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Quando le parole diventano odio

Quando un’abitudine quotidiana si combina con parole di insulto e di disprezzo lanciate sulle pagine dei quotidiani, sui social e negli studi televisivi, razzismo e discriminazione possono diffondersi con facilità.

di Paola Barretta

Poco più di un mese fa, era la fine del 2017, nel veronese è stato trovato il corpo di una donna orrendamente mutilato, fatto a pezzi e ritrovato in una zona di campagna. Dopo alcuni giorni di indagine vengono individuati i colpevoli, zio (convivente della donna) e nipote. Il movente la gelosia. Nei trenta titoli dedicati alla questione essi compaiono come colpevoli “Donna fatta a pezzi: convivente confessa sono stato io”; “Donna fatta a pezzi: fermati convivente e nipote”. Solo in uno di questi articoli viene citata la nazionalità dei colpevoli: “Donna fatta a pezzi: fermati due albanesi”.  Un solo articolo in cui viene esplicitata la nazionalità degli autori del reato. Un mese dopo, un crimine del tutto analogo riceve una grande eco mediatica e soprattutto diventa occasione di criminalizzazione di tutta l’immigrazione.

Cambia il tono dei titoli: la cornice in cui essi si inseriscono non è più quella della violenza sulle donne, come nell’altro caso di cronaca nera, ma la minaccia alla sicurezza per i cittadini italiani. “Cadavere in valigie: Calderoli, killer a Nigeria, lì c’è la pena di morte”, “Delitto di Pamela: fermato nigeriano”, “Delitto di Pamela: sono bestie feroci”; “Delitto di Macerata: comunità ha incontrato uomo nero”; “Meloni: basta clandestini, fuori dall’Italia”.  Il delitto diventa occasione di stabilire una associazione tra la presenza di stranieri in Italia e l’incremento della criminalità.

Pur ritenendo che l’esplicitazione della nazionalità sia un elemento costitutivo della notizia – che non dovrebbe essere dato per scontato ma valutato di volta in volta – si compie un passo ulteriore: la colpevolezza del singolo autore del reato (con la conseguente e doverosa condanna)  viene generalizzata prima alla nazionalità (nigeriana), poi al colore della pelle (l’uomo nero) e infine a un generico status (straniero o clandestino).

L’aver cura di regole che tengano conto della verità sostanziale dei fatti produce un lento ma inesorabile crollo degli stereotipi, dei pregiudizi contro la diffusione di un clima di odio e di divisione. Rispetto delle regole che implica anche una visione ostile e critica nei confronti del fenomeno migratorio in generale e di migranti e profughi in particolare.

Ci sembra tutto normale, usiamo gli insulti come aggettivi, insulti che ci sembrano scontati perché sempre accettati e anche invocati. E non sono mai abbastanza. C’è bisogno di gridarle sempre più forte le parole che fanno male.

«Il rancore si può nascondere però anche quasi silenziosamente, ogni giorno, in poche righe apparentemente innocue. L’odio si può scatenare anche in un titolo che sembra asettico, a prima vista assolutamente neutro. Si può fare di meglio per odiare di più. Ogni giorno, con metodo. Tanto nessuno insorge, nessuno protesta, nessuno si ribella. L’assuefazione all’odio», scrive il giornalista Attilio Bolzoni. E nel portare un esempio racconta di un titolo riportato da una testata locale siciliana “Caltanissetta, polizia ferma quattro sospetti: pakistano trovato in possesso di hashish”. Nel testo della notizia si legge di tre italiani fermati insieme al pakistano. Prosegue Bolzoni, «Non si forniscono particolari di cronaca sui “tre italiani sospetti”, la notizia è soltanto quella del fermo del pakistano. Può sembrare molto riduttivo questo esempio per spiegare le ragioni dell’odio, ma è molto più significativo […] perché le urla soffocate o le subdole ricostruzioni di ogni giorno diventano ambigui messaggi che poi alimentano e giustificano le grida e le minacce e gli insulti, una trama quotidiana che incide di più, che penetra più profondamente nel pensiero comune».

Quando un’abitudine quotidiana si combina con parole di insulto e di disprezzo lanciate sulle pagine dei quotidiani, lanciate sui social e urlate dagli studi televisivi, razzismo e discriminazione possono diffondersi con facilità nel pensiero comune.

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