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Discorsi d’odio e business virale

#nohatespeech. Facebook: libero pensiero in libero business?

A cura di Cronache di ordinario razzismo

In Italia la questione della eccessiva “tolleranza” di Facebook verso i razzisti è da tempo un leitmotif ricorrente. Per i vertici di Facebook far rimuovere i commenti razzisti è un procedimento molto “complesso” e macchinoso, benché nel suo “statuto”, lo stesso Facebook affermi di non ammettere i contenuti che incitano all’odio e ripudi “la discriminazione di persone in base a razza, etnia, nazionalità, religione sesso, orientamento sessuale, disabilità o malattia”. A tal proposito, esiste un’apposita finestra che consente agli utenti di segnalare i commenti e i post di questa natura. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, essi restano visibili e non vengono rimossi. Questa è una querelle che ha ragioni molto profonde, legate ad un’idea molto ampia (e forse distorta?) del concetto di libertà di manifestazione del pensiero, che arriva ad includere anche le affermazioni più violente o addirittura false.

E mentre in Germania fa notizia la denuncia da parte di un avvocato nei confronti del gestore di Facebook (nelle persone dei manager della società che gestisce il social network in Germania) per non aver cancellato una sessantina di post e di pagine contenenti messaggi di odio e di violenza razzista, in Italia si parla del post xenofobo di una giovane commessa nei confronti dei cittadini rumeni.Michela Bartolotta, giovane veneta che nell’agosto 2012 arrivò alle finali di Miss Muretto ad Alassio, lavora in un negozio del centro Padova, nella zona delle Piazze. Nel luglio del 2014, appena diciottenne, ha un battibecco con un cliente rumeno che lei definisce “arrogante”. Poi si sfoga su Facebook: «Io e il popolo rumeno non andremo mai d’accordo: puttane senza pudore, badanti represse ed altri elementi maleodoranti privi di civiltà e di educazione. Prima o poi vi stermino». La ragazza, nonostante le scuse ed un pubblico pentimento (a nulla sono valsi i gesti di apertura del padre della ragazza e del gestore del centro di telefonia dove Michela lavora), viene accusata e denunciata per “discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” da parte di Ion Leontin Cojocea, presidente del Centro di assistenza e servizi dei cittadini romeni in Italia. La giustizia fa il suo corso e sulla giovane pendono oggi pesanti accuse. «Le ingiurie attribuite alle donne offendono, con solo tre parole, la dignità, l’onore e la reputazione di tutta la componente femminile dell’associazione e dell’intera comunità romena» spiega Cojcocea.

Sui social, oramai, è possibile esprimere sentimenti che, tuttavia, spingono a volte azioni inconsulte ed ai limiti (ed oltre) dell’odio e della violenza razzista, come ad esempio la legittimazione a possedere un’arma per “farsi giustizia da soli” (emblematico, in tal senso, lo “show” del leghista Buonanno andato in onda qualche giorno fa su SkyTg24) o, appunto, la pubblicazione di post pesantemente offensivi e stigmatizzanti contro un’intera popolazione (quella rumena in questo caso).

Ma l’indagine aperta ad Amburgo potrebbe segnare una svolta in Europa per il fatto stesso di aver coinvolto per la prima volta le altre cariche dei social network, tralasciando i singoli autori dei post. Si sale di livello quindi.

E la cosa non sarebbe male, se venisse fatta anche in Italia, al fine di creare un’azione condivisa e simultanea che obblighi i social ad agire una volta per tutte. E dall’alto. L’hate speech, come abbiamo ribadito più volte, necessita di  regole chiare e valide a livello europeo. Non ci si può fermare al singolo post segnalato. E l’ultima frontiera, che si è aperta di recente, è quella che insinua il sospetto che all’origine di questa sorta di “lassismo” e di laisser-faire  nei confronti di post violenti, carichi di odio e alle volte anche bugiardi, non ci sia solo un’idea molto ampia (e ambigua) di libero pensiero, ma piuttosto un’idea che i discorsi d’odio vengano “tollerati” perché “producono” visualizzazioni, like, condivisioni. Ovvero, business virale.

Se vuoi dire basta ai discorsi d’odio firma la petizione #nohatespeech qui.

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