattia Fonzi, responsabili di progetto per openpolis.
In risposta alla diminuzione delle presenze, tra il 2018 e il 2020, i curatori del rapporto hanno assistito a una diminuzione del 25,1% del numero di centri attivi sul territorio nazionale e del 40,2% dei posti complessivamente disponibili (il 46,8% in meno nel sistema Sprar/Siproimi). A fine 2020, 7 persone su 10 sono accolte in centri di gestione prefettizia. Di questi, i centri di piccole dimensioni sono quelli ad aver perso più posti dal 2018 al 2020, quasi 22mila.
Ad aumentare è invece la centralità delle città più grandi. In 16 città vengono ospitate oltre il 18% delle persone e i centri di Roma e Milano tendono ad essere i più grandi. Due anni prima la percentuale era al 14,2%. Scendono anche i prezzi, ovvero la cifra attribuita per spese di vitto, alloggio e servizi per l’integrazione e a subire il maggior taglio sono i prezzi per i centri piccoli (-27%) e succede in particolare al nord, con punte che arrivano al -46%.
Gli autori spiegano che ci sono ancora molte informazioni fondamentali a cui non hanno avuto accesso, nonostante le molte richieste di accesso agli atti, ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato. Un esempio sono i codici fiscali e le partite IVA dei gestori, utili a identificarli con sicurezza e a verificare un fenomeno registrato anche in passato, ovvero l’ingresso nel sistema di società for profit prive di vocazione sociale, competenze ed esperienza necessarie. “Fino a quando la maggioranza dei richiedenti asilo che si trovano nel paese sarà ospitata in centri straordinari, non ci potrà essere approccio sistemico all’accoglienza sui territori” conclude Fabrizio Coresi di ActionAid.
La speranza per le organizzazioni è che il Ministero prenda atto della situazione e proceda e garantisca maggiore trasparenza sul sistema, quest’ultima giudicata come un antidoto contro il business sulle spalle dell’accoglienza e contro la criminalizzazione della solidarietà.
Il rapporto “L’emergenza che non c’è” è disponibile qui.
La piattaforma è disponibile qui.
Immagine in evidenza di Openpolis
A pochi metri dal confine di ponte San Luigi, a Ventimiglia, Mosaab si affaccia dal parapetto guardando il porticciolo di Mentone, prima cittadina in territorio francese. “Dopo essere sopravvissuto alla Libia – spiega – non avrei mai immaginato che passare questo confine sarebbe stato così difficile”. Per l’ottava volta il giovane diciottenne originario del Sudan del Sud è stato identificato e riaccompagnato sul territorio italiano dalla polizia d’Oltralpe. È il numero 39 – dice il foglio che ne sancisce il divieto di ingresso – di una giornata quasi primaverile di fine gennaio. Mosaab è solo uno degli oltre 24mila respingimenti registrati al confine italo-francese nel 2021: secondo i dati ottenuti da Altreconomia provenienti dal ministero dell’Interno il 13% in più rispetto al 2020 e pari al 46% in più del 2019. “Da quando la collaborazione tra le polizie è più intensa è sempre più difficile passare e il ruolo dei passeur è sempre più rilevante”, spiega Enzo Barnabà, scrittore e storico che abita a poche centinaia di metri dal confine italo-francese.
Alla stazione italiana di Ventimiglia la polizia controlla a intermittenza gli accessi ai treni: nel primo mattino un dispiegamento di sette agenti rende pressoché impossibile a tutti coloro che hanno determinate caratteristiche somatiche salire sul treno in mancanza di documenti: due poliziotti presidiano l’uscita dalle scale che dal tunnel portano sulla piattaforma. Ma all’ora di pranzo, nel cambio turno, sulle piattaforme dei binari si perdono le tracce degli agenti almeno per un paio di ore. Allo stesso modo i francesi non riescono a garantire un controllo costante. “Il venerdì pomeriggio, quando c’è il mercato di Ventimiglia, meta da parte dei cittadini francesi, in treno praticamente non controllano nessuno” spiega Alessandra Garibaldi, operatrice legale di Diaconia Valdese (diaconiavaldese.org). “Così come quando gioca il Nizza: il prefetto concentra i controlli allo stadio e il passaggio è più facile” aggiunge Barnabà. Non sono “falle del sistema” ma la consapevolezza che non è possibile bloccare migliaia di persone in una cittadina al confine tra due Stati membri dell’Unione europea. Un confine sempre più militarizzato con “infinite” possibilità di passarlo: a piedi, in treno o in camion percorrendo le strade statali lungo l’autostrada. Tanto che da Bordighera, la città prima di Ventimiglia viaggiando in direzione Nizza, le piazzole di sosta sono chiuse e nell’ultimo autogrill italiano non è possibile la sosta per i tir con un peso maggiore di 3,5 tonnellate.
Bashir, diciottenne originario del Ciad, racconta che è la seconda volta che prova ad attraversare e viene respinto. “Ieri abbiamo pagato 50 euro per sapere dove fosse l’imbocco del sentiero – spiega -. Per passare in macchina ne servivano 300 ma io non ho tutti quei soldi”. Bashir è arrivato in Italia da appena 30 giorni ed è la seconda volta che prova ad attraversare a piedi: la polizia francese l’ha intercettato nella tarda serata del giorno prima e poi trattenuto tutta la notte. Da Grimaldi, un Paese di meno di 300 abitanti a otto chilometri da Ventimiglia parte il sentiero che è stato ribattezzato “Passo della morte”. Diversi oggetti segnano la strada: valigie, ombrelli, spazzolini, documenti “stracciati”. Chi transita si alleggerisce passo dopo passo di tutto ciò che è superfluo. Superata l’autostrada, il sentiero prosegue verso l’interno della vallata per poi risalire dritto verso il crinale della montagna. Un “buco” nella rete metallica permette l’ingresso in Francia, da quel punto in poi è più difficile seguire le tracce della strada. Di notte, le persone sono attratte dalle luci di Mentone sotto di loro. Puntano verso il basso rischiando di scivolare nel precipizio. “È un sentiero che hanno utilizzato gli ebrei che scappavano in Francia, gli ustascia che scappavano dall’ex Jugoslavia negli anni 50. Oggi lo percorrono i migranti correndo gli stessi rischi di sempre” spiega Barnabà che su quel sentiero e sui “ricorsi” storici ha pubblicato un libro dal titolo “Il Passo della Morte” pubblicato per Infinito edizioni. Un confine, quello tra Italia e Francia, che resta mortale.
Il primo febbraio è stato trovato il corpo carbonizzato di un migrante sopra il pantografo di un treno diretto da Ventimiglia a Mentone. Una notizia arrivata poche ore dopo quella dell’identificazione di Ullah Rezwan Sheyzad, un giovane afghano di 15 anni trovato morto lungo i binari della linea ferroviaria di Salbertrand, in alta Valle di Susa, lo scorso 26 gennaio mentre tentava di raggiungere la Francia attraverso la rotta alpina.
Aboubakar è stato respinto insieme a Bashir nonostante i suoi sedici anni: sul foglio di respingimento la polizia ha indicato la maggiore età. Le persone rintracciate vengono prima accompagnate nella sede della polizia francese, prima del confine del ponte San Luigi e successivamente riconsegnate, un centinaio di metri più in su percorrendo la strada in direzione Ventimiglia, alle autorità italiane di fronte alla sede della polizia di frontiera. “Teoricamente la procedura di rifiuto di ingresso implicherebbe un esame individuale delle persone e la garanzia del rispetto di certi diritti per le persone fermate – spiega Emilie Pesselier, coordinatrice del progetto sulle frontiere interne francesi dell’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (anafè.org) -. Ma alla frontiera franco-italiana questo non succede: non c’è nessuna informazione legale sulla procedura e sui diritti, nessuna possibilità di contattare un avvocato o un parente, e nessuna possibilità di chiedere l’ingresso nel territorio in regime di asilo. Inoltre, le persone arrestate possono essere private della loro libertà in locali adiacenti alla stazione della polizia di frontiera francese senza alcun quadro giuridico o diritto e in condizioni di reclusione poco dignitose: ci sono solo panche di metallo attaccate alle pareti degli edifici modulari. E le persone restano rinchiuse in queste condizioni a volte per tutta la notte. Anche le persone vulnerabili”.
Nel 2021 secondo i dati ottenuti da Altreconomia su un totale di 24.589 respingimenti la maggioranza dei respinti dalla Francia verso l’Italia proviene dalla Tunisia (3.815), seguiti dal Sudan (1.822) e dall’Afghanistan (1.769). Un aumento, nel totale, rispetto al 2019 (16.808) e al 2020 (21.654). Ormai da quasi sette anni – giugno 2015 – la Francia mantiene i controlli ai confini interni per dichiarate “ragioni di sicurezza” nonostante il periodo massimo previsto dal codice Schengen sia di 24 mesi. L’eccezionalità diventa normalità con la “benedizione” delle istituzioni europee. “La Commissione non ha mai fermato queste procedure -spiega l’avvocata Anna Brambilla dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (asgi.it) – si è sempre limitata a ricordare agli Stati il rischio di progressivo svuotamento dello spazio di libera circolazione a causa del prolungato ripristino dei controlli alle frontiere interne e a suggerire misure alternative come i controlli di polizia. Oggi la Commissione torna a proporre di rafforzare la strategia degli accordi bilaterali di riammissione e di cooperazione di polizia”. È il “cambiamento di paradigma” nella cooperazione con i Paesi terzi (e non) previsto dal Patto sulla migrazione e l’asilo presentato nel settembre 2020 al Parlamento europeo: procedure di riammissione più semplici e senza garanzie in termini di rispetto dei diritti. “Da un rischio di svuotamento di significato di alcune disposizioni si passa al consolidamento di prassi illegittime al punto che si modifica il testo normativo per farle diventare legittime”.
Questi “accordi” hanno così effetti devastanti sulle persone, costrette a tentare più e più volte di attraversare ma anche su Ventimiglia. “È una città che non si è mai adattata a quello che è il transito delle persone affrontando la migrazione sempre come fenomeno emergenziale – continua Garibaldi, dal 2017 operatrice legale al confine -. Si pensa che l’unico modo di gestire la situazione sia aumentare le forze dell’ordine ma i risultati sono evidenti”. Le persone vivono per strada. Adulti, giovani, donne e bambini. La Caritas prova a sistemare le famiglie in transito negli appartamenti ma non sempre ci riesce. “La notte è il momento più complesso – spiega Christian Papini, il direttore della Caritas Intermelia -. Devi fare attenzione perché ti possono rubare la tenda, picchiare. Questa ‘paura’ si ripete ogni giorno. Non avere una rete che ti protegge, nessuna nicchia sicura porta a complicanze, spesso vulnerabilità psichiatrica. Le persone cominciano ad abusare di sostanze psicotrope e alcol e la tensione in città non può che aumentare”. La difficoltà nell’attraversare la frontiera rende tutto più complesso. “Chi non riesce a passare e resta ‘bloccato’ in un imbuto, che è Ventimiglia, inizia a vivere per strada e facilmente inizia a delinquere e magari a fare il passeur. Perché non ha alternative” conclude Garibaldi.
In questo modo, spesso le tensioni si realizzano tra i passeur che hanno promesso “false” soluzioni alle persone che vengono respinte. La Caritas nel mese di agosto 2021 ha registrato 180 interventi di ambulatorio medico legati a ferite da taglio o contusione. Piccoli “regolamenti di conti” in un contesto paradossale in cui i controlli portano ad aumentare le attività illecite. Se si considera che nel 2021 i respinti dalla Francia all’Italia sono stati 25mila e la “tassa” per conoscere anche solo il sentiero da percorrere è di 50 euro mentre il passaggio in macchina, come detto, arriva a costare fino a 300 euro a persona si capisce l’entità di un’economia sommersa ma visibile a tutti in una città militarizzata. “Le istituzioni non ci sono. Ora si parla di aprire un centro, lontano dalla città e su un’area che è a rischio dissesto idrogeologico. È tutto detto e la situazione è sempre più difficile nonostante i numeri dei transiti siano in calo” racconta Papini che lavora a Ventimiglia dal 2001. Si è passato da circa 800 persone al giorno nel 2016, alle 200 di oggi. “Ma chi arrivava all’inizio, sette anni fa, aveva speranza di passare. Oggi non è più così. Le persone sanno che dovranno tentare tante volte e sono esauste. Giusto ieri è arrivata una famiglia con due figli in carrozzina. Tutto questo è disumano”.
Immagine in evidenza di Luca Rondi/Altreconomia
Di Annalisa Camilli su Internazionale
“Una donna, madre di due figli, è stata picchiata mentre era rinchiusa nel carcere di Ain Zara. È stata arrestata durante la retata che c’è stata nell’area di Gargarish. Chi gestisce la prigione controlla i rifugiati, compie abusi contro le donne. Siamo molto spaventati”: è un passaggio di una lettera inviata dai migranti rinchiusi nel carcere di Ain Zara, nella periferia meridionale di Tripoli, all’account Twitter Refugees in Libya, un account gestito da rifugiati e attivisti in Libia.
Centinaia di persone sono incarcerate in seguito al blitz avvenuto tra l’8 e il 9 gennaio, compiuto mentre un gruppo di rifugiati protestava davanti alla sede dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) chiedendo di essere trasferiti dalla Libia, un paese considerato non sicuro, in cui i migranti sono sottoposti ad abusi di ogni tipo, detenzione arbitraria e violazioni sistematiche dei diritti umani. Era il 2 febbraio 2017 quando l’allora presidente del consiglio italiano Paolo Gentiloni firmò il Memorandum di intesa (Mou) con Tripoli sui migranti che prevedeva di ripristinare l’accordo di amicizia Italia-Libia del 2008. Il giorno successivo i leader europei salutavano con favore il patto italo-libico sull’immigrazione in un vertice a Malta.
L’accordo prevedeva la formazione e il sostegno alla cosiddetta guardia costiera libica – che avrebbe avuto il compito di pattugliare le coste per fermare le imbarcazioni di migranti – e il finanziamento dei centri di detenzione libici, chiamati dall’accordo “centri di accoglienza”. Nonostante le numerose denunce di violazioni dei diritti umani, di “inimmaginabili orrori” (documentati dall’Onu nel 2018) commessi nei centri di detenzione libici finanziati dal governo italiano “dai funzionari pubblici, dai miliziani che fanno parte di gruppi armati e dai trafficanti”, in un contesto di assoluta impunità, il governo italiano nel 2020 ha prorogato automaticamente l’accordo per altri tre anni (fino al 2023). Cinque anni dopo la firma del Memorandum, la guardia costiera libica ha fermato e riportato indietro nel paese 82mila persone.
Secondo l’ong Oxfam di più di 20mila migranti riportati in Libia si sono perse le tracce. Per finanziare la guardia costiera e i centri di detenzione, l’Italia ha speso quasi un miliardo di euro. Secondo Amnesty international “uomini, donne e bambini rimpatriati in Libia devono affrontare detenzioni arbitrarie, torture, condizioni disumane, stupri e violenze sessuali, estorsioni, lavori forzati e uccisioni. Invece di affrontare queste continue violazioni dei diritti umani, il governo libico di unità nazionale continua a essere complice degli abusi e a rafforzare l’impunità, come illustrato dalla recente nomina di Mohamed al Khoja a direttore del Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale (Dcim). Al Khoja gestiva il centro di detenzione di Tariq al Sikka, dove sono stati documentati abusi ai danni dei migranti”.
In un rapporto del 17 gennaio 2022, il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha detto di provare una “grave preoccupazione” per le continue violazioni dei diritti umani contro rifugiati e migranti in Libia e ha confermato che “la Libia non è un porto di sbarco sicuro per rifugiati e migranti”. Il rapporto conferma inoltre che la cosiddetta guardia costiera libica ha continuato a operare in modi che mettono a grave rischio la vita e il benessere dei migranti e dei rifugiati che tentano di attraversare il mar Mediterraneo. Nonostante questo, un rapporto interno del comandante dell’operazione navale dell’Unione europea Eunavfor Med Irini, pubblicato dall’Associated press il 25 gennaio 2022, conferma che le autorità europee sono intenzionate a continuare la cooperazione con la guardia costiera libica.
L’attuale accordo dell’Italia con la Libia scade nel febbraio del 2023, ma si rinnoverà automaticamente per altri tre anni se le autorità non lo annulleranno prima di novembre del 2022. In concomitanza con il quinto anniversario dell’accordo, centinaia di associazioni e di ong, italiane, libiche, africane ed europee, hanno chiesto che il governo italiano revochi il patto, presentando un’analisi degli effetti dell’accordo sulla vita degli stranieri nel paese nordafricano. “Il Memorandum Italia-Libia sta, nei fatti, agevolando la strutturazione di modelli di sfruttamento e riduzione in schiavitù all’interno dei quali sono perpetrate in maniera sistematica violenze tali da costituire crimini contro l’umanità”, denuncia il rapporto.
Immagine in evidenza di Mahmud Turkia/Afp
Di Rosita Rijtano su lavialibera
Sovraffollamento, carenza di vestiti adatti al gelo, e di cibo. Sono le condizioni in cui vivono i richiedenti asilo che nei mesi scorsi sono arrivati in Polonia attraversando il confine bielorusso. Lo denunciano associazioni umanitarie e volontari che chiedono la chiusura delle strutture in cui hanno trattenuto quasi tutte le persone che da maggio a oggi sono riuscite a superare la frontiera. Centri di sorveglianza per stranieri simili ai nostri Centri per il rimpatrio (Cpr), in cui “non ci sono gli standard minimi per il rispetto dei diritti umani”, dice a lavialibera Monia Matus di Grupa Granica, sigla sotto cui sono riunite più organizzazioni non governative polacche, aggiungendo che il Paese non ha una politica migratoria: “Una lacuna che rende difficile processare le richieste d’asilo, con il conseguente rischio di possibili abusi”. Non va meglio a chi ancora si nasconde nella foresta tentando di superare il valico polacco, dove nelle scorse ore è iniziata la costruzione del muro annunciato a novembre.
Sin dall’inizio, il governo di destra guidato da Mateus Morawiecki ha ostacolato gli aiuti umanitari al confine, agitando lo spettro dell’invasione nonostante i numeri fossero gestibili. A settembre il parlamento ha adottato lo stato di emergenza, un provvedimento che ha imposto delle restrizioni nella lingua di terra a tre chilometri dalla Bielorussia, limitando i soccorsi. Il provvedimento è stato prorogato di mese in mese fino a dicembre, quando sono state decise nuove regole. Ma nei fatti sembra che non molto sia cambiato. Il 6 gennaio Medici senza frontiere ha annunciato l’abbandono della Polonia per l’impossibilità di accedere alla zona confinaria.
Un’altra ferita aperta sono i respingimenti legalizzati a ottobre dal Sejm, la camera bassa del parlamento di Varsavia, con un emendamento alla legge sugli stranieri: i migranti che superano il confine vengono riportati in Bielorussia, senza che venga presa in considerazione la loro volontà di richiedere asilo. Una pratica che viola i trattati internazionali, ma che in questi mesi in Polonia è diventata prassi nel silenzio d’Europa. Dopo essere stato respinto più volte, chi è ritornato a Minsk ora si trova davanti poche opzioni. Stando a quanto hanno raccontanto a lavialibera alcuni di loro, nelle ultime settimane Lukashenko sta imponendo un ricatto: o vengono arrestati, o rientrano nel proprio Paese, o riprovano a entrare in Polonia.
Qui, in totale, si contano sette centri di sorveglianza per stranieri, di cui uno aperto di recente proprio per far fronte al flusso migratorio in arrivo dalla Bielorussia. Al momento si stima che ospitino circa duemila individui. Tutte le strutture, incluse quelle in cui ci sono i bambini, si trovano in condizioni pessime. “Il principale problema è il sovraffollamento – spiega Matus –. Ma le persone con cui abbiamo parlato denunciano anche la carenza di cibo e di vestiti adeguati al freddo”. Pochissime le postazioni internet, a cui ognuno ha accesso non più di quindici minuti al giorno. Banditi gli smartphone dotati di fotocamera e di strumenti di registrazione audio.
Un’altra difficoltà generale è legata ai lunghi tempi di attesa per ottenere risposta alla richiesta di asilo. In teoria, non dovrebbero passare più di tre mesi. In pratica, grazie alla possibilità di prolungare di altri tre mesi il soggiorno all’interno di queste strutture, alcuni si ritrovano imprigionati per molto tempo. “Di contro, le domande accolte sono pochissime”. Nel 2020, per esempio, hanno ottenuto protezione internazionale solo 392 persone, a fronte delle 2803 che ne avevano fatto richiesta. “Il governo polacco non ha mai brillato per la gestione dei richiedenti asilo, ora la situazione è solo peggiorata”, conclude Matus.
Molto critica la situazione a Wedrzyn, collocato all’interno di una caserma per l’addestramento militare, a circa cinquanta chilometri dalla Germania. La struttura ospita 593 uomini, con camere da 24 posti letto ciascuna. Hanna Machinska, vice garante civica (l’istituzione che in Polonia si occupa di difendere i diritti umani), ha visitato il centro il 24 gennaio scorso, documentando che la densità rende impossibile il rispetto dei diritti e riduce la funzione di Wedrzyn a quella di mero “isolamento”. L’unico spazio aperto è un piccolo cortile recintato dal filo spinato.
La vice garante ha anche fatto notare che la superficie minima prevista per gli stranieri in queste strutture (due metri quadri) è persino inferiore a quella dei detenuti nelle carceri (tre metri quadri) e al di sotto degli standard raccomandati dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (quattro metri quadri). Non solo: i richiedenti asilo si trovano in un cattivo stato mentale, esasperato dal fatto di essere da molto tempo costretti a rimanere in un luogo così sovraffollato.
Da mesi, nel centro si susseguono le proteste. L’ultima qualche giorno fa. Uno sciopero della fame a cui hanno partecipato, tra gli altri, sette siriani. Il gruppo si trova a Wedrzyn da dicembre, quando spontaneamente si è presentato alla Guardia di frontiera polacca accompagnato dagli attivisti di Grupa Granica. Due di loro, Munzer e Gaith, hanno visto la propria città natale distrutta dall’Isis e sono stati più volte incarcerati dal regime siriano per la propria attività politica. In particolare – riportano i volontari dell’associazione –, Munzer ha paura delle armi e il posto in cui si trova gli riporta alla mente le traumatiche esperienze vissute in Siria. “Non possiamo restare ancora in prigione, rispettiamo il Governo polacco, ma non c’è alcuna ragione per tenerci qui”, ha detto il giovane agli attivisti.
Silvia Cavazzini, una volontaria italiana che parla ogni giorno con alcune persone all’interno della struttura, aggiunge che anche le cure mediche sono carenti: a un ragazzo che soffre di epilessia, per esempio, non gli sono state riconosciute tutte le medicine di cui aveva bisogno. “Ma al di là dei casi specifici, tutti lamentano di stare male e di non ricevere abbastanza supporto”. Inesistenti, poi, le misure anti-Covid: “Hanno detto – prosegue Cavazzini – di non aver ricevuto alcuna mascherina, né di aver fatto un tampone all’ingresso”. In uno dei cinque blocchi che compongono il centro, la situazione sarebbe persino peggiorata dopo una rivolta, quando i tafferugli avrebbero portato a una rappresaglia delle guardie che ha ripercussioni ancora oggi: un limitato accesso alla Rete.
Intanto al confine sono partiti i lavori per la costruzione di una barriera lunga circa 186 chilometri, che la Guardia di frontiera polacca, sul proprio sito ufficiale, definisce “il più grande investimento nella storia” del corpo. La struttura si compone di pali di acciaio alti cinque metri e sormontati da una rete di filo spinato. Non mancano tecnologie all’avanguardia: sensori di movimento e telecamere. Il costo è di 353 milioni di euro. “Vogliamo che la recinzione sia installata entro la fine della prima metà del 2022”, ha dichiarato a novembre il ministro degli Interni di Varsavia Mariusz Kaminsky.
Contro il finanziamento del muro con i soldi dell’Unione europea, si era espresso l’ex presidente dell’europarlamento David Sassoli, morto l’11 gennaio: “Abbiamo visto nuovi muri, i nostri confini in alcuni casi sono diventati confini tra morale e immorale, tra umanità e disumanità, muri eretti contro persone che chiedono riparo dal freddo dalla fame dalla guerra dalla povertà”, ha detto nel suo ultimo video messaggio pubblicato in occasione delle festività natalizie, aggiungendo: “Il periodo del Natale è il periodo della nascita della speranza e la speranza siamo noi quando non chiudiamo gli occhi davanti a chi ha bisogno, quando non alziamo muri ai nostri confini e quando combattiamo contro tutte le ingiustizie”.
Ma sulla questione l’Europa è divisa. Se l’opinione di Sassoli aveva una spalla sicura nella presidente della Commissione Ursula von der Leyen, la pensano diversamente i 12 Stati Ue che hanno firmato una lettera aperta in cui si legge che “una barriera fisica è un’efficace misura di protezione della frontiera a servizio degli interessi dell’intera Europa”. Un’analisi interna al Consiglio, letta dalla testata Politico, riporta che i Paesi interessati potrebbero ottenere i fondi nel caso in cui rispettino leggi e condizioni Ue, garantendo la supervisione delle istituzioni e in particolare accesso alla frontiera a Frontex (l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera). Un ultimo segnale di apertura è arrivato a novembre, quando il presidente del Consiglio Ue Charles Michel in visita a Varsavia, ha affermato che “basandosi sull’opinione del servizio legale del Consiglia, (il finanziamento, ndr) è legalmente possibile”.
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