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L’Associazione Carta di Roma alla Marcia per la pace

 

Da Perugia ad Assisi contro l’odio e per riflettere sui doveri dei giornalisti

Di Giovanni Maria Bellu

L’Associazione Carta di Roma sarà presente il 9 ottobre alla Marcia da Perugia ad Assisi. Siamo infatti convinti che, come ha scritto Beppe Giulietti, la Marcia per la pace sia non solo un’occasione formidabile per aprire una grande battaglia culturale sui doveri dei giornalisti, ma sia la sede specifica, più appropriata, per farlo.

Il codice deontologico che noi giornalisti italiani ci siamo dati nel 2008 stabilisce alcune semplici, e per certi versi ovvie, regole da seguire quando ci occupiamo di immigrati, rifugiati, richiedenti asilo. Regole che dicono di usare i termini giuridici appropriati, di preoccuparci della sicurezza dei richiedenti asilo evitando di mostrarne i volti, di rivolgerci agli specialisti, cioè alle associazioni che si occupano in modo sistematico e professionale di questi temi, quando abbiamo qualche dubbio. Come è evidente, queste regole non sono altro che specificazioni della regola deontologica fondamentale: restituire la verità sostanziale dei fatti.

Marciare per la pace è marciare contro l’odio. Esattamente come lo è applicare fino in fondo la nostra regola fondamentale. L’hate speech, il discorso d’odio, infatti si fonda sul pregiudizio razziale – religioso, di genere o orientamento sessuale – e il pregiudizio, dal nostro punto di vista, non è altro che un’informazione falsa. Particolarmente insidiosa perché, permeando il senso comune, produce una deformazione permanente nella visione della realtà.

Se il discorso d’odio trova, specialmente nel web, un numero crescente di seguaci – ed è tanto efficace da essere utilizzato, con finalità essenzialmente propagandistiche nel dibattito politico – è perché esiste un’ampia fetta di opinione pubblica totalmente disinformata. Persone che ignorano fondamentali acquisizioni scientifiche oltre che storiche. E ritengono che un essere umano, per il solo fatto di appartenere a una razza o a una religione, debba godere di una considerazione inferiore. La base fondante l’hate  speech è esattamente questa.

Tutte le volte che noi giornalisti diamo una notizia, cioè tentiamo di restituire agli altri cittadini la “verità sostanziale” di un fatto, prima di tutto ci domandiamo che cosa il nostro lettore o ascoltatore già conosce di quanto stiamo per dirgli. Quando faccio un titolo come “investito sulle strisce pedonali”, ho risposto affermativamente alla domanda: “I miei lettori sanno a cosa servono le strisce pedonali?”. È un’operazione così scontata che la facciamo in modo automatico,  la maggior parte delle volte senza nemmeno rendercene conto.

Ce ne accorgiamo quando ci capita di scoprire, con sorpresa, che  i nostri interlocutori non sapevano, o non sapevano più, notizie che davamo per acquisite. Verso la fine degli anni Novanta, per esempio, accadde a quanti si occupavano dei cosiddetti Misteri d’Italia. A Milano, a venticinque anni dal fatto, era stata riaperta l’indagine sulla Strage di Piazza Fontana. La scoperta fu che per i nostri più giovani lettori quell’indicazione non era più sufficiente. Non bastava più dire “strage di piazza Fontana”, bisognava aggiungere che una bomba era scoppiata in una banca, erano morte sedici persone, era stata costruita una falsa pista per coprire i veri responsabili etc etc. In fondo il nostro aggiornamento professionale permanente serve proprio a questo: capire quello che i nostri lettori sanno o non sanno già.

Scoprire che tanti di loro non sanno che le razze non esistono, e non sanno nemmeno che le regole della nostra Costituzione e di tanti trattati internazionali non sono altro che la presa d’atto di un’acquisizione della scienza. Scoprire che sono così spaventati da credere che gli immigrati presenti in Italia siano il triplo di quanti realmente sono (e la lista delle percezioni deformate potrebbe continuare a lungo) dovrebbe indurre tutti gli operatori dell’informazione italiani a interrogarsi non sul modo in cui fanno il loro mestiere, ma sul funzionamento dell’intero sistema dell’informazione. A maggior ragione quando il discorso d’odio comincia a produrre anche degli atti di odio, degli omicidi.

Non possiamo accontentarci di svolgere correttamente i nostri compiti redazionali, ritenerci a posto con la coscienza perché abbiamo fatto del nostro meglio, se constatiamo di lavorare in un contesto a cui mancano le nozioni di base per comprendere un fenomeno. E che questa ignoranza è idonea ad avvelenare la convivenza civile, colpendo alle radici le ragioni della pace. Ecco perché la Marcia per la pace è per noi anche una marcia per affermare la necessità di un’informazione corretta.

Giovanni Maria Bellu

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