«Per il nostro telespettatore tipo che guarda in media un ora e mezza di tv al giorno è importante far vedere la società francese così com’è realmente ed inoltre un emittente generalista come TF1 ha il dovere di parlare a tutti». Così Edouard Boccon-Gibod presidente dell’edizione francese di Metro e responsabile per la diversità del gruppo editoriale Bouygues, proprietario di TF1 si esprimeva nell’intervista raccolta da Carta di Roma nel giugno scorso a Parigi.
Anche in Italia esiste una percentuale di pubblico rilevante, composto da più di 5 milioni di persone, che guarda in media 1 ora al giorno di tv, predilige i programmi informativi e solo dal 2013 è entrato a far parte del campione di rilevazione dell’Auditel, la società di rilevazione dei consumi televisivi.
Si tratta degli immigrati. Non certo i profughi che stanno in questi giorni drammaticamente tentando di attraversare il Mediterraneo in cerca di protezione. No, si tratta di quelle famiglie, lavoratori e lavoratrici, mogli, mariti e figli di quei migranti che hanno deciso di stabilirsi nel nostro paese o di quella famosa seconda generazione a cui ancora è negata la cittadinanza formale.
Non è l’unico ambito indagato nel libro appena uscito «Europa Media Diversità – Idee e proposte per lo scenario italiano» curato da Anna Meli per l’Associazione Carta di Roma ed edito da Franco Angeli. L’inchiesta prende infatti in esame la diversità, così come viene concepita sia dal punto di vista normativo che culturale quando si trova ad essere considerata nell’ambito delle aziende editoriali. Pubblici sempre più differenziati per età, genere, ma anche per orientamento sessuale, origine nazionale e condizione di disabilità vengono considerati target interessanti per le emittenti tv e i media europei. La diversità è vissuta non come una concessione caritatevole di spazi e attenzione, ma come opportunità di sviluppo di nuova creatività.
Con questa intenzione molti gruppi editoriali anche privati hanno investito e investono in iniziative che mirano ad attrarre sia nuovi spettatori o lettori che personale “più differenziato”.
«Assumete giornalisti musulmani» titolava Il Giornale il 15 marzo scorso, riportando le affermazioni del presidente dell’Ucoii (Unione delle comunità islamiche d’Italia) Izzeddin Elzir, che intervistato da Klaus Davi, reclamava uno spazio in Rai anche per quegli abbonati di fede musulmana, che «non solo non hanno giornalisti all’interno, ma non hanno nemmeno un programma di venti minuti o mezz’ora che parli tramite noi della nostra fede».
Eppure anche nella cattolica Spagna la RTVE, emittente pubblica nazionale, manda in onda, oltre al programma dedicato alla religione maggioritaria, Buenas Noticias Tv curata dagli evangelici, Islam Hoy per i musulmani e Shalom, sulla religione ebraica tutte sul secondo canale.
TF1 e France Television, hanno politiche specifiche sulla diversità portate avanti da uffici o responsabili che rispondono direttamente ai consigli di amministrazione delle aziende, così come accade in Olanda, Gran Bretagna, Svezia e anche nella giovane Croazia. A TF1 hanno organizzato sessioni obbligatorie di formazione per i 500 giornalisti del gruppo sugli stereotipi e come maneggiarli nel lavoro redazionale quotidiano. Mentre a France Tv hanno puntato molto sul rapporto con le scuole di giornalismo. Il programma di reclutamento del personale attuale aveva l’obiettivo di accogliere entro il 2015 una percentuale di giovani “issue de la diversité” dentro ogni redazione. I criteri usati però non riguardano l’appartenenza ad una minoranza etnica o religiosa, di genere o altro. L’accesso era finalizzato ad attrarre prevalentemente boursier, ovvero coloro che appartengono a famiglie disagiate siano esse francesi da generazioni o di origine straniera. «Impegnarsi per le pari opportunità deve essere qualcosa che fa parte del dna di un’azienda di servizio pubblico come la nostra», sostiene Stephane Bijoux, responsabile per la diversità che sarà ospite al Festival del Giornalismo di Perugia il prossimo 19 aprile.
In Gran Bretagna prevale invece l’aspetto dell’innovazione e della creatività legato alla diversità. Nel giorno dell‘intervista rilasciata a Carta di Roma presso la sede londinese di Channel 4, gli uffici erano in festa per il prestigioso premio della British Academy Film Awards appena guadagnato dal film “Twelve years a slave“, co-prodotto dall’emittente. Come sappiamo, il film ha poi vinto l’Oscar come miglior film, riscuotendo anche un grande successo di pubblico. I dirigenti di Channel 4 rivendicavano giustamente con orgoglio il fatto di aver contribuito a sostenere la crescita artistica del regista e visual artist Steve McQueen.
«Nei paesi compresi nell’indagine sono i media del servizio pubblico a portare per primi la responsabilità per l’attuazione di politiche per la promozione della diversità, in quanto rientra nel loro mandato di rafforzare la coesione sociale. Le politiche di promozione della diversità sono viste come strumenti per rafforzare la credibilità del servizio pubblico e guadagnarsi la fiducia di tutti i componenti della comunità nazionale», afferma nella prefazione Tana De Zulueta, coordinatrice scientifica dell’indagine.
E in Italia? Le interviste realizzate a Rai, Mediaset, Gruppo Espresso e Rcs rivelano una situazione caratterizzata da una scarsa conoscenza del dibattito sulla diversità tra i media europei oltre che da alcune ingessature di carattere culturale. Nel nostro paese permane un’ottica assistenziale e meramente filantropica che soffoca l’ambito della diversità come motore di sviluppo. La diversità deve essere innovazione per le emittenti e i gruppi editoriali sia pubblici che privati, come sottolinea bene la European Broadcasting Union. Nel rapporto del network dei media di servizio pubblico dei 56 paesi che aderiscono alla EBU, Vision 2020, si sottolinea più volte il contributo in termini di creatività e innovazione che politiche per la diversità possono svolgere all’interno dei servizi pubblici radio televisivi. Le segmentazioni dei pubblici di riferimento sono trattate come questioni sensibili anche dal punto di vista economico e per le indagini utili alla raccolta pubblicitaria e al gradimento di programmi e prodotti editoriali.
Dal sondaggio della Fondazione Leone Moressa sul consumo e gradimento della Tv italiana da parte degli immigrati emerge che uno su quattro cerca i programmi d’informazione e che guardano più Mediaset che la Rai.
Il presidente dell’Associazione Carta di Roma, Giovanni Maria Bellu, nell’introduzione del libro ricorda attraverso le parole di Igiaba Scego il senso dell’indagine: «Non c’è solo l’esigenza di attuazione del codice deontologico (quindi l’uso delle parole corrette, di una titolazione che rispetti il prossimo ecc), ma anche l’esigenza di far capire a chi fa informazione che l’Italia ha ormai cambiato pelle e che, piaccia o no, lo Stivale ormai è meticcio».
Ecco, il libro vuole essere un utile contributo per “far capire” e sollecitare i media italiani, in primis la Rai, a prendere in considerazione gli spunti, gli esempi europei e le raccomandazioni finali.
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