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“Vietato l’ingresso agli zingari”. Nel Giorno della memoria ricordare il Porrajmos insieme alla Shoa

Porrajmos, il massacro di persone rom nei campi di concentramento nazisti

Marzo 2014. Un commerciante espone sulla vetrina della sua panetteria, nel quartiere Tuscolano di Roma, un cartello scritto a mano: «È severamente vietato l’ingresso agli zingari». L’episodio razzista viene segnalato ad Associazione 21 luglio che condanna subito il gesto.

Il giorno stesso lUnione delle comunità ebraiche italiane scrive questa nota: «Il vergognoso cartello di divieto apparso in un esercizio commerciale di Roma in cui si tentava di impedire l’ingresso agli zingari evoca in modo preoccupante il periodo più buio della nostra storia. Anche se si tratta di un episodio isolato, non possiamo, come ebrei italiani, rimanere in silenzio di fronte a questi gesti razzismo. Un’offesa alla Memoria e un’inaccettabile, irresponsabile discriminazione nei confronti di una minoranza. Come ebrei, esprimiamo la nostra solidarietà alle comunità dei rom e dei sinti e condanniamo fermamente l’accaduto».

Sui social network inizia presto a circolare un collage che accosta al cartello affisso sulla panetteria quelli già apparsi nella Germania del 1938 e nel Sudafrica del 1953.

Le reazioni non tardano ad arrivare e sono moltissime: sono migliaia i commenti che appaiono su Facebook, Twitter e sui siti di informazione in cui emerge, più forte che mai, il razzismo nei confronti della comunità romanì. Migliaia di persone esprimono la propria indignazione scaturita non dal gesto razzista, ma dal tentativo di “difendere” i rom. A colpire Associazione 21 luglio il rifiuto degli utenti del web verso il paragone tra le discriminazioni subite da ebrei e rom.

Associazione 21 luglio decide così di lavorare alla ricerca «Vietato l’ingresso», che mette a confronto rappresentanti della comunità ebraica e rom sull’antiziganismo attraverso una serie di interviste, prendendo spunto dall’episodio di Roma.

Nel tentativo di ricordare, a fianco della Shoa, il Porrajmos, ecco quindi alcuni estratti delle interviste realizzate nell’ambito dell’indagine.

Piero Terracina, testimone del Campo di concentramento di Auschwitz – Birkenau

«Ricordo quando furono emanate le leggi razziali contro gli ebrei in Italia. Erano leggi rivolte esclusivamente agli ebrei, le altre minoranze, qui in Italia quantomeno, non erano a rischio, non erano perseguitate. Bisogna pensare che all’epoca gli italiani erano per la stragrande maggioranza fascisti e questo facilitò la promulgazione di queste leggi razziste, anch’esse un’infamia. […] Furono emanate queste leggi e la gente si adeguò immediatamente, andando forse oltre anche quelle che erano già provvedimenti vessatori. Non esistevano leggi che vietavano agli ebrei di frequentare i negozi però, qualche commerciante fascista, di propria iniziativa, decise di affiggere su alcune vetrine cartelli con su scritto il divieto d’ingresso rivolto “Ai cani e agli ebrei”. E’ stata per noi una cosa assolutamente scioccante, per noi che avevamo vissuto in pace e in amicizia con tutti quanti fino ad allora. […] Questo fatto del cartello “Vietato l’ingresso agli zingari” non può non richiamarmi alla mente ciò che accadde allora, quindi posso dire che era una infamia allora e lo è anche oggi».

«Oggi in Italia abbiamo tante difficoltà, lo sappiamo. Difficoltà economiche e culturali: siamo rimasti indietro un po’ in tutti i campi e, quando ci sono queste fasi, la maggioranza sente il bisogno di addossare le colpe di queste difficoltà ad una minoranza. Lo fa perché, in quanto minoranza, non ha la possibilità di difendersi. Gli ebrei allora erano raffigurati come i portatori di tutti i mali e oggi, nel caso del cartello in questione, seppure si sia trattato dell’iniziativa di una singola persona, ciò che temo è che si formi un gruppo sociale che porti avanti queste idee infami. È facile addossare le colpe ad una minoranza. […] È fondamentale bloccare ogni iniziativa discriminatoria prima che essa si sviluppi ancor di più di quanto non lo sia già».

«Io non posso dire di aver assistito, ma sono certamente un testimone dello sterminio di rom e sinti avvenuto ad Auschwitz il 2 agosto del 1944. Io ero là, era notte, e naturalmente nessuno di noi poteva uscire dalle baracche in ragione del coprifuoco. Mi trovavo nel campo D di Birkenau, che era diviso in vari settori, il settore A – era quello di quarantena – e il settore B. Nel settore B al mio arrivo vi erano i cecoslovacchi che, non so perché, erano stati ancora risparmiati dalla soluzione finale. Li avevano lasciati in quel settore probabilmente per tentare uno scambio con dei prigionieri di guerra tedeschi. Venivano dal campo di Theresienstadt, ma evidentemente quell’accordo non fu raggiunto. La notte del 2 agosto del 1944 furono assassinati tutti i rom e sinti presenti nel settore E, che vivevano a pochi metri da dove mi trovavo, separati soltanto da filo spinato della alta tensione. Non ho visto niente ma ho sentito tutto: la confusione terribile che ci fu all’arrivo delle SS, poiché evidentemente si era ormai compreso cosa stesse per succedere. Fino a quel momento lo Zigeunerlager, come veniva chiamato, a me sembrava un’oasi felice soprattutto perché c’erano tanti bambini e certamente molti di questi erano nati là dentro poiché uomini e donne erano rinchiusi assieme. E dove ci sono bambini c’è speranza, c’è futuro. A me sembrava che fosse davvero un luogo felice. Invece quella notte del 2 agosto 1944 si levò una grande confusione seguita da un profondo silenzio. Al mattino successivo, appena svegli, andammo subito a guardare dall’altra parte del filo spinato. Non c’era più nessuno, c’era solo silenzio, un silenzio doloroso, un silenzio agghiacciante. Siccome non erano arrivati trasporti di prigionieri il giorno prima, e si vedevano le ciminiere dei fori crematori che andavano alla massima potenza, si capì che quella notte furono tutti mandati a morire».

 

Giovanna Boursier, regista, autrice, giornalista

«Ciò che trovo profondamente ingiusto è che ci sono voluti anni e ce ne vorranno ancora perché la loro persecuzione diventi un dato storico e culturale comune, e lo dimostra la reazione della gente che mi racconti. Eppure quel che è accaduto è agghiacciante, per esempio la notte dello sterminio dei rom ad Auschwitz, cioè dello Zigeunerlager, il campo BIIE, e B sta per Birkenau: tra il 31 luglio e il 2 agosto del 1944 tutti coloro che erano sopravvissuti fino a quel momento, circa 3.000 tra uomini donne e bambini, finirono nelle camere a gas. Chi lo racconta, ricorda anche la loro ribellione, il che dimostra quanto avessero compreso quello che stava accadendo. […]  Certamente sull’antisemitismo si è riflettuto di più e l’apoteosi dei campi di sterminio è talmente abominevole che, a parte i revisionisti, è un fatto condiviso. Invece sulla persecuzione dei rom si è riflettuto troppo poco, e purtroppo ci si è anche rifiutati di farlo. Ricordo Michael Zimmerman, uno storico ebreo tedesco che ci ha lasciato troppo presto, che fece un lavoro molto approfondito e documentato sullo sterminio dei rom che mostra quanto alcuni percorsi di conoscenza esistano, ma non vengono mai riconosciuti».

«Oggi ci sono ancora molte persone che continuano a diffidare dei rom. E a dire cose false: per esempio che non mandano i figli a scuola, cosa non vera, non per la maggior parte di loro, basta guardare i dati degli assessorati, o che rubano i bambini, e anche questo è falso, come hanno documentato studi approfonditi, o che rubano e non si lavano per cultura, mentre nei “campi” spesso non c’è nemmeno l’acqua. Ma è più utile guardare solo le contraddizioni, diffonderle e trasformarle nel “problema”, rendendolo caratteristico di quel gruppo o popolo, anche quando, invece, esiste in ogni cultura: perché è indubbio che nei “campi” ci sia anche molta criminalità, sfruttamento, maschilismo grave, violenza anche, a volte. Ma discutere solo di questo è sbagliato. Però utile, in particolare nei momenti di crisi, quando è meglio avere un nemico, a cui togliere per primo diritti e possibilità, e col quale identificarsi per antitesi. Definire il diverso, “l’altro”, per opposizione, serve a dire, ad esempio, “io vivo nelle mie sicurezze, in una comunità regolata, stabile e sicura”. Quindi se “noi mandiamo i nostri figli a scuola, non rubiamo, ci laviamo”, l’altro diventa quello che “non si lava, puzza e viola la legge”. E fa comodo, per mettersi tra i giusti, nella comunità difesa. Naturalmente questa non è la verità, poiché finché proietti all’esterno il problema, rifiutandone il carico, vivi una falsa realtà. Infatti, quando poi il problema si manifesta in tutta la sua virulenza non puoi fare altro che crollare. Credo che il razzismo abbia anche questa funzione sociale e, da questo punto di vista, non finisca mai».

 

Alexis Santino Spinelli, musicista e docente universitario

«Gli ebrei hanno avuto un risarcimento economico, morale, politico, sociale e culturale dopo la Seconda Guerra Mondiale che i rom, pur subendo le stesse persecuzioni per gli stessi motivi razziali, non hanno avuto. A Norimberga nessun rom è stato invitato a denunciare i propri carnefici e questo è molto significativo. […] Proprio per non risarcire i rom si è rimosso il “problema” fin da subito, tanto che continuano a subire la stessa discriminazione su base razziale ancora oggi. Gli ebrei sono un popolo unito dalla religione, da una forte potenza economica, da un grado di istruzione elevato e soprattutto da una consapevolezza di sé che li porta ad essere uniti e solidali nei confronti del mondo esterno. […] I rom vivono oggi come gli ebrei vivevano sotto il nazismo».

«La propaganda romfobica ha attecchito alla perfezione anche nelle menti più eccelse. Si fa passare per normale ciò che è disumano. Del resto si accettano ineluttabilmente i “campi nomadi” che sono l’espressione di segregazione razziale più vergognosa e più incivile della nostra società. I rom non sono mai stati “nomadi” per cultura ma gli spostamenti sono sempre stati coatti e figli della discriminazione. I rom sono esseri umani che non hanno nessun problema a fermarsi in un posto e a convivere se le condizioni lo permettono. Oggi il tanto decantato nomadismo giustifica la ghettizzazione adducendo che è nella cultura dei rom vivere in tal modo e c’è chi rispetta questa volontà. In realtà è il risultato della romfobia. Del resto per indicare i rom ancora oggi si una l’eteronimo dispregiativo di “zingari”. Un popolo non definito secondo il proprio etnonimo non esiste e se non esiste non ha diritti. C’è una forma di ineluttabilità nella permanenza degli stereotipi anti-rom? No, c’è una chiara volontà di sfruttare economicamente persone inermi e senza alcuna tutela. Lo sfruttamento da parte delle associazioni pro-rom della loro situazione è il risvolto della medaglia: milioni e milioni di euro sperperati in nome e per conto dei rom senza alcun beneficio reale per gli stessi rom. Si fa di tutto per non cambiare nulla nonostante l’enormità di denaro elargito da parte dell’Europa e degli enti pubblici. Una sorta di neocolonialismo autoreferenziale. E proprio questo sfruttamento economico che influenza tutti gli altri aspetti e giustifica lo sguardo mistificante e romfobico imposto sul mondo romanì».

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