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Dubito ergo sum

A partire dall’ordinanza del Tribunale di Milano, che ha riconosciuto il carattere discriminatorio di “clandestini”, un avvocato riflette sul linguaggio, sul suo ruolo nella democrazia, sul dovere dei cittadini di “dubitare”

Di Francesco Di Pietro
Saronno, 9 aprile 2016. Nel corso di una manifestazione organizzata dalla Lega Nord vengono affissi circa 70 manifesti recanti il simbolo del partito e dai seguenti contenuti: “Saronno non vuole i clandestini”; “Renzi e Alfano vogliono mandare a Saronno 32 clandestini: vitto, alloggio e vizi pagati da noi. Nel frattempo ai saronnesi tagliano le pensioni ed aumentano le tasse”; “Renzi e Alfano complici dell’invasione”.
Milano, 22 febbraio 2017. Il Tribunale emana un’ordinanda nella quale scrive: “Il termine clandestino […] ha una valenza denigratoria e viene utilizzato come emblema di negatività“, inoltre “veicola l’idea fortemente negativa che i richiedenti asilo costituiscano un pericolo per i cittadini”. Secondo il giudice, l’espressione viola la dignità degli stranieri richiedenti asilo e favorisce “un clima intimidatorio e ostile nei loro confronti”. Il comportamento della Lega Nord costituisce quindi una discriminazione. Il partito viene condannato al risarcimento del danno in favore delle associazioni Asgi e Naga.

Una pronuncia emblematica

La pronuncia è altamente emblematica e invita a una riflessione sul ruolo delle parole nel mondo politico; e, più ampiamente, in una democrazia.
Il giudice ambrosiano afferma che è errato definire “clandestini” persone che tali non sono. Il richiedente asilo non è un soggetto che ha effettuato un ingresso e un soggiorno irregolari. Egli, infatti, sta esercitando il diritto di asilo previsto dalla Costituzione e dalla Convenzione di Ginevra. È discriminatorio racchiudere sotto l’unica (e già di per sé non corretta) etichetta di “clandestini” situazioni diverse quali: richiedente asilo; vittima di tratta; minore straniero non accompagnato; persona vulnerabile ecc. Le situazioni soggettive sono tante e variegate. E le parole per qualificarle in modo corretto ci sono. Nella lingua italiana e nel linguaggio giuridico. Occorre solo lo sforzo di usarle.
Occorre quella che è stata definita la “cura delle parole”.

Parole e democrazia

Nel saggio “Imparare democrazia”, il professor Gustavo Zagrebelsky ha redatto un suo ideale decalogo dell’etica democratica. Il suo elenco comprende: la fede in qualcosa; la cura delle personalità individuali; lo spirito del dialogo; il senso dell’uguaglianza; l’apertura verso la diversità; la diffidenza verso le decisioni irrevocabili; l’atteggiamento altruistico; e, a concludere, la cura delle paroleLe parole sono importanti in democrazia come in nessun altro sistema di governo. La democrazia presuppone il ragionamento comune, la discussione, la circolazione delle opinioni e delle idee.
E, secondo Zagrebelsky, le parole sono il primo strumento per questa circolazione.
Scrive l’illustre costituzionalista: “Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica”.
Usare l’unica parola “clandestini” a fronte di una varietà di situazioni inerenti gli stranieri è indice di una pochezza di linguaggio e quindi di idee. E la pochezza di idee e di opinioni non si confà con il dialogo. Appartiene piuttosto al monologo (anticamera dei regimi dittatoriali).
Secondo Karl Popper, il valore del dialogo è dato proprio dalla diversità delle opinioni in campo. “Se la torre di Babele non ci fosse stata, avremmo dovuto costruirne una” – afferma il filosofo austriaco. Poche parole, poche idee, poca democrazia. “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”, scrive Ludwig Wittgenstein.
Ma non si tratta solo del numero e della quantità delle parole. Lo sviluppo di una democrazia è anche dovuto dalla qualità delle parole, dal loro utilizzo, da cosa riescono a significare. In una parola: dal loro stato di salute. La vicenda di Saronno (portata all’attenzione del Tribunale di Milano) e tantissime altre analoghe mostrano che tale stato è preoccupante.

“Le parole fanno le cose”

Il parlare scorretto è un fenomeno sempre più diffuso, in forme ora nascoste e sottili, ora palesi e drammaticamente visibili. E può essere la premessa di qualcosa di peggiore e di malvagio. Socrate, negli ultimi istanti della sua vita, raccomanda a Critone: “Tu sai bene che il parlare scorretto non solo è cosa per sé sconveniente, ma fa male anche alle anime”.
Badiamo bene che “le parole fanno le cose” (come suggerisce un libro del linguista John Austin) e possono costituire la premessa e la sostanza di pratiche razziste, xenofobe e discriminatorie. Un esempio è nel testo “L’archivio antiebraico. Il linguaggio dell’antisemitismo moderno” dello storico Simon Levis Sullam. Un elenco di parole, frasi, espressioni, discorsi, del passato e del presente, fondamento dell’antisemitismo, sul piano linguistico ed ideologico.
Simon Levis Sullam mette in guardia dalla “funzione d’invenzione che il linguaggio esercita, anche attraverso il semplice nominare, con l’utilizzo – e la forza illocutoria – di termini che si portano appresso una lunga storia (che dunque riattivano un archivio, un repertorio di nozioni): basti pensare a giudeo, negro, terrone o a tutta una serie di epiteti utilizzati per le persone gay”.
Tali espressioni attivano immediatamente l’ostilità, creano un “altro”, estraneo e da respingere. Tali parole non descrivono la realtà delle cose, ma interferiscono sulle cose, creano delle realtà fittizie. Realtà che noi, similmente agli uomini incatenati al buio nel mito della caverna di Platone, sperimentiamo ogni giorno ed inconsapevolmente.
Tale creazione di realtà fittizie avviene con la “manomissione delle parole” che riguarda diversi aspetti della vita associata (i media, la politica, i social network) e che in tanti casi diviene violenza. A volte palese e, più spesso e più pericolosamente, occulta.
E sul rapporto tra linguaggio e violenza sono emblematiche le parole della “Prolusione al Premio Nobel, del 7 dicembre 1993” della scrittrice afroamericana Toni Morrison: “Il linguaggio oppressivo non si limita a rappresentare la violenza: è violenza. Non si limita a rappresentare i confini della conoscenza: confina la conoscenza. Che si tratti del linguaggio ottenebrante del potere o del linguaggio menzognero di stolidi mezzi di comunicazione; che sia il linguaggio tronfio ma ossificato dell’accademia o il linguaggio meramente funzionale delle scienze; che si tratti del linguaggio malefico della legge priva di etica, o del linguaggio pensato per l’esclusione e l’alienazione delle minoranze, che occulta la sua violenza razzista sotto una facciata di cultura – il linguaggio dell’oppressione deve essere respinto, modificato e smascherato. È il linguaggio che succhia il sangue, blandisce chi è vulnerabile, infila i suoi stivali fascisti sotto crinoline di rispettabilità e patriottismo, mentre si muove incessantemente fino all’ultima riga, fino all’ultimo angolo della mente svuotata. Il linguaggio sessista, il linguaggio razzista, il linguaggio fideistico – sono tutte forme del linguaggio del controllo e del potere, e non possono consentire, non consentono nuova conoscenza, né promuovono lo scambio reciproco di idee”. Il linguaggio oppressivo è quindi pericoloso, gelido e “unreceptive to interrogation” (scrive Toni Morrison): impermeabile all’interrogazione.

Quante menti capaci di resistere ai luoghi comuni?

Soffermiamoci un attimo proprio sull’interrogazione. Sul punto interrogativo. “Il punto interrogativo è forse l’interpunzione più importante” (scrive Gianrico Carofiglio nel saggio “La manomissione delle parole”).
Affermazione che troviamo anche in un libro che spiega la storia riflettendo sul linguaggio: “LTI. La lingua del Terzo Reich (sottotitolo: taccuino di un filologo)” di Victor Klemperer. Mentre il romanzo “1984” di George Orwell descrive la “neolingua” ed il ministero della verità in un mondo spaventoso, ma di pura fantasia; Klemperer descrive la lingua in un mondo spaventoso, ma di assoluta realtà: il regime nazista.
Egli ha trattato della forza plasmatrice della lingua, della forza della lingua come strumento di omologazione del sentire comune, di orientamento delle coscienze, di trasmissione di convinzioni e atteggiamenti mentali con lo scopo di farli assumere da altri, inconsapevolmente. Se nel mondo fantastico di George Orwell vi era il ministero della verità, nel mondo reale del Terzo Reich vi era un ministero della propaganda ed un doctor Goebbels, il cui motto (citato da Zagrebelsky, nel saggio “Sulla lingua del tempo presente”) era: “Ripetete una cosa qualsiasi cento, mille, un milione di volte e diventerà verità”.
“Ci rubano il lavoro”; “Portano malattie”; “Gli danno 35 euro al giorno”; “Sui barconi arrivano i terroristi”; “Bastardi islamici ecc. Affermazioni che ripetute all’inverosimile sono come minime dosi di arsenico dall’effetto lentamente e inesorabilmente tossico. D’altra parte, si domandava Primo Levi: “Quante sono le menti umane capaci di resistere alla lenta, feroce, incessante, impercettibile forza di penetrazione dei luoghi comuni?
Il rimedio sarà quindi il punto interrogativo. Di fronte al cattivo uso delle parole, sarà importante riappropriarci dell’interrogazione: simili a novelli Cartesio, abbiamo il dovere di dubitare di quanto leggiamo e di quanto ascoltiamo (“Dubito ergo sum”).
“È necessaria la cura, l’attenzione, la perizia da disciplinati artigiani della parola, non solo nell’esercizio attivo della lingua – quando parliamo, quando scriviamo – ma ancor più in quello passivo: quando ascoltiamo, quando leggiamo” (Gianrico Carofiglio, “La manomissione delle parole”). Di fronte ad affermazioni del tenore “Agli stranieri 35 euro al giorno e gli italiani non arrivano a fine mese”, ogni cittadino ha il dovere di dubitare e approfondire se l’affermazione sia fondata o meno.
È faticoso e richiede impegno. Ma è la democrazia stessa che richiede fatica e impegno in ogni singolo consociato. Necessari per evitare di avere in futuro dei nuovi doctor Goebbels.
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