Site icon Associazione Carta di Roma

Rifugiati climatici e ambientali, arriva il riconoscimento giuridico in Italia

250 milioni di rifugiati legati a clima e ambiente al 2050. Eppure per le Nazioni Unite non esistono. Ma una sentenza della Cassazione riconosce i rischi ambientali come causa di lesione dei diritti umani

Di Emanuele Bompan su www.aics.gov.it

Lo sfollamento interno (Idp, internally displaced people) associato a cambiamenti climatici e disastri ambientali a lenta insorgenza e disastri è un fenomeno complesso da mappare. Se un’alluvione è un fenomeno catastrofico, localizzato, facilmente circoscrivibile, gli effetti dei cambiamenti climatici, come l’innalzamento dei livelli del mare o delle temperature, oppure l’inquinamento delle acque e del suolo sono cause più difficili da determinare. Il dato più noto è quello dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati secondo il quale, entro il 2050, circa 200-250 milioni di persone si sposteranno per cause legate al cambiamento climatico. Questo significa che in un futuro non troppo remoto, una persona su quarantacinque nel mondo sarà un migrante climatico. Ma difficile capire quante persone già oggi per cause dirette o indirette si stanno mettendo in marcia per fuggire ad avversità ambientali di origine antropica.

Anche per la giurisprudenza non è banale determinare chi siano questi nuovi rifugiati figli della crisi globale ambientale. «I rifugiati ambientali e climatici non sono riconosciuti a livello internazionale da un trattato o un accordo formale», spiega l’avvocato esperto di cause legate ai cambiamenti climatici, Luca Saltalamacchia. «La Convezione di Ginevra sui rifugiati, elenca una serie di situazioni che determinano lo status di rifugiato che però non sono riconducibili a condizioni ambientali». Per molti giuristi, dunque, l’estensione degli scopi della Convenzione di Ginevra del 1951, quanto l’allargamento dei Guiding Principles per gli Idp del 1998, non rappresentano scenari realisticamente percorribili. «Ma questo non significa che non ci siano dei riferimenti nella normativa internazionale». Quello più importante risale allo scorso anno, legato alla richiesta di asilo di un cittadino dell’isola di Kiribati nel Pacifico, nota per la sua estrema vulnerabilità ai cambiamenti climatici. Nel 2015 il kiribatiano Ioane Teitiota chiese protezione alla Nuova Zelanda sostenendo che la sua vita e quella dei suoi familiari erano a rischio a causa degli effetti del cambiamento climatico e dell’innalzamento del livello del mare. A inizio 2020 la commissione Onu per i Diritti Umani rifiuta la sua richiesta, motivando che “potrebbero esserci interventi da parte della Repubblica di Kiribati, con l’assistenza della comunità internazionale, per adottare misure affermative per proteggere e, ove necessario, ricollocare la sua popolazione”. Ne emerge il principio “niente statuto di rifugiato se un Paese si adopera direttamente per affrontare problemi ambientali e climatici”.

Kiribati

Sebbene una sconfitta, in realtà questa è una vittoria, poiché implicitamente si riconosce il fatto che le persone che fuggono dagli effetti dei cambiamenti climatici e dei disastri naturali non dovrebbero essere rimpatriate nel loro Paese di origine, se i diritti umani essenziali risultino essere a rischio al ritorno e se il Paese non ha intrapreso azioni concrete contro inquinamento o cambiamento climatico. Questa decisione ha fornito un impulso agli ordinamenti nazionali per fornire nuove forme sussidiarie di tutela. «I decreti sicurezza Salvini hanno inizialmente vanificato l’applicazione di questo principio, ma la recente sentenza della Corte Suprema di Cassazione ha ribaltato la situazione, mettendo l’Italia nella condizione di offrire protezione sussidiaria ai rifugiati climatici», continua Saltalamacchia. Infatti la Cassazione con la sentenza n.5022 del 9 marzo 2021 della Seconda Sezione Civile afferma che il «nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale», include non solo l’esistenza di una situazione di conflitto armato, ma anche altre situazioni idonee ad esporre i diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all’autodeterminazione dell’individuo al rischio di azzeramento o riduzione al di sotto della soglia minima, compresi i casi del disastro ambientale, definito dall’articolo 452-quater del Codice penale, del cambiamento climatico e dell’insostenibile sfruttamento delle risorse naturali. La sentenza inoltre cita proprio il caso di Teitiota come fondamento del giudizio. «Si riprende così il principio Onu: con una chiara evidenza di un problema ambientale o climatica la richiesta può essere accettata, se nel Paese ci sono invece politiche importanti di lotta all’inquinamento e di mitigazione e adattamento al climate change la richiesta può essere rifiutata». Questa impostazione giuridica ha conseguenze importantissime. «Innanzitutto è un grande risultato dal punto umanitario», spiega Serena Giacomin, Presidente di Italian Climate Network. «Soprattutto però mostra la centralità dei meccanismi Unfccc di sostengo ai cambiamenti climatici, alle politiche di adattamento, al trasferimento tecnologico, nel quadro dell’accordo di Parigi, anche per ridurre il numero di Idp. Solo investendo con intelligenza per uno sviluppo sostenibile nei paesi più vulnerabili potremo ridurre il numero di profughi». Le politiche green nella cooperazione internazionale quindi assumono un ruolo ancora più importante, centrale per limitare il numero di rifugiati ambientali e climatici.

In alcuni casi però la migrazione sarà inevitabile. Ma ciò non significa sia un fallimento delle politiche di adattamento e cooperazione. Potrebbe anche essere una adaptation strategy in sé e per sé. La Nansen Protection Initiative e il Cancun Climate Change Adaptation Framework lo riconoscono, affermando che la migrazione si riferisce a “movimenti umani che sono prevalentemente volontari nella misura in cui le persone, pur non avendo necessariamente la capacità di decidere in completa libertà, possiedono ancora la capacità di scegliere tra diverse opzioni realistiche”. Nel contesto dei pericoli naturali a insorgenza lenta, del degrado ambientale e degli impatti a lungo termine dei cambiamenti climatici, tale migrazione viene spesso utilizzata per far fronte, evitare o adeguarsi a condizioni ambientali che potrebbero altrimenti provocare crisi umanitarie e sfollamento in futuro. Bisogna evitare di raggiungere dei tipping point per i quali però le comunità passano dalla migrazione volontaria e adattiva allo sfollamento forzato. Solo con un’azione decisa e audace si potrà gestire questo complesso scenario.

Per leggere l’approfondimento di Carta di Roma sui rifugiati ambientali clicca qui

Exit mobile version