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Riformare la legge sulla cittadinanza: un obiettivo che aspetta da 30 anni

Di Fioralba Duma e Paula Baudet Vivanco su Valigia Blu

La legge sulla cittadinanza italiana ha compiuto trent’anni, ma chi la subisce non ha niente da festeggiare. Sono infatti oltre un milione i bambini, adolescenti e adulti a restare stranieri in questo loro paese, appesi al filo del permesso di soggiorno, proprio a causa di quella legge nata già vecchia. Tutti figli e figlie di immigrati ma anche figli della Storia d’Italia degli ultimi decenni, cresciuti tra le sue trasformazioni e contraddizioni, e che faticano a godere di pieni diritti a causa di normative che si dimostrano inadeguate ai tempi.

A essere antiquati sono innanzitutto i principi su cui già era fondata la legge sulla cittadinanza nel 1992 perché i legislatori di allora si erano dedicati più che altro a celebrare i discendenti italiani radicati a migliaia di chilometri, dimostrandosi incapaci di riconoscersi invece pienamente anche in chi già muoveva i primi passi o sarebbe arrivato ancora bambino nelle città italiane.

Una visione così limitata ha continuato a guidare i politici italiani nel corso degli anni, tant’è che molte sono state le chiacchiere a riguardo, proseguite nella Legislatura in corso, ma fino al 5 febbraio 2022, giorno del “compleanno della legge”, non c’era stato nessun miglioramento concreto. Assurdamente il Parlamento aveva dimostrato interesse e riunito un’ampia maggioranza solo quando si era trattato addirittura di peggiorare la legge e la vita dei diretti interessati. Com’era era accaduto nel 2018 con il voto e l’applicazione delle nuove restrizioni contenute nel primo decreto Sicurezza, come la possibilità di revocare la cittadinanza a chi non l’avesse ereditata dai genitori e l’allungamento a ben quattro anni delle pratiche amministrative per avere una risposta alle richieste di “naturalizzazione” italiana. Un altro mattone aggiunto al muro di una legge di trent’anni, già troppo pesante sulle spalle dei diretti interessati. Così mentre gli Italiani non riconosciuti sperano sempre che arrivi una legge meno ingiusta, che restituisca loro anche un po’ di fiducia nel sistema, in realtà si trovano ancora a lottare da soli contro l’estrema discrezionalità di quella in vigore, cercando di soddisfare i difficili criteri di reddito e di residenza oppure sperando che una multa stradale del passato, perché è accaduto anche questo, non diventi motivo di bocciatura. In un contesto così respingente ogni ostacolo burocratico, ogni ufficio dell’amministrazione, ogni funzionario riluttante, e oggi anche l’anonima interfaccia digitale delle pratiche di cittadinanza, possono trasformarsi in una frontiera ostile, invisibile agli altri.

In un quadro così scoraggiante si è però aperto uno spiraglio: il 9 marzo i deputati della Commissione Affari costituzionali hanno finalmente votato l’adozione di un testo unificato di riforma della legge firmato dal presidente della Commissione, Giuseppe Brescia. Si tratta dello “Ius Scholae”, che lega la cittadinanza al percorso scolastico e quindi riconosce per la prima volta un accesso specifico per chi cresce in Italia. Una riforma che va migliorata, come hanno chiesto i diretti interessati del movimento Italiani senza cittadinanza e CoNNGI elaborando e presentando ai deputati alcuni emendamenti insieme alle associazioni del Tavolo Cittadinanza, ma che deve già fare i conti con l’ostruzionismo di Lega e Fratelli di Italia rappresentato da più di 600 emendamenti peggiorativi.

Mentre il Parlamento finalmente si muove, peccato solo a un anno dalla fine della Legislatura il compito dell’Italia è oggi quello di crescere ancora e maturare fino in fondo la consapevolezza della grande ingiustizia di cui è responsabile da troppo tempo: di fatto il nostro paese continua a “produrre” nuove generazioni senza pieni diritti, come nel caso del romano Sonny, “italiano per nascita e per crescita ma un estraneo per legge” oppure della sarda Domenika, che ha aspettato tanto prima di avere il reddito necessario per chiedere la cittadinanza e dopo 4 anni ancora non ha ricevuto risposta, o di Rabia, che per un soffio non è nata in Italia, o infine di Clara, che in Italia sì ci è nata ma ha problemi con la residenza. Le loro storie e foto personali e quelle di tanti altri sono raccolte nella Campagna “Obiettivo Cittadinanza”, creata e promossa dal movimento Italiani senza cittadinanza e da Cittadinanzattiva e rilanciata per il trentennale della legge 91/92. Perché non continui a restare invisibile chi quella legge la vive ogni giorno.

Bia

Sono Rabia ma tutti mi chiamano Bia. La mia è una storia particolare perché in realtà dovevo nascere in Italia e forse oggi la mia vita sarebbe diversa. I miei genitori stavano da anni in Italia, mio papà dalla fine degli anni 80 e mia madre lo aveva raggiunto qualche anno dopo. Però il destino, la salute della nonna, si mise in mezzo e mia madre tornò in Pakistan durante gli ultimi mesi della gravidanza per partorirmi lì, nel 1997. Riuscì a tornare solo qualche tempo dopo in Italia, tenendomi ben stretta tra le sue braccia mentre viaggiavamo in aereo per raggiungere Cremona, che sarebbe diventata la mia città. Ci penso spesso, al fatto che per poco non sono nata qui e che magari sarei potuta diventare italiana a 18 anni, come mia sorella e mio fratello perché così lo prevede la legge. Oggi non sarei ancora appesa al permesso di soggiorno, viaggerei tanto e libera da ansie, senza essere esclusa per le tempistiche del visto o dipendente dalle incognite del suo rilascio. Ci sono alcuni ricordi, in particolare alcune foto, che risvegliano alcuni pensieri sulla mia condizione, su quello che è stato e che non sarà. C’è una foto in particolare che mi rallegra e mi rattrista allo stesso tempo: io piccolina con il vestito regalato dai miei nonni prima della loro morte, così lontani da noi. È l’unico ricordo che ho di loro. Mi capita di pensare che con il passaporto italiano forse avrei potuto incontrarli, sapere cosa voglia dire l’amore dei nonni.

Penso ai miei tanti sogni, il primo fra tutti, quello di entrare nelle forze armate e ispirare altre donne ad essere forti, le tante tra noi che sono cresciute in Italia e che lottano contro la mentalità e le tradizioni retrograde dei propri genitori. Peccato che siano le leggi italiane e la burocrazia di questo paese, a rifiutarci, a costringerci ad abbandonare i nostri sogni e a lottare ancora soltanto per essere riconosciute.

Domenika

Mi chiamo Domenika, detta Niki e sono nata a Guayaquil, città dell’Ecuador, nel 1988. A 5 anni la mia vita è cambiata drasticamente perché mia madre ha fatto la scelta difficile e coraggiosa di emigrare molto lontano per lavorare, fino in Sardegna, portandomi con sé.

In tutti questi anni in Italia uno dei traguardi più belli e importanti è stato riuscire a laurearmi in Infermieristica. Ma dopo è stata tutta in salita, perché il voler rendermi presto indipendente economicamente mi ha ostacolata nell’ottenimento del permesso di soggiorno di lunga durata, così come nella mia domanda di cittadinanza italiana, perché richiedevano entrambe la dimostrazione di un determinato reddito. Purtroppo lungo entrambe le strade, che dovevano permettermi più stabilità e di partecipare con sicurezza ad alcuni concorsi pubblici, ho incontrato difficoltà nonostante abbia ormai raggiunto la sicurezza di un contratto a tempo indeterminato presso un ospedale privato di Olbia. Perché la burocrazia è talmente complicata con chi ha un passaporto straniero, anche se è cresciuto qui, che basta qualche problema per bloccarti del tutto e per anni, come l’errore di un CAF oppure la confusione tra le sedi di due questure. E a dispiacermi oggi è soprattutto la delusione per il sogno della cittadinanza italiana, prima infranto dai politici e poi dalle incognite sulla mia pratica.

Infatti già con il naufragio della riforma della legge sulla cittadinanza nel 2017 e l’approvazione del decreto sicurezza nel 2018, che mi colpivano in prima persona, mi ero sentita profondamente delusa e avevo pensato di andarmene dall’Italia per specializzarmi in Australia o in Germania. Ma alla fine non sono scappata e mi sono fatta forza, decidendomi a inviare la richiesta di cittadinanza nonostante le amarezze. Solo che dopo i 4 anni di attesa massima della mia domanda ancora non so che fine abbia fatto la pratica, non ho ricevuto riposte, e non so se mai sarò cittadina di questo paese. A questo punto potrei fare anche domanda perché mio marito è italiano, dicono che sia un percorso molto più semplice, ma non lo trovo del tutto giusto. Perché dell’Italia sono figlia e non sposa.

Clara

Mi chiamo Clara con la “C” e sono nata 23 anni fa a Trebisacce, in provincia di Cosenza, in una famiglia albanese. I miei genitori a quei tempi non solo erano irregolari, ma lavoravano anche duramente nei campi e, pensando al mio bene, mi mandarono dai nonni in Albania perché si prendessero meglio cura di me. A tre anni ero già di ritorno in Italia, mancavo troppo ai miei genitori, e così cominciai l’asilo in Calabria. Conservo ancora una foto del mio primo giorno di nido, dove si vede quanto fossi contenta del nuovo inizio.

I miei primi 18 anni li ho trascorsi nel limbo burocratico, tra rinnovi del permesso per soggiornare in questo mio paese, perdendo giorni di scuola per gli appuntamenti in questura, rilasciando le impronte digitali come se fossi una criminale. Ho dovuto chiedere visti turistici, complicatissimi da ottenere, per viaggiare con la mia classe del liceo linguistico nell’Europa che mi stava crescendo e formando. Sempre più consapevole di corse, blocchi e capitomboli per poter vivere le stesse esperienze dei miei compagni di scuola e di vita.

Nel 2016, al compimento dei 18 anni, pensavo sarebbe finalmente finita questa corsa ad ostacoli, ero fiduciosa nelle leggi italiane e speranzosa di essere finalmente riconosciuta dal mio paese. Ma anche al momento di fare richiesta per la cittadinanza italiana la burocrazia mi ha sbarrato ancora la via. Da una parte lo Stato albanese mi aveva registrata nel passaporto come Klara, cioè con la “K” – e che fatica cambiare poi in Clara, il mio nome vero! Dall’altra parte lo Stato italiano considerava i miei due anni dai nonni come un’interruzione insanabile di residenza e mi condannava a una nuova domanda di cittadinanza, questa volta con l’aggiunta del requisito del reddito che viene richiesto ai figli/e di immigrati non nati in Italia.

Dopo una serie di acrobazie e altrettanti viaggi tra Bari, Roma e Tirana oggi sono finalmente per tutti Clara con la “C”, nata in Italia, cresciuta a Locorotondo e ambasciatrice del mio borgo, capace di parlare 5 lingue e laureata in Mediazione Culturale all’Università di Macerata, con tanta voglia di mettermi alla prova in un altro paese europeo e in un’età in cui ancora posso farlo. Ma sono ancora appesa ad ostacoli nati insieme a me, ostacoli nati da una legge che ha trasformato in errori le scelte di vita della mia famiglia.

Sonny

Sono nato a Roma più di trent’anni fa e la capitale è l’unica città dove mi sento davvero a casa. L’unico posto a cui conducono tutte le mie strade. Come l’Ospedale Gemelli, in cui sono nato o il collegio delle suore Mariane Francescane, al quale venni affidato dopo la separazione dei miei genitori. E poi c’è Ostia, di cui conservo alcuni tra i ricordi più belli della mia infanzia, come la foto dei miei 6 anni quando mia madre mi vestì con gli abiti tradizionali delle sue origini. Ero piccolo e ingenuo a quei tempi, e a pensarci mi si apre ancora il cuore, ma una cosa già la sapevo: che mia madre proveniva da un altro continente. Solo che non potevo immaginare quanto questo avrebbe condizionato la mia vita. Non era semplicemente il fatto di essere uno dei pochi bambini neri nella via dove vivevamo, a scuola o all’oratorio. Ma soprattutto restare appeso, anno dopo anno, al permesso concesso da altri. Dover chiedere il permesso per poter restare nella mia città, in questo mio paese, e scoprire quanto alto potesse essere il muro da scalare per raggiungere il traguardo della cittadinanza italiana, pesante quanto i trent’anni di una legge ingiusta. Un traguardo che oggi continua a sfuggirmi, anche se la mia richiesta di cittadinanza risale al lontano 2004.

Eppure di traguardi ne ho raggiunti diversi. Ho giocato a basket ad alti livelli, anche se senza poter mai vestire la maglia azzurra perché “straniero”. Ho rappresentato l’Italia in diversi campionati internazionali di street dance anche se sempre con i limiti di non poter attraversare le frontiere con un documento da italiano. Ho lavorato in televisione, prima come ballerino poi come coreografo e infine come inviato e autore di programmi di approfondimento in Rai. Ma nonostante tutto questo, io continuerò a restare straniero per questa mia nazione finché la legge lo deciderà. Italiano per nascita e per crescita, estraneo per legge.

Immagine in evidenza di Obiettivo Cittadinanza

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