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Maturità 2016. Bruno: “i confini non sono linee, ma spazi da vivere”

L’esame di maturità, il tempo che distanzia chiunque da quella fatidica data fornisce sempre un po’ la misura di quanto si sia diventati grandi e magari anche maturi

di Piera F. Mastantuono

La prima prova agli esami di maturità: italiano

La prima comprendeva un’ampia gamma di tracce lasciando una scelta piuttosto ampia. In particolare, uno di questi temi ha attirato l’attenzione di chi si occupa di migrazione e relative narrazioni: la traccia D, il tema di ordine generale.

«La mia idea è che oggi parlare di confini è anche parlare della loro percezione, un confine simbolico» sottolinea Marco Bruno, ricercatore presso il dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza Università di Roma, in sociologia dei processi culturali e comunicativi. «Penso che la chiave di lettura più interessante sia riconoscere un valore simbolico, culturale a qualcosa di fisico». I confini, di fatto, sono quindi costrutti sociali, «non sono linee ma spazi, in cui si fondono gli interessi e le sovranità».

Tracciare confini. L’immigrazione nei media italiani, edizioni Franco Angeli

Si tratta del lavoro portato avanti da Marco Bruno insieme a Valeria Lai e Marco Binotto. Nel libro, in uscita breve, si analizzano i diversi media e formati a partire dal 2007. «Quello che ci sembra sia successo ultimamente in Europa e in Italia riguarda la costruzione di confini soprattutto interni» ed il discorso pubblico contribuisce a creare distanza «attraverso la sua analisi, abbiamo constatato come esso supporti in modo determinante all’innalzamento di steccati».

Il ruolo dei media dovrebbe invece essere diverso e contribuire alla costruzione di un discorso differente, che aiuti a comprendere i confini. Invece, la tipologia di narrazione utilizzata adesso «stimola un sentimento di paura, si tratta di un’operazione di framing: si fornisce una chiave di lettura prevalente, costruita con tanti piccoli tasselli, parole, immagini. Si elaborano meccanismi di lettura, che funzionano se incontrano chiavi di lettura stereotipate che già possediamo, noi, loro, paura,ma anche specularmente vittimistica, disperato, naufrago. Avvengono con piccole scelte, un aggettivo, un’intonazione, una messa in fila di un evento».

«Con Tracciare i confini abbiamo provato l’esistenza di forme diverse di narrazione mediali, derivanti da una presa di parola diretta da parte degli attori coinvolti. Si tratta ancora di eccezioni perché i media hanno una certa difficoltà a sviluppare discorso autonomo rispetto alla politica. Basti pensare che l’Italia ha invertito il suo saldo migratorio nel 1974» eppure l’approccio emergenziale rispetto agli sbarchi continua ad essere nella cronaca.

Ragionare sul confine equivale a conoscerlo

Il confine da simbolico diventa concreto quando si vede in televisione o si legge sui giornali dei flussi migratori, delle rotte che cambiano, delle barriere che si alzano, così la teoria diventa realtà. «Confine è ragionare di viaggio, di lavoro all’estero, capacità di spaziare tra temi diversi, è un nodo concettuale sul quale lavorare. Vedo i giovani di oggi molto alla ricerca di sicurezze di certezze, spaventati all’idea di cercare qualcosa, soprattutto all’idea di perdere tempo» ma potrebbe essere invece essere un investimento. «Abituarli a far domande durante le lezioni è la cosa più difficile, ma necessaria affinché non si adeguino agli stereotipi che li circondano», esercitare lo spirito critico diventa ancor di più indispensabile.

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