Di Antonella Sinopoli su Voci Globali
I cittadini dei Paesi del Sud del mondo, quelli aggrovigliati in conflitti che sembrano non aver fine, quelli dove povertà, effetti della crisi climatica, autoritarismi e guerre intestine stanno incidendo sull’aumento costante di sfollati e rifugiati interni. Tutti questi cittadini, che sono milioni e milioni, sono anche le principali vittime del deterioramento di un diritto fondamentale, quello alla mobilità.
Attenzione, non ho detto diritto alla fuga ma diritto alla mobilità. Quello che trova riconoscimento nella nostra Costituzione (e in quella degli altri Paesi Occidentali) ma anche nella Carta dei Diritti dell’Unione Europea e nella stessa Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. Quel diritto universale, dunque, che però consente solo ai cittadini dei Paesi ricchi, per lo più nell’emisfero occidentale del pianeta, di viaggiare, prendere aerei, decidere qualsiasi meta. Qualsiasi meta il suo passaporto gli garantisca.
A mostrare, nuovamente, e in tutta la sua evidenza il gap del diritto al movimento tra i Paesi ricchi e quelli cosiddetti in via di sviluppo – divario che in periodo di pandemia non ha fatto altro che allargarsi – è l’Henley Passport Index. Uno strumento che classifica i passaporti e identifica quelli “più potenti” e quelli che valgono poco o nulla.
Non si tratta semplicemente di cittadini di serie A e cittadini di serie B. Il discrimine, piuttosto, è tra cittadini/individui liberi e cittadini/individui perennemente tenuti in catene. E per i quali, spesso, l’unico modo per liberarsi dal giogo è tentare la sorte, tirando a dadi lungo la strada del deserto, quella del Mediterraneo, quella dei confini armati, murati, spinati. È un giogo istituzionale quello che li tiene oppressi e li vuole fermi lì dove sono.
Complici sono gli Stati, i loro accordi “privati”, interi continenti (Europa, America del Nord, Australia…). Nazioni culle del diritto (così tutti abbiamo imparato) ma che quei diritti li manovra come un bene (e un beneficio) personale, ristretto ad alcuni ma non a tutti. Nella politica dei passaporti, diciamolo chiaro, non vale il meccanismo della reciprocità tra gli Stati (anche se così dovrebbe essere). Ecco perché l’uso della parola “complicità” non è esagerato né usato a caso.
Dal nuovo rapporto emerge che, mentre cresce il “valore” di alcuni passaporti, quello degli Emirati Arabi Uniti, per esempio, e si conferma la “forza” di quello per la nazionalità giapponese, tedesca, della Corea del Sud o di Singapore, dal 2011 si è registrato invece un continuo calo del valore dei passaporti rilasciati in Siria, Yemen, Nigeria, Bangladesh, Gambia, Sierra Leone (questi sono solo quelli il cui posizionamento nell’index continua a scendere). Ma anche se possiedi un passaporto afghano, sudanese, somalo o congolese non te la passi bene.
Cosa vuol dire in termini concreti? Vuol dire che chi possiede un passaporto potente può viaggiare nella maggior parte dei Paesi al mondo senza visto – esempi: Giappone, 192 Paesi; Germania, 190; Italia, 189 – ma per chi ha passaporti che sono quasi carta straccia questo beneficio (visa free) si riduce a 26 Paesi per l’Afghanistan, 29 per la Siria, 33 per lo Yemen, 34 per la Somalia. E così via. E pensare che questo indice non ha tenuto conto delle attuali restrizioni relative al Covid 19 che hanno finito per isolare aree del mondo dove invece ci sarebbe bisogno di occhi aperti per testimoniare violazioni e limitazioni dei diritti (oltre alla violazione di cui stiamo parlando ora).
Ma la ricerca – si legge sulla pagina di Henley & Partners – indica anche che il divario potrebbe ampliarsi ulteriormente poiché le nazioni con i passaporti più solidi hanno posto in essere rigide barriere per i viaggiatori di altre nazioni.
Molti Paesi del Sud del mondo, inoltre – ammettono ancora gli esperti – hanno allentato i loro confini in uno sforzo concertato per rilanciare le loro economie, ma c’è stata pochissima reciprocità (e torniamo su questo termine) da parte dei Paesi del Nord del mondo, che hanno imposto alcune delle più rigorose restrizioni di viaggio in entrata legate al Covid-19.
Il paradosso, che in realtà lascia poco spazio allo stupore, è che nonostante l’evidenza di un mondo spaccato, ineguale, disomogeneo l’attenzione rimane rivolta ai ricchi, ai danarosi, agli imprenditori. A loro, che possono salvarsi dalla crisi e anzi accrescere il loro volume di affari. Sia chiaro, non c’è disvalore nella ricchezza in generale (tranne in quella generata a danno di altri). Ma la ricchezza non può essere il discrimine per il godimento o meno dei diritti. Inoltre, ciò che turba è che ci siano vie d’uscita per alcuni e non per altri e che queste vie d’uscita siano sempre collegate alla disponibilità finanziaria e alla provenienza geografica.
Esistono, infatti, programmi di migrazioni con opzioni complementari di cittadinanza e residenza. Ad imprenditori – che siano cittadini europei – e alle loro famiglie vengono offerte opportunità di ricollocamento assistito in altre nazioni investendo un certo ammontare di capitale – che va da un minimo di 100.000 dollari per alcuni Paesi dei Caraibi, a un massimo di 3 milioni di euro per l’Austria. Un modo per rifarsi una vita con le dovute rassicurazioni – da parte dei mediatori che operano in questo campo – di accedere ad una sanità adeguata e alla possibilità di condurre affari, studiare, investire.
Alcuni di questi programmi non includono solo la ricollocazione, ma anche il libero movimento in aree limitrofe al territorio scelto o che a questo territorio siano legate per ragioni economiche, politiche o di trattati. Insomma, viviamo in un mondo che insiste nell’agevolare la ricchezza e il potere, nell’alzare barriere di ogni tipo, nell’operare divisioni, e nel trascurare gli effetti di queste politiche: disuguaglianza, disturbi mentali, disagio sociale, conflitti. E migrazioni, migrazioni folli, spesso senza meta. Migrazioni forzate, migrazioni dolorose, migrazioni pericolose.
Oggi più che mai bisogna uscire da questa abulia, da questa assuefazione che ci fa accogliere qualunque cosa storta (come quella che ho raccontato qui) come normale, inevitabile. Bisogna farsi forza, prendere coraggio, raccogliere le energie e creare un movimento di opinione che dica “No, non è giusto! Bisogna cambiare!”.
Non è giusto che milioni di persone siano prigioniere nei loro Paesi, che non abbiano diritto a viaggiare, a cambiare la propria vita a cercare altre strade. Proprio così come fanno tutti quegli altri a cui questo diritto è concesso. Tutti quelli a cui questo diritto, il diritto alla mobilità, sembra normale, scontato. Perché per loro, per noi, sì che è normale e scontato.
Di Annalisa Camilli su Internazionale
“Ho fatto due anni di prigione per aver guidato una barca. Ho salvato la vita di quelle persone, non avevamo altra scelta. Ora vogliamo lottare per la libertà e i diritti umani di altri migranti imprigionati ingiustamente”, Cheikh Sene è arrivato in Italia qualche anno fa dalla Libia, arrestato dalle autorità italiane con l’accusa di essere uno scafista, cioè di aver condotto l’imbarcazione carica di migranti con cui ha attraversato il Mediterraneo.
Ora Sene è un attivista del circolo Arci Porco rosso di Palermo e ha collaborato con l’associazione nella realizzazione di una ricerca che ha per la prima volta analizzato dal punto di vista quantitativo gli arresti di migranti accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: ne emerge che dal 2013 più di duemila persone sono state arrestate e accusate di essere scafisti dalle autorità italiane con processi che hanno portato a pene molto severe.
L’analisi quantitativa dei dati raccolta da tre associazioni non governative – Arci Porco rosso, Borderline Europe e Alarmphone – ha mostrato che in Italia negli ultimi anni sono stati usati i sistemi della direzione nazionale antimafia, potenti strumenti di indagine e metodi imponenti per individuare i richiedenti asilo e migranti appena arrivati nel paese che avevano condotto le imbarcazioni, accusandoli di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, un reato che prevede pene fino a quindici anni di carcere e milioni di euro di multa. Lo aveva già anticipato un’inchiesta di The Intercept, tradotta e pubblicata anche da Internazionale.
Secondo la ricerca, nell’ultimo ultimo anno la polizia ha arrestato un migrante ogni cento di quelli arrivati in Italia via mare. Le associazioni hanno intervistato un centinaio di persone tra cui decine di migranti, avvocati, giudici, ufficiali della guardia costiera italiana e operatori penitenziari.
Nella relazione si sottolinea che molti migranti vengono giudicati colpevoli anche quando le prove usate in tribunale contro di loro sono estremamente deboli. Maria Giulia Fava, operatrice legale che ha collaborato alla stesura del report, ha denunciato: “Si tratta di processi politicamente condizionati. Nella caccia allo scafista, capro espiatorio a cui addossare ogni responsabilità, le garanzie processuali vengono meno e quei princìpi su cui dovrebbe fondarsi ogni procedimento penale sono violati con leggerezza”.
“Una problematica centrale riscontrata è quella inerente all’accesso ai diritti da parte delle persone accusate, tenuto conto della peculiare condizione di difficoltà in cui si trovano al momento in cui viene formulata l’accusa. Dobbiamo infatti considerare, come illustrato nella precedente sezione, che i capitani vengono identificati al momento dello sbarco, o in prossimità di esso, in un paese straniero ove, spesso, non hanno alcun riferimento affettivo e di cui non conoscono lingua, cultura, né tantomeno la legge”, è scritto nel rapporto.
Le condanne variano dai due anni ai vent’anni. Dei quasi mille casi analizzati dall’indagine, venti persone sono state condannate a pene detentive di oltre dieci anni e sette persone hanno ricevuto l’ergastolo.
Di Alessandra Fabbretti su Agenzia DiRE
Da qualche giorno in Polonia, lungo il confine occidentale verso la Bielorussia, sono spuntate piccole luci verdi visibili soprattutto di notte: è un messaggio in codice, un invito rivolto ai migranti e richiedenti asilo ad avvicinarsi e chiedere aiuto. Chi ha acceso quella luce è pronto a dar loro da mangiare e un rifugio caldo e sicuro nonostante rischi multe o denunce per favoreggiamento dell’immigrazione illegale. C’è anche una promessa: chi apre la porta non chiamerà la polizia che, come precisa la legge sullo stato d’emergenza, consente ai militari polacchi di respingere i profughi nei boschi, anche di notte, verso il confine bielorusso. A lanciare l’idea delle ‘Green light’ è stato Kamyl Syller, un avvocato specializzato in questioni migratorie.
L’agenzia Dire lo contattata telefonicamente nel suo ufficio, in una località a circa 5 chilometri dal confine. “L’idea della ‘Green Light’ mi è venuta qualche giorno fa, dopo aver raggiunto tre rifugiati siriani, un uomo, una donna e una bambina di due anni. Erano stremati e secondo i medici di lì a poche ore la donna avrebbe subito un arresto cardiaco. Vagavano da giorni nei boschi, come stanno facendo decine di altri migranti a cui le guardie di frontiera impediscono di entrare e presentare richiesta d’asilo”.
Il problema, continua l’avvocato, è che “chiamano noi volontari ma non chiedono aiuto ai residenti per paura di essere rimandati indietro. Salvando quei tre siriani, di colpo ho realizzato che arrivati a un certo punto queste persone smettono di camminare, si arrendono. Aspettano di essere salvate, oppure di morire, non lo so”.
Syller continua: “So che una volta trovate, alcune persone scoppiano a piangere, si gettano ai piedi di chi hanno di fronte e gli baciano le scarpe. Sono immagini scioccanti a cui per fortuna non ho ancora assistito. Ma tanti volontari della nostra rete lo hanno raccontato”.
Già sette le morti confermate ufficialmente al confine tra Polonia e Bielorussia da agosto, a causa di un braccio di ferro politico che chiama in causa Varsavia e l’Unione europea da un lato, e il governo di Minsk dall’altro. Ma secondo le associazioni per i diritti umani i morti potrebbero essere molti di più, dato che nei boschi di notte le temperature scendono sotto lo zero. Chi si avventura in questo “limbo” al confine esterno dell’Ue proviene da Iraq, Siria, Yemen, Afghanistan, Iran o Paesi africani. Tra loro anche donne incinte, anziani, bambini e neonati.
Lo scopo di ‘green light’ quindi, spiega Syller, “è far capire ai rifugiati che hanno davanti una casa amichevole, convincendoli a uscire dalla foresta e non morire di fame, disidratazione o freddo”. L’avvocato continua: “Tra i sopravvissuti troviamo anche casi di Covid e brutte ferite a mani, piedi e testa. Questa gente sta scappando da guerre e povertà. Hanno bisogno del nostro sostegno. Per questo abbiamo creato una pagina Facebook con tutte le informazioni in polacco, inglese e arabo, e sta già avendo molto successo”.
Chi ha aderito all’iniziativa “potrebbe rischiare di essere attenzionato dalle autorità e di subire problemi, per questo dobbiamo muoverci con senso di responsabilità”, aggiunge l’avvocato. La legge polacca punisce con multe e persino il carcere chi aiuta i profughi. Più in generale, le comunità di frontiera, dopo la legge sullo stato d’emergenza frontaliero, sottolinea Syller, “hanno subito un calo del turismo, un bel guaio dopo mesi di lockdown. Quotidianamente poi gli automobilisti affrontano perquisizioni e tante domande ai posti di blocco. Ma la polizia dovrebbe occuparsi dei contrabbandieri e dei criminali, non di cittadini che aiutano altre persone a sopravvivere”.
Syller parla poi dell’ampia rete di volontari che si è spontaneamente formata in Polonia per aiutare i migranti: “Dobbiamo restare umani. Ma alcuni di loro già dichiara di avere bisogno di un sostegno psicologico. Non eravamo preparati ad assistere a un dramma di queste proporzioni”.
Ieri a Varsavia e Cracovia sono scese in piazza migliaia di persone per dire al governo di centrodestra “stop alle torture al confine”. Nei giorni scorsi, anche il capo della Conferenza episcopale polacca, monsignor Wojciech Polak, ha lanciato un appello al ministero dell’Interno affinché garantisca ai profughi l’assistenza medica nella zone di frontiera.
Di Nello Scavo su Avvenire
La guerra sui tre confini si combatte anche a colpi di ansiolitici somministrati dall’esercito bielorusso ai bambini migranti. Nella terra di nessuno tra Lituania, Polonia e Bielorussia capita che i militari di Vilnius debbano affidare ai rianimatori qualche piccolo profugo. «Hanno dato a noi e ai nostri figli delle pillole», raccontano nell’ospedale di Kabeliai i genitori iracheni. Non erano vitamine per sopportare il freddo. Anche se di freddo si muore: almeno 5 le vittime accertate finora, ma di decine di persone disperse nei boschi non si sa più nulla. Distribuiti dai militari bielorussi in dosi sconsiderate per grandi e piccoli, i tranquillanti assicurano che gli stranieri spinti armi in spalla dai corpi speciali non comincino a piangere nel bel mezzo del bosco, di notte, dove la Lituania sorveglia la frontiera con droni e sensori nascosti tra gli alberi. Quando colti sul fatto, comincia la sceneggiata: le forze bielorusse accendono le videocamere e spingono i migranti verso le pattuglie lituane disposte per impedirne il passaggio. Al resto pensa la propaganda di regime, che mostrerà il volto spietato dei Paesi Ue, senza cuore nemmeno davanti ai bimbi. Anche con queste “munizioni” il dittatore bielorusso Lukashenko sta tentando di far saltare i nervi a Polonia e Lituania come rappresaglia per le sanzioni dell’Unione Europea al regime di Minsk.
Bisogna attraversare più volte i tre confini per farsi un’idea delle rispettive parti in tragedia. Vilnius parla di “aggressione ibrida“. «Abbiamo a che fare con un’azione di massa organizzata e ben diretta da Minsk e Mosca», rincara il primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki. Secondo Varsavia, a partire dal mese di agosto oltre 7mila migranti e profughi hanno tentato di varcare il confine. Oltre 4mila nella sola Lituania. Fatte le debite proporzioni (38 milioni sono gli abitanti in Polonia, meno di 2,8 i lituani) si capisce come questi numeri possano essere usati per suscitare allarme. Nell’Europa che teme l’arrivo di una massiccia ondata di rifugiati afghani, vengono piantati altri pali d’acciaio per chilometri, issando barriere anti-migranti che stanno trasformando i confini esterni in una trappola di aculei. Il “muro polacco” è alto fino a 4 metri, una recinzione simile a quella eretta dall’Ungheria di Orbán nel 2015. Varsavia schiera circa mille uomini in appoggio alle guardie di frontiera lungo i 400 chilometri, in gran parte foresta, che separano i due Paesi. La linea di demarcazione tra Lituania e Bielorussia è una continua serie di tornanti, colline, fossati, campi arati per 678 chilometri. Anche qui è in costruzione una barriera, mentre 258 chilometri vengono monitorati elettronicamente.
Con l’invio di migranti «Lukashenko sta cercando di destabilizzare l’Ue, usando gli esseri umani in un atto di aggressione», va ripetendo la commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson. Venerdì sono arrivati nella capitale lituana 29,6 milioni di euro sui 37 stanziati dalla Commissione europea per aiutare il Paese ad affrontare l’arrivo di profughi. In gran parte si tratta di iracheni e siriani, ma stanno aumentando le domande d’asilo di afghani e perfino indiani e srilankesi. Dal Baltico a Kabul o Karthum sono oltre 5mila chilometri di odissea. Eppure sudanesi e afghani arrivano fino a qui. Le testimonianze raccolte dalle agenzie umanitarie delle Nazioni Unite confermano come negli ultimi mesi siano stati agevolati, qualche volta anche in aereo, i viaggi dall’Oriente verso la Bielorussia. Una volta finiti nel limbo di Minsk, i profughi riappaiono lungo i sentieri che s’infrangono contro le reti metalliche finanziate da Bruxelles. Chi riesce a guadagnare il suolo della Ue dovrà affrontare altri disagi, e il rischio di una deportazione con volo diretto verso il Paese d’origine.
Non tutti vogliono fermarsi dalle parti di Vilnius e c’è chi teme di restare prigioniero del regolamento di Dublino, che non offre scelta: o si presenta domanda d’asilo e si rimane in attesa obbligatoriamente nel Paese Ue di primo ingresso, oppure si è condannati alla clandestinità. I due iracheni Mohamad Wasim Hamid e Hamza Hayek Mahmud erano arrivati in Lituania dalla Bielorussia nella serata del 29 luglio, ma non hanno chiesto protezione internazionale. Avevano in mente di raggiungere la Germania o la Scandinavia. Pochi giorni fa sono stati condannati a 45 giorni di detenzione e verranno avviate le procedure per il rimpatrio. Dovranno attendere in un centro di accoglienza. In realtà, si tratta di accampamenti per la detenzione sorvegliati da militari incappucciati che perlustrano i dintorni con la mano sulla fondina. A Vilnius hanno riaperto un vecchio edificio abbandonato sulla collina dietro la linea ferroviaria. Il muro di cinta impedisce di vedere all’interno, ma chi riesce a visitarlo non ne è uscito contento. Lo stesso nelle tendopoli militari dove i profughi già fanno i conti con l’anticipo del sottozero invernale.
L’ufficio statale del Difensore civico lituano non l’ha presa bene. Giovedì ha pubblicato un rapporto sulle condizioni di vita «disumane e degradanti» affrontate dai migranti irregolari. Le persone dormono in stanze umide, fredde e affollate. Mancano di cibo adeguato, acqua calda a sufficienza e farmaci. Il ministero dell’Interno ha rilasciato un commento, spiegando di non aver ancora letto il rapporto, ma «alcuni estratti pubblicati dai media portano alla conclusione che le informazioni contenute siano obsolete». Per il Difensore civico, «le condizioni di detenzione dei migranti irregolari in Lituania» sono un «trattamento disumano proibito dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti».
Il 22 settembre quattro profughi sono morti di freddo e stenti sul confine tra Bielorussia e Polonia. Una quinta persona è deceduta poco più a Nord, dopo essere riuscita a raggiungere la Lituania. Ma per la fondazione umanitaria polacca Ocalenje le vittime potrebbero essere di più. Nella foresta di Usnarz Górny da quasi due mesi una trentina di persone vivono nascoste. Ma da diversi giorni si è perso ogni contatto con le persone incastrate tra la boscaglia sul lato di Minsk e il reticolato polacco. Altri 8 migranti oramai incapaci di muovere un solo passo sono stati soccorsi dopo essere sbucati in una zona paludosa e 7 sono stati portati in un ospedale polacco oramai in gravi condizioni. «Da tempo avevamo avvertito le autorità – ricorda Piotr Bystrianin, di Ocalenje – che se le guardie di frontiera non avessero smesso di respingere le persone senza neanche ascoltare la loro richiesta di protezione umanitaria, presto avremmo dovuto affrontare delle tragedie». E l’inverno non è ancora iniziato.
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Su Redattore Sociale
“I confini non esistono in natura. Sono convenzioni che quando diventano frontiere invalicabili generano ingiustizie, violenze e guerre”. Don Luigi Ciotti, presidente Libera e Gruppo Abele, in un’ intervista a Famiglia Cristiana commenta la richiesta di dodici membri dell’Unione europea alla Commissione di Bruxelles, di finanziare la costruzione di “protezioni” alle frontiere per respingere i migranti. “Lo aveva già denunciato don Tonino Bello nel 1992, – commenta Ciotti – la politica rischia di ridursi a regolatrice di interessi, affermò allora, temendo che l’Europa crescesse sempre più come ‘cassa’ e non come ‘casa’ comune, e che il Vecchio Continente da terra di fratelli si trasformasse in terra di mercanti senza cuore. È bene sapere che la Terra misura 13 mila chilometri di diametro, ma ne conta già oggi circa 16 mila di barriere, muri, fili spinati. Vogliamo continuare a creare divisioni? Oggi i confini si manifestano da un lato come distanza e come diseguaglianza, dall’altro come processi di esclusione e come atti di respingimento. I ‘confini’ lasciano passare le merci ma spesso sbattono la porta in faccia a persone che scappano da conflitti, miseria, drammatiche conseguenze dei cambiamenti climatici”.
Per Foad Aodi presidente dell’Associazione medici di origine straniera in Italia (Amsi) e dell’Unione medica Euro-mediterranea (Umem) la proposta rappresenta “un precedente e una conferma dall’Europa molto preoccupante”: la “mancanza di volontà di governare il fenomeno migratorio in modo unitario”. E nello stesso tempo va contro i principi europei e il rispetto dei diritti umani e della solidarietà. “Non possiamo dividere il mondo in paesi ricchi e paesi poveri, fortezze e cimiteri all’aperto nel mare, paesi che si scordano la sofferenza in cui sono passati nella loro storia recente e remota si chiudono nei confronti di chi ha bisogno di aiuto e scappa dalle guerre”, sottolinea Foad Aodi.
“Urge una legge d’immigrazione europea con il principio “Diritti e Doveri” e con solidarietà e il rispetto degli accordi bilaterali, responsabilizzando tutti i paesi europei e non europei e aiutare i migranti sia nei loro paesi di origine che in Europa, con politiche chiare e decise per combattere il mercato degli esseri umani e la violenza contro i migranti, donne e bambini”. Dall’altra parte, prosegue, occorre “promuovere politiche d’accoglienza condivise da tutti i paesi europei, in particolare in questo momento molto critico per colpa della pandemia, durante il quale servono vaccini, tamponi, controlli ai confini e aiuti sanitari e umanitari per i paesi in difficoltà e in guerre e in conflitti dimenticati”, conclude Aodi che si appella al governo italiano perché sulla questione prenda una posizione netta e costruttiva.
Fountain pen, details
Su Huffington Post
Il premio Nobel per la Letteratura 2021 va allo scrittore Abdulrazak Gurnah “per la sua intransigente e compassionevole penetrazione degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato nel divario tra culture e continenti”, si legge nella motivazione pubblicata dall’Accademia di Svezia.
Nato 73 anni fa sull’isola di Zanzibar, al largo delle coste dell’Africa orientale, Gurna è un romanziere originario della Tanzania, ma residente nel Regno Unito, paese dove è arrivato da rifugiato alla fine degli anni Sessanta. Oltre ad essere stato professore di inglese al Postcolonial Literatures all’Università del Kent. Come studioso si è dedicato a ricerche sulla narrativa postcoloniale e alle questioni associate al colonialismo, specialmente per quanto riguarda l’Africa, i Caraibi e l’India.
La sua opera più famosa è Paradise, pubblicata nel 1994. Il romanzo narra la storia di Yusuf, un ragazzo nato in Tanzania all’inizio del Novecento. Venduto dal padre ad un mercante di schiavi arabo per ripagare un grosso debito, a storia del protagonista si sviluppa sullo sfondo dell’Africa coloniale alla vigilia della prima guerra mondiale. Altri suoi romanzi, come By The Sea (2001) e Desertion (2005), sono stati selezionati per il Booker Prize e il Los Angeles Times Book Award.
Su ARD Wien/Sudosteuropa
ARD-Studio Wien, insieme ai media partner di Lighthouse Reports, ARD Magazin Monitor, SRF-Rundschau, Spiegel, Novosti e RTL dalla Croazia, e il quotidiano Libération hanno indagato sui respingimenti al confine croato-bosniaco per quasi nove mesi. I giornalisti sono rimasti in agguato, si sono travestiti da pescatori, si sono seduti tra i cespugli in abiti da cacciatore, hanno utilizzato droni, hanno analizzato immagini satellitari e centinaia di account sui social media di proprietà di agenti di polizia croati e hanno parlato con una dozzina di fonti. Tra maggio e settembre 2021, hanno filmato un totale di 11 respingimenti in cinque diverse località al confine bosniaco-croato. Si possono vedere 38 agenti di polizia – tra cui due donne – che deportano illegalmente 148 persone attraverso il confine verde.
Finora, le autorità croate hanno sempre negato tutte le accuse secondo cui stanno rimandando illegalmente persone attraverso il “confine verde” in Bosnia-Erzegovina e che gli agenti di polizia usano la forza per farlo. Sebbene numerose dichiarazioni delle persone colpite lo riportino e organizzazioni per i diritti umani come Border Violence Monitoring o Amnesty International abbiano documentato meticolosamente la violenza di respingimento.
Ora non si può negare. Nel giugno 2021, il team è riuscito a catturare per la prima volta in video la violenza sul confine croato-bosniaco.
Gli uomini mascherati non hanno distintivi sulle loro uniformi, ma le indagini e sei agenti di polizia confermano che gli uomini mascherati indossano l’equipaggiamento ufficiale della polizia d’intervento croata (giacca, cintura, pistola di servizio, fondina, porta manette, manganello).
La polizia è subordinata al Ministero dell’Interno di Zagabria. I comandi per i pushback provengono da lì? Lo confermano tre fonti indipendenti tra i ranghi della polizia croata. Vogliono rimanere anonimi per paura di rappresaglie. “Sapete che è illegale, ma chi può dire di no a un’istruzione dall’alto – dal governo e dal ministro dell’Interno Božinović. Quindi sono loro che sono ‘fregati’ perché noi lavoriamo solo secondo le indicazioni del governo”.
Il ministero dell’Interno croato ha annunciato che indagherà sull’incidente. Un team di esperti sarà inviato rapidamente al confine. Se si scopre che sono funzionari croati, saranno ritenuti responsabili, ha detto una portavoce.
Il video è disponibile qui
Immagine in evidenza di ARD Wien/Lighthouse Reports+Medienpartner
Di Isabella De Silvestro su Domani
Bassirou è arrivato dal Senegal nel 2013 e per otto anni ha vissuto da irregolare. Dopo un lungo periodo passato in una baracca di lamiera condivisa con altri braccianti nel gran ghetto di Rignano, tra Foggia, Rignano Garganico e San Severo, senza acqua corrente, in balìa dell’afa estiva e del gelo invernale, ha iniziato a vagare per la provincia di Foggia. Inseguiva lavori a breve termine nelle campagne e dormiva ovunque la sua paga da tre euro all’ora gli permettesse di poggiare il corpo provato da dieci ore di lavoro quotidiano. A luglio di quest’anno ha finalmente ottenuto un permesso di soggiorno per lavoro subordinato grazie alla sanatoria promossa dalla ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova con il governo giallorosso di Giuseppe Conte. Ma solo grazie a un amico sindacalista che l’ha aiutato a presentare la domanda, dopo un anno di attesa Bassirou è uscito dalla clandestinità.
«Sono fortunato», dice sapendo di essere stato uno dei pochi richiedenti a farcela. «Senza documenti non vali niente, ti usano come vogliono. Se un capo non ti vuole pagare quello che ti spetta non puoi denunciare perché hai paura della polizia. Sei in terra d’altri, completamente solo».
La Capitanata, il nord della Puglia, è il binario morto delle politiche migratorie italiane, dove ogni retorica sul nostro modello di accoglienza rivela la sua inconsistenza. Durante l’estate nei ghetti della campagna foggiana affluiscono migliaia di lavoratori per la raccolta di frutta e verdura che vanno ad aggiungersi agli stanziali, uomini e donne approdati in Italia anche molti anni fa e ormai rassegnati a viverne solo i meandri sudici a cui li relega la mancanza di un permesso di soggiorno.
Non si tratta di centinaia, ma di migliaia di persone, ed è il risultato di una gestione dell’immigrazione che ha progressivamente smantellato i canali di accesso regolare creando grandi sacche di irregolarità. Ne trae profitto il settore della grande distribuzione che porta sugli scaffali dei supermercati prodotti a basso costo il cui prezzo è pagato dai braccianti.
A maggio 2020 erano state riposte molte speranze nel provvedimento di emersione dall’irregolarità che ambiva a sanare fino a 220mila lavoratori impiegati nei settori dell’agricoltura, dei servizi domestici e dell’assistenza alla persona: braccianti, colf e badanti. Presentata insieme alle lacrime dell’allora ministra Bellanova come “traguardo storico” in grado di rendere visibili gli invisibili, l’operazione si rivela oggi un fallimento burocratico e politico.
Secondo l’ultimo dossier della campagna Ero straniero, pubblicato il 29 luglio scorso, sono circa 60mila i permessi di soggiorno rilasciati dal ministero dell’Interno a fronte delle 220mila domande presentate: solo il 27 per cento del totale. Inoltre, nonostante la misura sia stata presentata principalmente per gli irregolari delle campagne, le domande di emersione provenienti dal settore agricolo non sono che il 15 per cento del totale (30mila), tutte le altre riguardano colf e badanti. Si può quindi stimare che i braccianti ad oggi regolarizzati si aggirino intorno agli 8mila in tutta la penisola. Un numero irrisorio se si pensa che nella sola provincia di Foggia, secondo le stime della Flai Cgil – il sindacato dei lavoratori agricoli e dell’industria alimentare – gli irregolari impiegati nei campi sono anche 45mila, nei periodi di punta. La sanatoria è un’occasione mancata e la condizione dei braccianti è rimasta invariata, se non addirittura peggiorata.
«Non mi sono mai illuso su questa sanatoria», afferma Raffaele Falcone, il sindacalista della Flai Cgil di Foggia che ha aiutato Bassirou. «È una misura estremamente complessa, scritta male, modificata tramite infinite circolari ministeriali spesso difficili da interpretare anche per chi lavora nel settore. Gli unici che hanno la speranza di sanare la propria situazione grazie a questa misura sono quelli che avevano già un rapporto di lavoro stabile. Io ho personalmente portato a termine un centinaio di emersioni con esito positivo facendo pressione sulla prefettura, che registrava ritardi imbarazzanti. Si trattava però di lavoratori che conoscevo e seguivo da anni e che aspettavano solo un provvedimento per regolarizzare un rapporto di lavoro già consolidato, anche se irregolare. I veri marginali ne rimangono totalmente esclusi».
Non solo, infatti, la misura esclude gli altri settori dove la manodopera irregolare è largamente impiegata, come logistica, edilizia o ristorazione, ma impone requisiti tanto specifici e difficili da dimostrare che rende impossibile presentare la richiesta a chi versa in condizioni di grande marginalità. Su 45mila irregolari stimati nel foggiano per il settore agricolo, solo 1.200 hanno potuto presentare la domanda. Tanto nelle città, quanto negli insediamenti abusivi, infatti, c’è chi lavora nei campi e chi lavora per chi lavora nei campi. I ghetti ospitano moltissime attività commerciali del tutto informali ma consolidate, fonte di sussistenza più o meno stabile per molti. «Chi gestisce uno dei tanti esercizi commerciali del ghetto», continua Falcone, «come può pensare di trovare un datore di lavoro che lo regolarizzi? Chi lavora nei campi ma risponde ai comandi di un caporale e non sa nemmeno chi sia e che faccia abbia il proprietario dell’azienda agricola, a chi chiederà di presentare la domanda di emersione?».
Una delle più grandi fragilità della sanatoria risiede nell’enorme potere che la misura lascia al datore di lavoro. La norma prevede che sia questo ad autodenunciarsi e a pagare un contributo forfettario di 500 euro per l’emersione del lavoratore. Non solo è improbabile che un datore di lavoro che impiega da anni forza lavoro in nero – o più comunemente “in grigio”, registrando poche ore di lavoro rispetto a quelle realmente lavorate dal bracciante – abbia interesse a regolarizzare i lavoratori, ma altrettanto improbabile è che sia disposto a pagare il prezzo della regolarizzazione. Nella maggior parte dei casi, infatti, i 500 euro vengono pagati dai lavoratori stessi, che non hanno però alcuna certezza che la loro pratica porti, dopo peripezie burocratiche insensate e psicologicamente sfiancanti, a un permesso di soggiorno per lavoro. Chi riesce a compiere la trafila assume così un’aura eroica, un fatto tanto desolante quanto più rende evidente che la regolarizzazione in Italia richiede una combinazione di fortuna, tenacia, particolare intelligenza e rapporti consolidati con italiani disposti a fare da mediatori e garanti. Pochissimi dunque i regolarizzati. Sotto di loro, una larga schiera di illusi e delusi, lavoratori irregolari esasperati e facilmente manipolabili che cadono nelle maglie di datori di lavoro che li ricattano o faccendieri e truffatori che hanno trovato nella sanatoria una fonte di denaro facile. Molti i casi di compravendita di finti contratti di lavoro, che arrivano a costare anche più di duemila euro e non portano alla regolarizzazione. Le truffe rimangono impunite, al massimo si insabbiano in una denuncia contro ignoti.
Poi ci sono le difficoltà legate alla natura stagionale del lavoro agricolo, che avrebbe dovuto essere messa in conto dai promotori della misura di emersione. La forte mobilità richiesta dal settore agricolo raramente permette un rapporto di lavoro stabile e continuativo che copra l’intero anno.
«C’è una netta disconnessione tra una certa politica e il mondo reale», afferma Aboubakar Soumahoro, sindacalista e attivista da anni in lotta per i diritti dei braccianti. «È una misura scritta senza conoscere l’àmbito di intervento. Nessuno si è curato di indossare gli stivali e visitare le campagne, entrando nei tuguri dove vivono i diretti interessati a cui viene negato ogni diritto. Il migrante serve fintanto che è funzionale, fintanto che lavora fino allo sfinimento senza avanzare pretese».
La sanatoria è stata varata come misura emergenziale durante il primo lockdown, quando si registrava una mancanza di lavoratori stagionali nelle campagne e il governo avvertiva l’urgenza di assicurare la frutta e la verdura negli scaffali dei supermercati. Mentre tutto si fermava, ai braccianti veniva richiesto di continuare a lavorare senza che venissero forniti dispositivi di protezione individuale o garantite condizioni igieniche di base per lavorare e vivere in sicurezza. Daniela Zitarosa, operatrice dell’organizzazione umanitaria Intersos che opera nei ghetti delle campagne foggiane, mette l’accento sulle gravi condizioni igieniche in cui versano uomini e donne: «Non solo era impossibile chiedere di rispettare il distanziamento, ma era anche ridicolo pretendere certe precauzioni per noi scontate. Mentre spiegavo ad una bracciante l’importanza di lavarsi le mani di frequente, lei scaldava un ferro da stiro per gettarlo in un secchio d’acqua: era l’unico modo che aveva per lavarsi con acqua calda».
La pandemia ha acuito le disuguaglianze. I lavoratori senza documenti sono finiti in fondo alla coda nella campagna vaccinale e l’introduzione del green pass ha creato problemi agli stagionali costretti a spostarsi da una regione all’altra per cercare lavoro.
Se la sanatoria prometteva di porre rimedio alla marginalità anche in ambito sanitario, la situazione non è rosea neppure per chi ha fatto richiesta di emersione. I richiedenti, al momento della presentazione dell’istanza, venivano forniti di una tessera sanitaria provvisoria con un codice numerico – e non alfanumerico, come per le normali tessere dei cittadini regolari – che non permetteva di registrarsi sui sistemi digitali della sanità pubblica.
Un’impasse burocratica che non è formale. Determina l’ennesima esclusione di centinaia di migliaia di persone dai diritti basilari che dovrebbero essere garantiti a chiunque risieda nel nostro paese.
Ritardi, inadempienze, leggerezze sembrano il frutto della mancanza di interesse reale. Per il governo la regolarizzazione degli invisibili non è una priorità.
Immagine in evidenza di Domani
Su UNHCR
Ieri, in occasione della Giornata mondiale degli insegnanti, UNHCR Italia ha lanciato un kit di strumenti realizzato appositamente per sostenere l’insegnamento sul tema dei rifugiati nelle scuole italiane.
Il kit, Insegnare il tema dei rifugiati, comprende programmi per le lezioni, attività, video e altri materiali adattabili su rifugiati, asilo, migrazione e apolidia per l’istruzione primaria e secondaria, e mira ad aiutare gli insegnanti a spiegare ai loro studenti il fenomeno delle migrazioni forzate e le sue complessità.
“In un momento in cui il numero di persone in fuga da guerre, violenze e persecuzioni ha raggiunto un livello record e con i media e internet che abbondano di informazioni sull’argomento, diventa quantomai necessario comprendere la condizione di chi e’ stato costretto ad abbandonare la propria casa, anche per poterlo accogliere quando arriva”, ha detto Chiara Cardoletti, Rappresentante UNHCR per l’Italia, la Santa Sede e San Marino. “Una società che sa accogliere e includere è una società che sa proteggere. In questo senso, il kit per gli insegnanti è anche un’importante strumento di protezione”.
Nello specifico, il Kit è composto inizialmente da una serie di animazioni video, le parole contano, che illustrano i concetti chiave. Chi sono i rifugiati? Cosa si intende per migrante? Qual è la differenza tra queste due categorie e perché è importante? Chi sono i richiedenti asilo? Cosa si intende con l’espressione ‘sfollati interni’? I video spiegano anche da dove provengono i rifugiati e dove si trovano, quali sono i loro diritti e quali organizzazioni forniscono loro assistenza. Successivamente vengono offerti agli insegnanti tre pacchetti completi di materiali didattici adatti alle varie fasce d’età: i pacchetti per la scuola primaria si focalizzano sull’apprendimento di abilità socio-emotive (SEL) e propongono esclusivamente contenuti adatti a questa fascia d’età. I pacchetti per la scuola secondaria ampliano la terminologia relativa a rifugiati, asilo e migrazione e propongono attività di classe volte all’approfondimento dei saperi, alla costruzione dell’empatia, alla comprensione di fatti e cifre e, infine, allo sviluppo del pensiero critico. Gli studenti sono anche incoraggiati a fare ricerche e ad agire per sostenere i rifugiati stessi, se lo desiderano.
Il Kit, Insegnare il tema dei rifugiati, è stato adattato in italiano ed altre lingue dalla versione in inglese sviluppata da UNHCR a livello globale.
Foto in evidenza di UNHCR
Un articolo di Marta Bernardini su Nigrizia
Ricordare le vittime del 3 ottobre 2013 significa ricordare le 40mila persone che sono morte nel Mediterraneo negli ultimi dieci anni, i morti come quelli del 30 settembre 2013 a Sampieri, un’altra costa siciliana, e tutti i corpi ancora dispersi in mare. Dispersi che non verranno probabilmente mai recuperati, assenti ma presenti per i familiari che non possono piangerli. Tutto questo con l’amara certezza che altre persone continuano a morire.
Per cercare di restituire dignità e memoria, scegliamo di rivolgere il nostro impegno simbolico e politico ricordando, dando un nome e un volto dove possibile, perché le voci non siano più sempre solo le nostre.
Siamo e saremo a Lampedusa per denunciare quanto accade: chiediamo che non ci siano altri morti alle frontiere, altre persone costrette a subire violenze, torture, a dover fuggire dal loro paese, dall’Afghanistan alla Tunisia, fino alla Libia, ovunque siano. Crediamo nell’autodeterminazione delle persone e dei popoli, e che l’Europa si debba fare carico del diritto di ognuno ed ognuna a cercare una vita migliore, dignitosa, con sogni e desideri.
Servono corridoi umanitari, vie di accesso legali, serve che l’Europa condivida la responsabilità dell’accoglienza. E nel frattempo occorre che chi salva vite in mare lo possa fare nel migliore dei modi.
12.681 sono le persone arrivate dal 1 maggio al 31 luglio su questo piccolo lembo di Sicilia. Nel mese di agosto sono arrivate a Lampedusa 5.579 persone. Di queste, 3.773 sono partite dalle coste tunisine mentre 1.804 dalla Libia. Moltissime quelle respinte dalla cosiddetta guardia costiera libica e riportate in carceri infernali. Persone a cui vanno garantiti diritti, dignità, una possibilità di futuro.
Saremo a Lampedusa dunque – non solo in questi giorni ma tutti i giorni dell’anno – per ricordare le persone morte ma anche per continuare ad occuparci dei vivi. Donne, uomini, bambini e bambine che arrivano al molo, dopo giorni di navigazione in mare aperto. Ci guardano, spesso sembrano “morti viventi”, non ancora morti ma neanche pienamente vivi, de-umanizzati, camminano a stento.
Altre volte, con i loro sguardi, corpi dritti, affermano la loro determinazione, la resistenza alla violenza della frontiera, combattenti felici di avercela fatta. Sono sopravvissuti e sopravvissute, spesso all’orrore dei lager libici, altre volte allo sfruttamento delle risorse, altre ancora a crisi climatiche, politiche e democratiche di cui sappiamo sempre troppo poco.
Tutte queste riflessioni rientrano nel nostro impegno ecumenico, come chiese, ad essere dalla parte di chi è reso ultimo, a non voltare lo sguardo altrove, a dire che non sapevamo.
Alla commemorazione ecumenica in programma domenica 3 ottobre a Lampedusa sono intervenuti, tra altre voci, il pastore Luca Maria Negro, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia e monsignor Alessandro Damiano, arcivescovo di Agrigento, a partire da un passo biblico: Deuteronomio 4, 9-14.
Il filo rosso di questo brano è la memoria, un tema biblico fondamentale: nella Bibbia la memoria fa diventare coloro che ricordano dei contemporanei di coloro che vissero gli avvenimenti ricordati. Annulla cioè in qualche modo la distanza e si struttura non solo una solidarietà ma anche una immedesimazione nell’altro, nell’altra.
Il riferimento al mantenere viva la memoria indica inoltre un aspetto educativo e di testimonianza, la volontà di raccontare, di lasciare un segno per chi verrà dopo di noi. Diceva giustamente Greta Thunberg in questi giorni che «è ora di dire basta al bla bla bla» per le politiche sul clima, così strettamente connesse anche ai flussi migratori. Siamo d’accordo, il tempo è ora, per coltivare memoria e costruire così anche un futuro più umano.
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