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Rifugiati e salute. Dalla tbc alla scabbia, i dati che smentiscono gli allarmi infondati

I rifugiati portano con loro malattie infettive? I numeri dicono di no. La maggior parte arriva in buona salute, ma le condizioni abitative e lavorative incontrate qui possono causarne il deterioramento

Di Claudia Torrisi

Realizzato in collaborazione con 

Dimora vietata a persone provenienti da paesi dell’area africana e asiatica anche temporanea se non in possesso di regolare certificato sanitario aggiornato”. Così si legge in un’ordinanza di giugno del sindaco di Carcare – paese dell’entroterra savonese – emessa per “tutelare la salute dei cittadini” dall’arrivo di migranti originari di luoghi in cui “sono ancora presenti numerose malattie contagiose”, debellate in Europa. L’estate scorsa il sindaco di Alassio aveva emanato un provvedimento simile, con uno scopo pressoché identico: “tutelare la sicurezza e la salute dei nostri cittadini e dei nostri turisti”, in “risposta alla situazione di emergenza e all’invasione incontrollata del territorio nazionale”.

Al di là dei casi dei comuni liguri, la convinzione di una pericolosità sanitaria dei migranti e dei rifugiati è piuttosto diffusa. Ma esiste davvero il rischio di contagi e del ritorno di epidemie dimenticate?

L’analisi

Un rifugiato siriano attende assistenza medica in un’area dedicata a bordo della nave San Giusto. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità solo una percentuale tra il 2% e il 5% arriva in stato di salute compromesso. Foto ©UNHCR/A.D’Amato

Secondo la direttrice dell’ufficio europeo dell’Organizzazione mondiale della sanità Zsuzsanna Jakab, la percentuale di migranti “che arrivano in stato di salute compromesso è compresa tra il 2 e il 5%, e si tratta di patologie dell’apparato cardiocircolatorio, mentale o legate allo stato di gravidanza, ma per lo più sono ferite dovute a incidenti”. Questo dato è stato confermato anche da un report di Medici per i diritti umani, che ha chiesto all’Asl di Brindisi i dati sui ricoveri dei cittadini stranieri negli ospedali della provincia relativi all’anno 2015, e ha rilevato come questi non abbiano rappresentato neppure l’1% del numero complessivo. Tra i motivi di ricovero le cause infettive si trovavano “agli ultimissimi posti”, e la frequenza dei motivi di ammissione in ospedale era “sovrapponibile a quella dei ricoveri complessivamente considerati. (…) Tale rilievo confuta l’idea che gli immigrati siano portatori di malattie trasmissibili e siano la causa della loro diffusione nelle popolazioni native”.

Nonostante questo, ci sono in particolare alcune patologie contagiose di cui si parla con toni allarmistici come legate alla questione immigrazione: HIV, tubercolosi, scabbia, sifilide. Eppure i dati dicono altro.

Lo spettro dell’Hiv. Oms: basso il rischio di arrivo da Medio Oriente e Nord Africa

Secondo l’Oms, ad esempio, “la prevalenza di infezione da HIV è generalmente bassa tra le persone provenienti dal Medio Oriente e Nord Africa. Quindi, vi è un basso rischio che l’HIV sia portato in Europa dai migranti provenienti da questi paesi”. Stando ai dati forniti dallo European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) elaborati da studenti della scuola di giornalismo dello Iulm di Milano, “solo il 2,6% dei nuovi casi sono riconducibili a soggetti provenienti dall’Africa sub-Sahariana”, e nel nel 2014 “la proporzione di stranieri tra le nuove diagnosi di infezione da HIV è stata del 27,1%, con un numero assoluto di casi pari a 1.002, risultando in calo rispetto all’ultima rilevazione effettuata nel 2006, in cui l’incidenza straniera era del 32,9%”.

Va considerato, poi, che molti contraggono il virus dopo l’arrivo in Europa. Lo sostiene l’Oms, e lo confermano anche recenti ricerche. Lo studio “HIV acquisition after arrival in France among sub-Saharan African migrants living with HIV in Paris area” – presentato alla conferenza Ias 2015 – ha mostrato come tra il 35 e il 49% dei migranti provenienti dall’Africa che vivono con HIV in Francia ha probabilmente acquisito il virus dopo aver lasciato il continente d’origine. Anche secondo il professor Giampiero Carosi – ex direttore dell’Istituto di malattie infettive e tropicali dell’Università di Brescia – “una percentuale elevata di migranti contrae l’infezione qui da noi”, anche perché “un soggetto malato non si mette in viaggio – e che viaggio”. La questione delle modalità di contagio, infine, ridimensiona molto il pericolo: l’HIV, infatti, non si trasmette per via aerea, ma solo sessuale o ematica. Tra l’altro, il virus è tuttora presente in Italia, nonostante se ne parli sempre meno.

Paura Tbc. Negli ultimi quindici anni un decremento del 64%

Il 2014 è stato l’anno dell’allarme Tbc sui barconi dei migranti, trainato da diversi post sul blog di Beppe Grillo. I dati dell’ECDC riportati dagli studenti dello Iulm mostrano come dal 1990 al 2014 il tasso annuale di casi registrati di Tbc sia “calato da 25,3 per 100mila abitanti a 6, con un decremento pari a circa il 64% del numero di casi”.

Tra il 2003 e il 2012 in Italia la popolazione residente è cresciuta di poco più del 4%, mentre quella straniera ha subito un incremento circa del 154% e parallelamente il numero di casi di Tbc in persone nate all’estero è aumentato, passando dal 37% al 58% del totale in dieci anni.

Come si evince dal rapporto OsservaSalute 2014, “analizzando, però, la frequenza di casi di Tbc notificati a persone nate all’estero rispetto alla popolazione residente straniera, si osserva un forte decremento con valori quasi dimezzati nell’arco del decennio di osservazione a fronte di una sostanziale stabilità dell’incidenza nel complesso della popolazione”. Ciò significa che il numero di casi di Tbc nei migranti è aumentato molto meno della loro crescita numerica.

Ad ogni modo, è vero che la condizione di immigrato agevola il rischio di contrarre la malattia: secondo l’Oms il pericolo dipende sì dall’incidenza della Tbc nel paese d’origine, ma anche “dalle condizioni di vita e lavoro nella nazione di immigrazione, dall’accesso ai servizi sanitari e sociali”. Per Giovanni Baglio, epidemiologo dell’Istituto Nazionale Salute Migrazione e Povertà (INMP) di Roma, “la stragrande maggioranza di coloro che vengono a cercare lavoro in Europa partono in ottime condizioni di salute – se soffrissero di tubercolosi in forma conclamata, e quindi infettiva, non potrebbero resistere al viaggio”, e poi arrivati qui deteriorano il loro stato fisico. Insomma, se un pericolo contagio esiste, dipende dalla scarsa possibilità di accesso alle cure.

Psicosi scabbia. Un allarme sopravvalutato sia nei numeri che nel merito

Nonostante non si sia mai sopita, la scorsa estate la psicosi scabbia ha raggiunto il suo picco, con la temporanea chiusura delle frontiere e migranti bloccati nelle stazioni ferroviarie delle principali città italiane. Anche in questo caso si tratta di un allarme sopravvalutato, nei numeri – nel 2015 i casi rilevati dai medici di confine negli sbarchi degli immigrati sono stati circa il 10% – ma soprattutto nel merito.

Quando si parla di scabbia ci si riferisce a un’infezione della pelle causata da un parassita diffuso in tutto il mondo, compresa l’Italia. È una malattia piuttosto banale, tipica delle fasce sociali più svantaggiate, favorita da scarsa igiene e sovraffollamento – condizioni che facilmente si associano ai viaggi sui barconi. Si cura con una pomata; si previene il contagio con semplici accorgimenti come indossare i guanti durante le visite mediche o lavarsi le mani. Un’altra patologia il cui ritorno viene legato all’immigrazione è la sifilide, su cui però non esistono dati approfonditi se non in pochi paesi. Stando al report dell’ECDC, comunque, l’incidenza non sembra differire in maniera significativa fra popolazione immigrata e residente: nel 2010 il 7,3% dei casi riguardavano migranti, il 55,4% non-migranti.

Ferite visibili e invisibili

Sbarco a Palermo. La maggior parte dei rifugiati e migranti giunge qui in buona salute. Condizioni abitative e lavorative dure possono comportarne il deterioramento. Foto ©UNHCR/F.Malavolta

In generale, l’Oms individua i problemi di salute più frequenti di rifugiati e migranti in “ferite accidentali, ipotermie, bruciature, malattie gastrointestinali, cardiovascolari, legate alla gravidanza, diabete e ipertensione”. In molti al loro arrivo presentano quella che viene chiamata la “malattia dei gommoni”: lesioni e ustioni provocate dal trasporto delle persone insieme alle taniche di carburante; mentre le donne devono affrontare problemi per quanto riguarda il parto, la salute neonatale, patologie riconducibili alla sfera sessuale o riproduttiva, oltre a essere spesso anche vittime di violenze. Gli individui più vulnerabili, come i bambini, “sono inclini a infezioni respiratorie e malattie gastrointestinali a causa delle cattive condizioni di vita, dell’igiene non ottimale e delle privazioni cui sono sottoposti durante la migrazione”. Fattori che favoriscono il sorgere di malattie non trasmissibili e condizioni croniche, il cui problema principale è quello dell’interruzione delle terapie.

Quello di cui certamente soffrono i migranti sono le “ferite invisibili” dovute alla loro provenienza da zone di guerra o dove si pratica la tortura. Secondo un rapporto di Medici senza frontiere sulla salute mentale dei profughi ospitati dai Cas italiani, tra i richiedenti asilo si registrano tassi più alti di psicosi, depressione, disturbi post traumatici da stress (Ptsd), disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, cognitivi e una maggiore tendenza alla somatizzazione.

Associare l’arrivo dei migranti e dei rifugiati al ritorno di malattie sconosciute o debellate è una storia che fa sempre parecchia presa sulla popolazione. Del resto, nulla è più efficace della paura dell’altro per cementare il consenso. Alla luce dei dati e delle evidenze, però, è certamente un falso allarme: secondo l’Oms i problemi di salute di rifugiati e migranti “sono simili a quelli del resto della popolazione”, mentre il rischio di importazione di agenti infettivi esotici e rari “è estremamente basso” e quando si verifica “riguarda viaggiatori regolari, turisti oppure operatori sanitari, più che rifugiati o migranti”.

Nonostante questo, quello dello “straniero untore” resta un mito ricorrente, che permette di giustificare paure e ritrosie nei confronti dell’accoglienza, e dimentica che, più che terribili e antiche malattie, a costituire la prima causa di morte per i migranti sono ancora i viaggi in mare.

Nella foto in alto un salvataggio condotto nel Mediterraneo centrale dalla Marina italiana, giugno 2014. Foto ©UNHCR/M.Sestino

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