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Perché noi giornalisti siamo parte del problema

#nohatespeech. “Noi giornalisti dovremmo smettere di essere accondiscendenti con l’odio che ci circonda”

Pubblichiamo di seguito la traduzione di una riflessione scritta da Herman Grech per il TImes of Malta alla vigilia del vertice della Valletta (l’articolo originale è qui).

Perché noi giornalisti siamo parte del problema

Di Herman Grech

Odio quando scegliamo di essere troppo “politicamente corretti”, ignorando il quadro generale. Credo fortemente nella tutela del diritto d’asilo, ma non sono d’accordo con l’idea di chiamare tutti i migranti che arrivano in Europa “rifugiati”. Molti di coloro che bussano alle porte d’Europa hanno diritto allo status di rifugiati o qualche altra forma di protezione. Altri no.

Semantica a parte, comunque, se noi giornalisti dobbiamo mettere fine agli stereotipi e alla trasformazione dei più vulnerabili in capri espiatori, non abbiamo altra scelta se non quella di basare la scelta dei temi e delle parole sui fatti. La “crisi rifugiati” è la maggiore dalla Seconda guerra mondiale e a meno che non ci armiamo di fatti, rischiamo di alimentare un problema che potrebbe divenire fuori controllo.

Centinaia di giornalisti sono a Malta questa settimana per il vertice sull’immigrazione tra paesi dell’Unione europea e africani. E con ciò dovremmo aspettarci l’uso di quello schema che ricorre ai termini “illegale”, “sciame”, “esercito”… Senza renderci conto che in questo modo staremmo scrivendo del preludio a un’invasione.

Sono il primo ad ammettere che i media sono stati ampiamente responsabili nell’agitare le fiamme del razzismo che attualmente bruciano in Europa. È vero, spesso stiamo meramente citando personalità pubbliche, ma non realizziamo che in questo modo stiamo presentando storie che contengono la minaccia di una società senza regole. Abbiamo fallito nel torchiare personaggi del calibro del presidente ceco Miloš Zeman e del primo ministro ungherese Viktor Orban, leader che si sono piegati alla costruzione di muri che loro stessi hanno abbattuto 25 anni fa. Abbiamo persino dato voce a persone despicabili come Katie Price e Norman Lowell, perché le loro dichiarazioni stravaganti vendono.

Molti di noi citeranno la libertà di espressione, perché anche questi personaggi hanno il diritto di offendere, scioccare o disturbare. Ma si tratta davvero di libertà di espressione? O si tratta di decenza ed etica professionale? Sottoscrivo pienamente quanto sostenuto dall’European Federation of Journalists, la quale afferma che i giornalisti dovrebbero osare denunciando l’hate speech pubblicamente (per maggiori informazioni sulla campagna #nohatespeech lanciata da Carta di Roma col sostegno della Efj clicca qui, ndr). Abbiamo la responsabilità di controbattere ai messaggi razzisti e al pregiudizio coi fatti. Dobbiamo essere i cani da guardia del potere e non limitarci a riportare le notizie passivamente.

Questo ci trasforma in “attivisti”, quel termine temuto, che la maggior parte di noi che lavoriamo nel mondo dei media evitiamo? C’è una linea molto sottile, una linea che ho intenzione di oltrepassare se questo significa difendere i diritti umani fondamentali.

Troppo a lungo ci siamo uniti ai politici nella moda della retorica anti-immigrazione, senza dare voce ai protagonisti del problema. La stigmatizzazione dei migranti è ormai parte della nostra trattazione quotidiana. Citiamo persone che temono i rifugiati perché prenderebbero i nostri lavori, minaccerebbero i nostri “valori”, stuprerebbero le nostre donne.

Sentiamo di non aver scelta se non quella di ritrarli come parassiti, perché dopo tutto stiamo davvero riflettendo ciò che le masse pensano, no? Ma facendo questo stiamo semplicemente dando voce ai populisti che hanno accesso facile ai microfoni, mentre dimentichiamo i migranti abbandonati nel deserto del Sahara, o su una barca traballante nel Mediterraneo,  o le migliaia di persone bloccate dietro alle recinzioni nell’Europa dell’est, perché parlano una lingua straniera.

Invece di affrontare il problema delle radicate strutture di diseguaglianza, additiamo come capri espiatori i più emarginati perché è facile. Quante volte abbiamo visto dipingere i migranti come parassiti, come neri o arabi, o interrogati dalla polizia?

Cosa fare, quindi? Possiamo iniziare rifiutando di usare termini non corretti e non corrispondenti ai fatti come “clandestino”, cominciando a capire che coloro che fuggono dalla guerra e dalla persecuzione hanno il diritto di partire senza avere con sé i passaporti.

Le preoccupazioni pubbliche devono essere comprese e discusse, ma ricordiamo che sono plasmate da ciò che le persone leggono. In tutti gli anni che mi sono occupato di immigrazione, per esempio, siamo rimasti sempre affascinati dal gioco dei numeri. I numeri sono usati dai leader perché evocano in modo automatico l’immagine di orde che attendono di invadere, giustificando così la risposta del governo. Nonostante le cifre siano certamente preoccupanti, i rifugiati in Europa oggi corrispondono solo all’1% della popolazione dell’Unione. Mentre il Libano, un piccolo paese con circa 4 milioni e mezzi di abitanti, ospita 1 milione e duecentomila rifugiati siriani.

Le agenzie stanno attualmente riferendo con titoli forti che l’Unione europea aspetta “altri tre milioni di rifugiati e migranti nel 2016”. Tuttavia la previsione della Commissione europea alla quale fanno riferimento non è per il 2016, ma per il triennio 2015-2017 e i tre milioni includono anche coloro che sono già entrati quest’anno.

Significa che dobbiamo ignorare le “potenziali minacce”? Certo che no. Di nuovo, non sono d’accordo con l’idea di autorizzare chiunque a entrare senza i controlli necessari. Ma ciò non significa che noi giornalisti non dovremmo chiederci come mai sulle frontiere sono stati spiegati eserciti, dando a chi guarda l’impressione di un’invasione in corso da parte di soggetti pericolosi.

Cosa ne dite, invece, dell’indirizzare le nostre energie verso alcune storie positive? Verso il racconto del contributo che i migranti stanno dando?

Durante il vertice della Valletta ascolteremo i leader sottolineare che abbiamo bisogno di rimpolpare i controlli di frontiera e le procedure di rimpatrio. Come giornalisti abbiamo il dovere di chiedere quante migliaia di rifugiati sono forzati a intraprendere rotte più pericolose a causa dei muri costruiti dai paesi dell’Europa dell’est. Abbiamo il dovere di chiedere delle preoccupazioni africane, relative al rischio che il vertice si trasformi in un monologo dell’Unione europea.

La storia dovrebbe insegnarci qualcosa – la Chiesa si è dovuta scusare per la sua passività mentre i nazisti diffondevano i loro tentacoli in Europa. Il minimo che noi giornalisti dovremmo fare è smettere di essere accondiscendenti nei confronti della piaga d’odio che ci circonda.

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