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Wali, rifugiato: “Non dando ascolto agli immigrati, media ne negano il ruolo nella società”

Atai Walimohammad ha 21 anni e viene dall’Afghanistan, il suo lavoro l’ha portato a confrontarsi con gli stereotipi diffusi su migranti e rifugiati da parte dei media

«Vivevo in un piccolo paese dell’Afghanistan al confine con il Pakistan, lì intorno era pieno di centri di addestramento per i kamikaze, dove venivano mandati i bambini, volontariamente o meno. Io ho creduto fosse possibile dare un’alternativa e ho voluto creare un centro per insegnare informatica e inglese, ma le minacce di morte dei talebani mi hanno costretto, nel 2012, a lasciare il mio paese», inizia così la storia di Atai Walimohammad, oggi mediatore culturale nel centro di prima accoglienza di Zavattarello.

La ricerca della pace è stata una delle motivazioni del suo viaggio e lo ha portato oggi a confrontarsi in Italia con pregiudizi e stereotipi che incasellano migranti e rifugiati in contesti narrativi negativi e spesso stigmatizzanti. Infatti, secondo il rapporto Notizie oltre i muri, appena il 3% di loro ha voce nei servizi televisivi: «Non dare ascolto agli immigrati in qualche modo ne nega il ruolo nella società, non siamo inutili come spesso sento dire in televisione da alcuni politici. Io ad esempio sto studiando e credo così di poter essere funzionale all’Italia, che adesso è la mia patria. Sento poi spesso rilanciare dal telegiornale e dalla radio il pregiudizio sul fatto che gli immigrati rubino il lavoro, ma penso, ad esempio, alla mia collaborazione nelle commissioni territoriali di Milano, Genova e Brescia, dove sono un interprete perché conosco sette lingue: pashtu, dari, inglese, francese, urdu, arabo, italiano, e sto imparando tedesco e russo. Ho forse tolto il lavoro a qualcuno?» sostiene Wali.

L’importanza dello studio e di una corretta informazione

Il pregiudizio è spesso supportato anche dalla disinformazione che secondo Wali riguarda soprattutto i paesi d’origine di richiedenti asilo e rifugiati: «Quando dico che vengo dall’Afghanistan automaticamente mi danno del terrorista, non ponendosi la domanda sulle ragioni del mio viaggio, e soprattutto creando pregiudizi immotivati ma duri da scardinare.

Per Wali la reazione agli stereotipi nei suoi confronti è stata lo studio, sta concludendo adesso il suo corso in mediazione linguistica e già inizia a progettare le tappe di formazione futura: «Vorrei diventare psichiatra, come mio padre, per aiutare tutte quelle persone che durante il viaggio hanno vissuto esperienza inenarrabili e hanno traumi a causa della guerra che hanno vissuto nei propri paesi di origine. Vorrei intraprendere questo percorso anche per il mio fratellastro, era medico in Afghanistan, fino a quando i talebani non l’hanno sottoposto all’elettroshock dopo che si era rifiutato di collaborare, ora è a Crotone, ma non sta bene, non è più tornato quello di una volta».

È indispensabile conoscere le storie e le condizioni geopolitiche di appartenenza perché, ribadisce Wali: «Credo sia necessario soffermarsi a capire le ragioni per le quali una persona scelga di lasciare la sua famiglia, la sua patria natale, per diffondere così una corretta informazione».

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