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Human Rights Watch: non chiamateli clandestini

Anche Human Rights Watch chiede ai media di usare una terminologia corretta per definire i migranti

Human Rights Watch, l’organizzazione internazionale che produce ricerche e studi sui diritti umani nel mondo, ha diffuso ieri delle linee guida per giornalisti su come trattare l’informazione sui migranti che entrano nei paesi senza un permesso o uno status legale.

«I migranti sono molto presenti nelle notizie e usare una terminologia adeguata può aiutare molto i giornalisti a raccontare le storie in modo più accurato e più obiettivo» ha detto Bill Frelick, direttore del programma rifugiati.

La guida trae spunto da una serie di raccomandazioni già elaborate in vari paesi dale agenzie delle Nazioni Unite per i Rifugiati, dai Consigli australiani e canadesi per i rifugiati e dall’ultima pubblicazione del 20 giugno scorso per una terminologia accurata sui migranti senza documenti  curata dalla PICUM (Platform for International Cooperation on Undocumented Migrants).

Tra le varie indicazioni  Human Rights Watch  sottolinea la necessità di riflettere e possibilmente non usare il termine di “illegal migrants” o “illegals” elencandone le ragioni per evitarlo.

Innanzitutto quei termini, dice l’organizzazione internazionale, sono de-umanizzanti e degradanti e spesso associati a criminalità e devianza, oltre al fatto che alimentano o rinforzano pregiudizi e stereotipi verso gli stranieri o le persone appartenenti a minoranze etniche.

Il terzo motivo per non usare il termine “illegali” sia come aggettivo e ancor di più come sostantivo, è che si alimenta l’idea che i migranti abbiano diritti limitati o nessun diritto, mentre – afferma Human Rights Watch – di fatto sono  persone a cui vengono riconosciuti una vasta gamma di diritti a livello internazionale, tra i quali il diritto all’asilo, ad un processo legale per ricorrere contro le espulsioni e il diritto a non essere arbitrariamente detenuti.

La lista delle testate che hanno già abolito la parola “illegal” è abbastanza lunga e comprende gruppi editoriali di diversa collocazione politica a riprova del fatto che non si tratta di una battaglia ideologica ma di una riflessione che i giornalisti stanno facendo per migliorare la qualità dell’informazione sull’argomento. Ricordiamo infatti come nell’aprile del 2013 fu l’Associated Press ad annunciare l’abolizione del termine illegale riferito ai migranti, come variazione del codice stilistico interno. Anche il New York Times si unì alla decisione pochi giorni dopo e oggi sappiamo che nell’elenco delle testate che sottoscrivono questo impegno c’è anche il the Guardian, il San Francisco Chronicle, ABC e Univision, ma anche  CNN, Los Angeles Times, San Antonio Express News, Miami Herald and NBC News.

Insomma la riflessione negli Stati Uniti su un uso consapevole e responsabile del linguaggio quando si parla di immigrazione sembra essere avanzata.

In Italia l’appello di Carta di Roma per l’abolizione del termine “clandestino” assimilabile per valenza sociale e inconsistenza giuridica al termine “illegal” statunitense e inglese, è stato raccolto prima da ANSA e poi da ADNKronos che il 4 aprile annunciò «che i suoi lanci non conterranno più la parola “clandestino” riferita alle persone immigrate. Faranno eccezione solo le eventuali dichiarazioni contenute in comunicati stampa e riportate tra virgolette. Anche nella trascrizione delle interviste e delle dichiarazioni raccolte la parola “clandestino” sarà  evitata, a meno che essa non sia ritenuta indispensabile-opportuna per chiarire il pensiero dell’intervistato o per riprodurre fedelmente il linguaggio dello stesso».

In Italia la Carta di Roma, il codice deontologico su migranti e richiedenti asilo che come giornalisti ci siamo dati fin dal giugno 2008, ci pone quindi al passo del dibattito internazionale. Il comunicato di Human Rights Watch di ieri e la lunga lista di testate inglesi e statunitensi impongono ancora una volta una riflessione sul modo di fare informazione sui temi della migrazione e dell’asilo.   Non imponendo regole e parole studiate a tavolino, ma  riappropriandosi del diritto/dovere di raccontare la realtà nel rispetto di tutti.

 

Qui le linee guida.

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