foto di Paola Barretta - Cutro 2024
di Alidad Shiri
Era da poco passata la mezzanotte in quel 26 febbraio 2023, quando la signora Fawzia chiama sua sorella che vive a Rotterdam in Olanda, insieme alla famiglia. La sorella dorme, non risponde, ma lei insiste perché prova un’emozione molto forte: ormai si vedono le luci della costa, vorrebbe gridarglielo, condividere la sua felicità dopo tanta attesa. La sorella finalmente risponde con una voce ancora mezza addormentata. Lei grida: Stiamo per arrivare, ora chiudo e ti chiamo domani. Così chiude la conversazione con nell’animo ancora vive le immagini del suo amato paese che ha dovuto lasciare con il marito e i bambini. Lui era soldato dell’esercito afghano prima dell’arrivo dei talebani, non c’era altra possibilità che la fuga per salvare la vita dell’intera famiglia. Singhiozza dalla felicità di toccare ormai quasi con i piedi un approdo finalmente sicuro dopo quel lunghissimo e pericolosissimo viaggio: dall’Afghanistan, all’Iran, all’attraversamento delle impervie montagne della Turchia, fino ad arrivare all’imbarco insieme ad altre persone, famiglie con tanti bambini. Non avrebbe mai pensato che questo momento si sarebbe di lì a poco trasformato in un incubo totale che segnerà tutta la sua vita. Sente dalla stiva uno scuotimento ed un rumore tremendo.
L’imbarcazione si è incagliata a pochi metri dalla riva e si sta rovesciando e spezzando. Le onde li stanno travolgendo, molti si buttano nel mare con i bambini in braccio, ma molti non hanno il coraggio, come paralizzati dalla paura. Le onde del mare in tempesta li sovrastano, gridano, ma non c’è nessun soccorso. Fawzia e il marito si tengono aggrappati ad un materasso con una mano tengono stretti i due bambini che però vengono spesso gettati in alto dalla onde, ma con fatica sono ripresi dai genitori. Credono sia un miracolo l’essersi salvati. Ora che sono passati due anni spesso sognano quei terribili momenti che ritornano come un incubo costante. Attualmente vivono in Olanda e stanno frequentando corsi di alfabetizzazione, ma trovano grande difficoltà nel concentrarsi, nonostante abbiano il sostegno continuo di percorsi psicologici. Chiedo a lei se viene a Crotone per la memoria del secondo anniversario. Mi risponde un secco no, perché è troppo forte ancora il dolore di quella terribile notte.
Sento anche Namzai che ha perso in quel naufragio 16 famigliari, superstite solo lui e altri quattro su 21. Lui vive ad Amburgo e mi dice che vuole vivere quell’anniversario in Iran con i famigliari rimasti, per non essere solo, pensando a quella strage. Anche mio cugino, un ragazzo di 17 anni, non è stato ancora ritrovato. Abbiamo trovato finalmente il coraggio di dire alla zia che il figlio è disperso, ma lei non si rassegna. Prega ogni giorno. Viviamo quotidianamente con questa angoscia, con un dolore che ci consuma, nella speranza che il corpo di mio cugino sia riportato a casa, ma anche con una ferita che non si rimargina. Sono passati due anni, eppure ancora non abbiamo risposte. Le promesse fatte dalle istituzioni, dal Governo sono rimaste vuote. Subito dopo il naufragio ci è stato detto che ci avrebbero aiutato nella ricerca dell’identificazione delle salme disperse, nel ricongiungimento dei famigliari attraverso un corridoio umanitario, nel fare verità e giustizia sulle cause che hanno prodotto la strage. Ma fino ad oggi sono passati molti mesi e non sappiamo ancora nulla di concreto.
Il 5 marzo ci sarà il processo, ma ci chiediamo se alla fine riusciremo ad avere giustizia, se qualcuno pagherà per quello che è successo, se cambierà la situazione perché i soccorsi siano immediati in quei frangenti. Ogni giorno soffriamo, ogni giorno ci chiediamo come sia possibile che nessuno abbia fatto abbastanza. La nostra vita è cambiata per sempre, ma la ricerca della verità, quella continua a rimanere sospesa. Noi famigliari con le lacrime agli occhi e le ferite aperte speriamo che non succeda più una simile tragedia.
Alidad Shiri scrittore e giornalista
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