foto di Ralf Ruppert from Pixabay
Di Laura Silvia Battaglia
Stranieri in patria. Lo sono, lo stanno diventando i giornalisti che non guardano al loro tornaconto in questo Paese in cui prendono sempre più piede i negazionismi e le dichiarazioni secondo cui fatti accaduti, certificati, documentati da testimoni, geolocalizzazioni, foto, video – financo corroborati dalle dichiarazioni degli stessi carnefici – vengono definiti mai accaduti perché “non esiste nessuna prova”.
E’ un clima che mi riporta alla mia infanzia: quando la mafia sparava e uccideva. Quando giornalisti del calibro di Giuseppe Fava venivano infamati, a cadavere caldo, e intorno a loro costruito un dedalo di accuse striscianti: quelle di essere, prima di tutto, cattive persone capaci di tutto tranne che di riposta fiducia, certamente non degni di stima, non importa se sviluppata sul piano personale o sociale. L’assunto riposa su questa convinzione diffusa: un uomo che mente, che tradisce, che si nasconde, che dice di essere ciò che non è già sul piano della vita personale, allora non sarà nemmeno un buon giornalista. La morte di Giuseppe Fava a Catania nel 1984 venne liquidata come “delitto a sfondo passionale”.
Oggi, le vicende personali, più o meno boccaccesche, vengono ancora utilizzate ma ai danni delle donne, soprattutto in Paesi come l’India o il Guatemala o il Giappone, per mettere a tacere le loro inchieste tra le pieghe del potere; altrove, soprattutto sui fronti di guerra, basta sviluppare la narrativa del collaborazionismo con il terrorismo regionale o internazionale, come accade per i giornalisti di Gaza o, guardando alla propaganda russa, ai colleghi ucraini; e, quando non ci sono appigli di questo genere, un’autobomba risolve il problema.
In Europa, nel 2017 è già toccato a Daphne Caruana Galizia, per la quale, nonostante l’establishment maltese avesse provato a screditarla, era più difficile costruire delle narrative che la colpissero sul piano personale; oggi tocca all’italiano Sigfrido Ranucci, per fortuna senza esito mortale né per lui né per la figlia, target di un attacco con autobomba, davanti alla loro abitazione. Così, non improvviso, ma ormai chiaro a tutti noi appare il nuovo corso nei confronti dei giornalisti che osano spingersi oltre il copia-incolla delle agenzie e i sorrisi di circostanza: dalle intimidazioni nei confronti dei colleghi Paolo Borrometi, Nello Scavo e Nancy Porsia, che hanno avuto bisogno anche della scorta, al direttore di Fanpage.it Francesco Cancellato che si è ritrovato sotto cyber sorveglianza senza potere sapere quando, chi e perché gli avesse inoculato lo spyware Graphite, fino alla giovane collega Giorgia Venturini che si è ritrovata una capretta sgozzata sotto casa.
A tutto questo, si aggiungano la pletora di querele temerarie che i giornalisti investigativi (e non) sono costretti a sopportare, con conseguente sforzo economico, e con un impatto molto negativo sulla loro resa professionale e sul loro equilibrio mentale, soprattutto quando sono liberi professionisti. In tutto questo, occorre registrare il calo di fiducia dei lettori e degli ascoltatori nei confronti della categoria, giudicata “vigliacca”, “svenduta”, “pessima” sui social media, nei cortei, nei discorsi da bar, nelle discussioni pubbliche. Sembra che a nulla valga l’esistenza di un piccolo manipolo di resistenti che continuano a fare il loro dovere e che si vedono però associati alla maggioranza indistinta.
“Sventurata la terra che ha bisogno di eroi” faceva dire Bertold Brecht a Galileo nella sua “Vita di Galilei”: sventurato è anche il giornalismo che elenca le sue effettive o mancate vittime. Vuol dire che queste vittime sono o sono già state voci che gridano nel deserto. Ma, soprattutto, vuol dire che chi poteva proteggerle o difenderle ha deciso, come Pilato, di lavarsene ben bene le mani.
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