Di Paolo Lambruschi, inviato a Bialystok (Polonia), su Avvenire
La lanterna verde è rimasta accesa, ostinatamente. Illumina la notte della foresta di Pogorzelce, dove inizia la zona rossa al confine dimenticato tra Polonia e Bielorussia, dove il filo spinato separa l’Europa dal fedele alleato della Russia di Putin. Un’altra frontiera di orrori e violenze più a Nord di quella con l’Ucraina, attraverso la quale provano a passare profughi siriani e curdi, afghani, yemeniti e africani in fuga da guerre e persecuzioni. Ma per loro l’Europa resta una fortezza.Li aveva invitati la Bielorussia del dittatore Lukashenko, concedendo visti turistici con passaggi in autobus verso il confine polacco per mettere in difficoltà l’Ue lo scorso autunno. A loro si sono uniti nelle ultime settimane gli stranieri in fuga da Mosca. Prigionieri nella terra di nessuno davanti al filo spinato che “Avvenire” il 15 novembre aveva denunciato nell’inserto “Se questa è Europa”.
Dall’altra parte le guardie bielorusse spingono questo esercito di disperati, per ora alcune centinaia, verso le barriere impedendogli di indietreggiare. La terra di nessuno è lunga centinaia di chilometri, fino alla Lituania e tra alberi e paludi di una meravigliosa riserva naturale sono morte questo inverno almeno 19 persone di freddo e stenti. Si teme siano molte di più. Ogni giorno si lotta in silenzio per non morire, raccontano gli attivisti polacchi in contatto telefonico con i profughi. Cosa succede lo rivela un video drammatico postato nei giorni scorsi su un canale youtube da una ragazza cubana che ha deciso con altri compagni di fuggire da Mosca.
«Sono rimasta bloccata tra il confine tra Polonia e Bielorussia. Se andiamo a destra o a sinistra, lasciano andare i cani e ci picchiano. Non mangiamo da quasi cinque giorni e siamo anche senz’acqua. Siamo in sei, due donne e quattro uomini. Stiamo cercando di arrivare in Polonia ma non ci fanno entrare. Siamo minacciati di morte in Bielorussia. Non si torna indietro».
Un rapporto di Human rights watch di novembre descriveva un quadro critico, ora è tutto peggiorato dal conflitto ucraino. Da febbraio nei boschi sono ripresi i passaggi con cinque chiamate di emergenza al giorno. Le guardie di Minsk sono sempre più spietate. Ma c’è anche altro. Circolano sulle pagine social di giornalisti curdi video di cadaveri di donne nude al confine lituano. Molti profughi raccontano di sparizioni di donne e bambini, su tutto aleggia lo spettro del traffico di organi. Nella notte tra sabato e domenica scorsi sono morte due persone. Uno era un giovane camerunense sbranato dai cani liberati dai doganieri bielorussi, L’altro, siriano, è morto annegato in un fiume in cui era stato costretto a entrare.
Zosia Krasnowolska di Hope and humanity risponde da remoto alle chiamate di emergenza dalla Bielorussia di chi è in difficoltà. Prova ad allertare soccorritori o attivisti. I profughi sono terrorizzati. Chi viene visto fotografare o filmare ferite violenze o decessi finisce infatti deportato nel bosco degli orrori senza telefono.«Alla fine di dicembre, poco dopo Natale, – racconta commossa – una donna irachena ha partorito in mezzo alle barbe del filo spinato. Me lo ha riferito un testimone. Lei e il bambino sono stati lasciati morire al freddo, nessuno è potuto intervenire».
Dall’altra parte le guardie polacche, come i francesi sul confine occidentale italiano, respingono famiglie con bambini piccoli. Ma dall’altra parte non c’è l’Italia. La mattina di domenica 13 marzo tre famiglie curde irachene sono state respinte in Bielorussia. Con loro un bimbo di tre anni. Zosia non riesce a scordare quattro curdi, padre e madre con due bambini di cui uno autistico rimasti 14 giorni alla frontiera e quasi morti di fame e freddo. «Volevano solo raggiungere l’Ue per curare il figlio».Anche Zosia ha notato l’aumento dei passaggi. «Per tre ragioni: il blocco dei trasferimenti in denaro che ha fermato gli aiuti dall’estero. L’aumento del flusso dei migranti da Mosca. Infine la propaganda del regime di Lukashenko che ha dato ordine di spingerli verso la Polonia e filmare i respingimenti per mostrare all’opinione pubblica interna che l’Ue è cattiva».
I profughi che possono permetterselo pagano un trafficante, nome in codice Mustafà, munito di molti passaporti, che in diverse case della capitale bielorussa Minsk e alla frontiera organizza viaggi a tappe. Ma chi finisce i soldi viene picchiato e torturato in diretta telefonica come nelle galere libiche per estorcere soldi ai parenti. Alcuni suoi prigionieri sono spariti.
Diverse centinaia di profughi rimasti in Bielorussia per sopravvivere all’inverno erano stati portati nella base logistica accanto alla dogana di Bruzgi, senza acqua e riscaldamento. Al 95% sono curdi iracheni ammassati in tende. I kapò bielorussi non esitano a stuprare le donne anche davanti ai mariti.
«Sono stati dimenticati – denuncia don Andrei Aniskevich, direttore di Caritas Bielorussia – dopo l’interesse iniziale di loro non parla più nessuno. Eppure sono in condizioni disperate». Caritas e la Croce rossa sono autorizzate a entrare due volte alla settimana per portare indumenti, medicinali e cibo per bambini. «Al momento ci vivono circa 800 persone – spiega il sacerdote – e ogni volta la distribuzione degli aiuti è un’esperienza drammatica».
Il conflitto rende urgente lo sgombero della base e molte di queste persone hanno figli disabili che non sopravviverebbero fuori. Nel lager c’è ad esempio una famiglia di curdi yazidi i cui bambini soffrono di deformazioni alla schiena impossibili da trattare da loro che comportano forti problemi articolari. O un ragazzo paraplegico iracheno che la famiglia non abbandonerà mai, un altro epilettico con paralisi cerebrale che cammina a fatica, un 13enne affetto da una grave forma di morbo di Crohn che peggiora con il rancio che i militari distribuiscono una volta al giorno. A Minsk gli attivisti sono anche riusciti a nascondere altri reduci della foresta vulnerabili o in pericolo di vita.
«Come 9 giovani siriani – 6 dei quali cristiani – obiettori di coscienza – riferisce l’attivista di Gandhi Charity Silvia Cavazzini che da novembre segue le tragedie del confine dimenticato – rischiano o di essere deportati in patria o lasciati in mano alla “4th military band”, siriani che supportano la Russia nella guerra contro l’Ucraina. Un iracheno con moglie, due figlie e un figlio di due anni con paralisi cerebrale. E un ragazzo curdo con una malattia auto degenerativa agli occhi cui le guardie bielorusse hanno rotto gli occhiali. E poi i cristiani convertiti». Anche l’amore è perseguitato, come quello di una coppia siriana – lei cristiana e lui musulmano- che devono nascondersi per sfuggire al rimpatrio.
Su 100 persone solo 10 ce la fanno, conferma Grupa Granica coordinamento di 14 ong umanitarie polacche che monitorano la crisi umanitaria. Sono in rete con gli attivisti locali che usano nomi in codice per non incorrere nel reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Possono muoversi nella zona rossa e lanciano oltre la frontiera generi di soccorso e coperte termiche oppure intervengono per salvare chi è sfuggito alle guardie polacche anche nascondendoli per brevi periodi nelle soffitte. Raccontano storie di cellulari rubati o spaccati dalle guardie, di ragazzi trovati in ciabatte di plastica e i piedi congelati, senza cibo nè acqua per giorni. L’Ue, che qualche centinaio di chilometri più a sud sta dimostrandosi all’altezza, deve intervenire perchè non esistono vite umane di serie b in Europa. Lo ricorda la lanterna verde all’inizio della foresta.
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Su Vita
In particolare le osservazioni e proposte riguardano il riconoscimento della protezione temporanea anche alle persone che sono fuggite dall’Ucraina nelle settimane precedenti il 24 febbraio 2022 o che comunque in tale data già si trovavano nel territorio dell’Unione (per vacanza, lavoro, studio o altri motivi) e che, a causa del conflitto armato, non possono ritornare in Ucraina; prevedere procedure semplificate per la verifica della cittadinanza ucraina dei richiedenti, del godimento della protezione internazionale in Ucraina, nonchè del legame famigliare o parentale dei familiari, dal momento che il conflitto in atto può impedire alle persone di dimostrare il possesso di tali requisiti in via documentale; di differire il termine per l’esame delle domande di riconoscimento della protezione internazionale prevedendo che il richiedente possa intanto beneficiare comunque del regime di protezione temporanea; prevedere modalità semplificate e veloci per consentire un allontanamento temporaneo dal territorio nazionale dei beneficiari di protezione temporanea, nonchè dei cittadini/e ucraini/e presenti in Italia ancora in attesa della definizione della procedura di emersione; riconoscere la protezione temporanea anche a cittadini di paesi terzi che soggiornavano in Ucraina e che non possono ritornare in condizioni sicure nel proprio paese di origine; ampliare il sistema di accoglienza e integrazione, in particolare il sistema SAI, anche sostenendo concretamente le forme di “accoglienza esterna” (per esempio in famiglia) nell’ambito del sistema pubblico; coinvolgere il Tavolo Asilo e Immigrazione nella definizione degli strumenti operativi e legislativi che definiranno le modalità di gestione dell’accoglienza nel nostro Paese.
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Di Tiziana Ferrario su Articolo 21
In vista dell’ 8 marzo il mio pensiero va a tutte le donne rifugiate costrette a lasciare le proprie case e fuggire dalle guerre con i propri figli. Succede in Ucraina che è sulle nostre prime pagine, ma succede anche in Africa, in Medio Oriente, in Afghanistan e in tante aree dimenticate del pianeta. Le guerre portano solo dolore e non ci sono guerre più importanti delle altre.
Da un giorno all’altro oltre 82 milioni di civili in questi anni si sono ritrovati sradicati dai loro affetti. A loro in questi giorni si sono aggiunti gli ucraini vittime dell’aggressione russa. La più imponente migrazione di rifugiati mai vista nel cuore dell’ Europa. Uomini che restano a combattere, donne che portano in salvo quelli che hanno di più caro, i loro figli. Quando scoppiano le guerre le donne sono quelle che pagano un prezzo altissimo, spesso stuprate per umiliare il nemico.
È lacerante quello che accade fuori dai nostri confini, ma non possiamo mobilitarci solo quando abbiamo paura, perché le bombe stanno cadendo non lontano da noi e le donne con i loro bambini in fuga sono bianche bionde con gli occhi azzurri e vestono come noi. Non possiamo guardare dall’altra parte quando ad avere bisogno di aiuto sono persone che sentiamo lontane geograficamente e diverse esteticamente e culturalmente.
Il fatto che Trieste sia più vicina a Leopoli che a Catania non può farci ignorare il fatto che la pace su questo pianeta si costruisce tutti insieme e che se facciamo finta di ignorare le ingiustizie e le disuguaglianze che accadono ad altre latitudini prima o poi il conto ci verrà presentato.
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Di Fatou Diako su Articolo 21
Nel clima mediatico (e purtroppo pienamente giustificato) della paura collettiva generata dalla crisi ucraina, sembra andare sempre di più diversificandosi il concetto della diaspora, derivante da un significato etimologico comune di fuga o dispersione di un “popolo” o delle sue istituzioni nel mondo.
Se è vero che i conflitti, soprattutto se di violenza indiscriminata, e vicino casa nostra, come quello odierno, stimolano i più atavici timori e si stemperano tiepidamente soltanto nel conforto dell’accoglienza suggerita dalla “pietas” per i più deboli e dall’empatia per le sofferenze umane, è altrettanto vero che fino a poco tempo, nella nostra generale ottusa ignoranza, se si comprendeva in qualche modo che le migrazioni hanno (e hanno avuto nel tempo) origini e natura diversa, corrispondentemente alle differenti situazioni geopolitiche di provenienza, apparivano comunque tendenzialmente univoci il sentimento e l’espressione di quella pietas, che vuole abbracciare il più debole, come concetto o categoria generale, per non farne più distinzione con il sè e con gli altri. Non si è trattato in questo di una banalizzazione dei concetti e delle categorie, ma di una esternazione autentica di un antico senso di compassione umana, che appunto trae origine dalla consapevolezza e ricognizione di sofferenze e debolezze che appartengono indistintamente all’uomo come individuo. Da tale consapevolezza si è sviluppata l’esternazione dell’empatia, nel riconoscimento di una dignità che mai deve essere negata.
Ora, la crisi ucraina con la fuga di massa dei disperati ci sta mettendo di fronte ad uno stravolgimento di quanto sopra indicato e dello stesso concetto di umana compassione. L’empatia nostra non sembra più muoversi indistintamente verso i profughi, o il profugo inteso come individuo destinato alla dispersione, sua, di una collettività originaria, o identitaria, ma comunque degna di attenzione, ascolto e tutela, ma pare perseguire un assurdo ondeggiare suggerito da criteri discriminatori. La guerra che strazia un territorio, non è più la guerra di quel territorio, in grado di ospitare, fino a un certo momento, non un popolo, ma le popolazioni che lo abitano anche se non necessariamente autoctone. È, o sembra essere, la guerra contro i diritti degli ucraini, cui giustamente si volge il nostro sguardo affettuoso, ma solo verso questi appare muoversi l’attenzione, nella generale commozione collettiva, sprezzante degli altri. Ma che ne è di quei profughi, già profughi in terra ucraina e oggi straniti, smarriti e disconosciuti dal mondo? Come non ammettere che la migrazione della migrazione “non è ammessa” o non sempre tollerata? Forse le nostre limitazioni mentali, che ci fanno tendere alle eccessive semplificazioni non sono in grado di cogliere le sfumature delle migrazioni, dei loro caratteri. Nella nostra semplificazione eccessiva, e banalizzazione, del concetto di diaspora, non solo non vediamo le diaspore, ma le discriminiamo, addirittura, lasciandole fuori dall’accoglienza, bloccandole ai confini, facendo differenze che offendono l’uomo vulnerato, non riconoscendolo più come tale, destinandolo all’oblio, mediatico e sociale.
Questa lunga osservazione gira sull’idea di fondo che l’accoglienza è di tutti e per tutti; certamente sarà più facile la via della salvezza per la middle class munita di passaporto, ma come tale categoria non deve essere discriminata perchè in qualche modo già privilegiata, non deve discriminarsi nemmeno il povero o il profugo dell’Ucraina o il passeggero di turno, l’uomo del transito. L’accoglienza, si diceva, è per tutti; è la nota che accorda e consente l’uguaglianza, sociale e sostanziale, che si fa portavoce e portatrice di diritti e di tutele… In fondo, è questione di pietas…
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Di Giovanni Maria Del Re su Avvenire
Dopo una difficile giornata di discussioni, alla fine i ministri dell’Interno Ue hanno trovato l’accordo unanime sull’attivazione, per la prima volta in assoluto, della direttiva Ue per la protezione temporanea del 2001, sia pure con un compromesso per accontentare i Paesi dell’Est. «Accordo storico. L’Ue garantirà protezione temporanea a coloro che fuggono dalla guerra in Ucraina. L’Ue è unita e solidale» ha esultato via Twitter il ministro dell’Interno francese, Gérald Armanin, presidente di turno, al termine del Consiglio straordinario, cui ha partecipato in video anche il ministro dell’Interno ucraino, Denis Monastirski. «Dobbiamo essere soddisfatti – ha dichiarato la titolare del Viminale, Luciana Lamorgese – per l’attivazione di questa direttiva» che «è un’attivazione in linea con tutta l’attività posta in essere dall’Europa» di fronte alla guerra in Ucraina. «Ancora una volta – ha commentato anche Palazzo Chigi – la risposta dell’Ue è stata pronta, rapida, solidale e unita».
Fino al pomeriggio pochi ci speravano. «Se avessimo l’accordo oggi (ieri, ndr) sarei sorpresa positivamente – ammetteva, arrivando alla riunione, la commissaria agli Affari Interni Ylva Johansson –. Non abbiamo avuto il tempo di fare le necessarie consultazioni con gli Stati membri, quindi ci vorrà ancora qualche giorno». A bloccare l’intesa, il fatto che nella proposta della Commissione la protezione temporanea si applicava anche ai cittadini non ucraini residenti di lunga data (per quelli temporanei è previsto il rimpatrio). Inaccettabile per i Paesi di frontiera, Romania, Slovacchia, Ungheria e Polonia, cui ieri si è aggiunta anche l’Austria.
Dopo ore di stallo, Parigi, pur di incassare l’accordo, ha tagliato il nodo gordiano accontentando i Paesi recalcitranti. «Per i cittadini non ucraini o apolidi – si legge nell’articolo 2 modificato del testo della decisione di attivazione – che possano provare di esser legalmente residenti in Ucraina» e «che non sono in grado di ritornare al Paese di origine in condizioni sicure e stabili, gli Stati membri applicheranno o questa decisione (dunque le norme Ue, ndr) o uno status adeguato nel quadro della legislazione nazionale». Tradotto: per i non ucraini, ogni Stato membro potrà decidere liberamente se applicare le norme Ue o le proprie nazionali. Cedimento che ha di colpo sbloccato il negoziato. La presidenza francese era ansiosa di non dare l’impressione di una rottura di quella straordinaria compattezza che fin qui ha mostrato l’Ue di fronte alla guerra in Ucraina.
Probabilmente già oggi verrà formalizzato il testo che, all’articolo 1, certifica «l’esistenza di un afflusso di massa nell’Unione». In base alla direttiva, i profughi ucraini potranno restare legalmente in uno Stato Ue per un anno, prorogabile fino a tre, senza dover chiedere l’asilo. Questione cruciale, vista anche la massa in arrivo: a ieri erano giunti in Europa un milione di profughi.
«Si parla – ha detto Lamorgese – di 7-8 milioni di persone che usciranno dall’Ucraina e andranno nei vari Paesi Ue». Ricorrere alle normali procedure di asilo, oltre a ingolfare i rispettivi sistemi nazionali, ha spiegato Johansson, «avrebbe anche portato a lunghe attese», mentre con la direttiva gli ucraini possono da subito cercare casa e lavoro, andare dal medico o mandare i figli a scuola. Anche se, ammette la commissaria, «non siamo ingenui, i problemi ci saranno, ma siamo in una posizione migliore rispetto alla crisi del 2015».
Non si parla invece per ora di ridistribuzione. «Non è una situazione paragonabile al 2015-16» ha detto il vice presidente della Commissione Margaritis Schinas, oltretutto «le persone si ricollocheranno da sé, stabilendosi dove credono»: da tempo l’Ue ha soppresso l’obbligo di visto per i cittadini ucraini, che possono entrare con un passaporto biometrico (la Commissione ha soluzioni anche per gli ucraini sprovvisti di questo documento) e muoversi liberamente per un massimo di 90 giorni come turisti. Per il tempo successivo scatta la direttiva.
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Su Avvenire
Accuse di discriminazione razziale. Sugli autobus al confine tra Ucraina e Polonia, nelle stazioni dei treni, dentro i campi improvvisati per l’accoglienza. Nei giorni dell’apertura delle frontiere da parte dei Paesi di Visegrad, per lasciar spazio all’ondata di profughi in arrivo dall’ex repubblica sovietica, arrivano pesanti imputazioni a carico in particolare delle autorità polacche. Le voci sono state raccolte dalla stampa internazionale e dai social media e puntuale è arrivata la smentita di Varsavia.
«Ci hanno detto “No Blacks“, e ci hanno fatto scendere dal bus che stava attraversando la frontiera con la Polonia. A me, alla mia famiglia e ad altri immigrati» ha raccontato un attivista nigeriano, padre di tre figli, all’Indipendent. «Mio nipote, cittadino del Marocco, è stato respinto alla frontiera tra Ucraina e Polonia. Dopo varie peripezie, con tutta la documentazione, stava tentando di fuggire dall’Ucraina ed entrare in Polonia per prendere un aereo e tornare a casa» ha denunciato una donna italiana su Twitter.
Quanto stanno documentando alcuni inviati, al momento, è soprattutto un diverso trattamento, a seconda del colore della pelle. Razzismo a tutto tondo, in parole povere.
L’ambasciatrice polacca in Nigeria, Joanna Tarnawska, ha però smentito gli atti discriminatori. «Tutti ricevono uguale trattamento. Posso assicurare che ho rapporti sul fatto che alcuni nigeriani hanno già attraversato il confine della Polonia», ha spiegato ai media locali.
Le denunce di razzismo si stanno però diffondendo di ora in ora su Twitter e sugli altri social sotto l’hashtag #AfricansinUkraine. A pesare sarebbe soprattutto il limbo, fisico e giuridico, in cui verrebbero collocati i migranti originari dell’Africa rispetto alle persone nate nell’Est Europa. «Stanno dividendo profughi di serie A e di serie B. È una vergogna».
Nel territorio che separa l’Ucraina dalla Polonia, si stanno riversando dall’inizio del conflitto centinaia di migliaia di cittadini in fuga dalle esplosioni e dai bombardamenti. I primi post e video di denuncia sono comparsi settimana scorsa sul profilo Twitter della dottoressa Ayoade Alakija, inviata speciale dell’Oms per l’emergenza Covid. Nelle immagini dei video si vedono africani, in fuga insieme a centinaia di migliaia di ucraini, davanti ai fucili puntati della polizia di confine che decide chi far entrare e chi no in Polonia, e quindi in Unione Europea.
Sul tema, smentito come detto dall’ambasciatrice polacca in Nigeria, le autorità del Paese africano hanno sollecitato i funzionari governativi polacchi al confine a trattare in modo uguale tutti i profughi e i richiedenti asilo provenienti dalle città ucraine.
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Di Annalisa Camilli su Internazionale
“C’erano bombe giorno e notte, carri armati per strada”. Ha il viso segnato dalla stanchezza, ancora fatica a parlare quando ripensa alle sirene e alle urla che l’hanno svegliata la mattina che Kiev, la sua città, è stata bombardata. Ha detto ai genitori che non poteva più sopportare quella paura: è un’ossessione che ancora la immobilizza, anche adesso che è in salvo.
È scappata il 26 febbraio, portando con sé qualche vestito, delle fotografie e la sua gatta, Musa. Nataliia Lyha ha 26 anni, lavorava in un call center, viveva con sua madre e suo padre nella capitale ucraina e ora è sulla banchina della stazione ferroviaria di Przemyśl, in Polonia. Ci è arrivata prendendo tre treni che hanno percorso i cinquecento chilometri che separano la capitale ucraina dal confine polacco.
“Erano pieni di persone, di bambini, di famiglie. Sono scioccata”, racconta. Il suo fidanzato è in Crimea e sta cercando di raggiungerla, vorrebbero andare insieme in Germania per trovare un po’ di pace. Ha una sciarpa al collo e uno scaldaorecchie per ripararsi dal freddo, mentre le temperature stanno scendendo sotto lo zero e al valico di confine sono caduti i primi fiocchi di neve. Sono quasi tutte donne le passeggere scese dal treno che collega Leopoli a Cracovia, alcune arrivano da Kiev e sono in viaggio da giorni, sono accalcate sulla banchina: c’è un via vai di volontari polacchi, coordinati dai vigili del fuoco e dall’esercito che distribuiscono cibo, bevande calde, vestiti, organizzano l’accoglienza e gli spostamenti.
Gli aiuti arrivano da tutta la Polonia. Una donna ha un cartello in mano, con una scritta in ucraino: “Offro ospitalità a otto persone a casa mia”. Nataliia Lyha le si avvicina, le chiede aiuto. Si chiama Ludmilla Kolosowa, è ucraina, ma vive a Katowice, a quattro ore di macchina dal confine. È venuta per dare ospitalità ai profughi: “Ho un figlio che sta combattendo a Odessa, ho paura per lui, sono qui per dare una mano, offrire da dormire è l’unica cosa che posso fare”. Lyha con la sua gatta saranno ospitate da Ludmilla Kolosowa. “Per un paio di giorni potrò riposare, poi vedremo cosa fare”, afferma Lyha
Anche Maria Dmytryshyn, 16 anni, e sua madre dormiranno a casa della donna ucraina che vive in Polonia. Sono scappate da Leopoli e ci hanno messo un giorno per percorrere una tratta ferroviaria che di solito si fa in due ore. Dmytryshyn è una studentessa, ha portato con sé dei libri e delle foto. “Ho dovuto lasciare quasi tutto a casa, siamo andate vie di corsa”, spiega. Suo padre è rimasto a Leopoli, perché dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina nel paese è in vigore la legge marziale e tutti gli uomini tra i 18 e i 60 anni non possono andarsene, così molti di loro portano la famiglia in salvo nei paesi limitrofi e poi tornano indietro a combattere. Maria Dmytryshyn vuole andare a Varsavia e poi provare a studiare o a lavorare. “Non potevamo rimanere a casa, era troppo pericoloso”, racconta. Ha lasciato suo padre, sua nonna e il suo cane che si chiama Conchiglia. “Torneremo a prenderli appena ci sistemiamo”.
Ci sono file di ore ai valichi di frontiera con la Polonia. Una volta attraversato il confine i profughi trovano ad aspettarli amici o semplici conoscenti, ma anche sconosciuti che sono pronti ad accoglierli nelle loro case. C’è una pagina Facebook in polacco e ucraino in cui si offrono posti letto, passaggi in auto private, aiuti di ogni tipo per i profughi che sono al confine.
Stanno arrivando organizzazioni umanitarie e volontari da tutta Europa in Polonia per gestire quella che è già una nuova emergenza umanitaria. Necip Arslann è arrivato da Norimberga in macchina. Insieme a sua moglie ha fatto un gruppo whatsapp per raccogliere beni di prima necessità da portare in Polonia: “Abbiamo caricato la macchina più che potevamo e sono venuto qui, ma intendo tornare con la macchina piena di persone”, afferma, mentre al parcheggio degli autobus sventola un cartello con scritto “Germany”.
La Caritas Polonia ha allestito delle tende nel parcheggio degli autobus. “C’è tanta di quella gente, arrivano a tutte le ore, le persone stanno dormendo nelle scuole, qui distribuiamo bevande e cibo”, racconta Caroline Samp, un’operatrice della Caritas locale. “Ma abbiamo anche tante persone che arrivano qui per portarci cose per i profughi, spuntano persone dovunque ad aiutarci, è incredibile questa solidarietà”.
Solo qualche mese fa, i profughi iracheni e siriani che arrivavano al confine tra Polonia e Bielorussia erano respinti con violenza dalle guardie di frontiera polacche, invece il 27 febbraio il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha annunciato che Varsavia è pronta ad accogliere i profughi ucraini a braccia aperte.
Il 28 febbraio l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) Filippo Grandi ha annunciato che cinquecentomila ucraini hanno lasciato il loro paese e sono entrati in Polonia e negli altri paesi limitrofi come Romania, Ungheria, Moldova e Slovacchia. Ma i numeri potrebbero continuare a crescere nelle prossime ore. Secondo le stime, potrebbero lasciare il paese quattro milioni di persone: sarebbe l’arrivo più intenso di profughi in Europa nella storia recente, superiore anche alla cosiddetta crisi dei rifugiati quando un milione di siriani sono arrivati in Europa attraverso la rotta balcanica.
Ma questa volta l’atteggiamento dei paesi dell’Unione europea, soprattutto di quelli dell’Europa orientale, sembra essere cambiato: Polonia, ma anche Ungheria e Romania hanno detto che chi scappa dalla guerra in Ucraina sarà accolto senza problemi. Ma molti criticano il doppio standard dell’accoglienza applicato in base alla provenienza delle persone. Alcuni studenti africani che stavano scappando dall’Ucraina insieme a migliaia di cittadini ucraini hanno denunciato di essere stati respinti e picchiati dalla polizia di frontiera polacca.
Vitriana Liana è tra quelli che nutre dei dubbi sull’equità di questo sistema: è originaria di Luanda, in Angola, ha vissuto per otto anni a Kiev dove ha studiato e dove è nata sua figlia. Quando sono cominciate a cadere le bombe sulla capitale ucraina è scappata: “Credevo di morire, non ho portato via niente. Volevo solo andare via il prima possibile”. Ora dorme nella palestra della scuola primaria 14 di Przemyśl, allestita con le brande da campo per i profughi. È con sua figlia di cinque anni e suo marito. Ha paura che non le sarà riconosciuta nessuna forma di protezione. “Ci tratteranno come gli altri? Temo che ci rimandino in Angola, ma la mia vita è qui, mia figlia è nata qui”.
Ma l’annuncio più eclatante è venuto dalle autorità europee: il 27 febbraio al termine di una riunione dei ministri dell’interno dell’Unione è stato annunciato che Bruxelles potrebbe attivare una direttiva (55/2001) che non è mai stata usata prima per garantire una protezione temporanea ai profughi ucraini per tre anni: in questo modo non sarebbe necessario per loro chiedere l’asilo, ma potrebbero muoversi e lavorare senza problemi all’interno dell’Europa. La decisione deve essere presa dal consiglio europeo del 3 marzo. Un’azione che, se estesa a tutti i profughi senza distinzioni, potrebbe imprimere una svolta alle politiche migratorie europee.
Foto in evidenza di Michael Kappeler, Picture-Alliance/Dpa/Ap/LaPresse
Di Pierfrancesco Curzi su Il Fatto Quotidiano
“Chiedo all’Italia di aiutarci a uscire da questo inferno, per noi non c’è futuro qui in Afghanistan, come giornalisti e come uomini”. L’appello al Fattoquotidiano.it di Jawad, giovane documentarista di Kabul, risale all’inizio del settembre scorso, all’indomani del ritorno al potere dei Talebani che ha spazzato via vent’anni di vano tentativo da parte dell’Occidente di ‘salvare’ l’Afghanistan. Ora, dopo una vera e propria odissea lunga cinque mesi e mezzo lui e sua sorella Yasmin (preferiamo utilizzare nomi di fantasia in quanto i due giovani sono richiedenti protezione internazionale e a rischio vita nel loro paese, dunque è opportuno non identificarli) sono finalmente arrivati in Italia con un permesso umanitario e non attraverso i ‘corridoi’ e la cosa, giuridicamente, cambia tutto e rappresenta un precedente importante.
Di lui e di un suo collega il Fattoquotidiano.it aveva raccolto il grido d’aiuto, ma mentre un suo collega giornalista era riuscito quasi subito a lasciare il Paese centrasiatico grazie al regista e produttore Khyber Khan, per Jawad e sua sorella Yasmin l’incubo si è concluso soltanto lunedì pomeriggio alle 13 con l’arrivo a Malpensa del volo partito da Islamabad via Doha: “Non ci credevamo più – tira un sospiro di sollievo Jawad -, più volte siamo stati sul punto di mollare tutto, rientrare a Kabul e aspettarci di tutto. L’attesa per il visto e la documentazione dall’Italia è stata infinita e logorante, mentre noi ci ascondevamo in Pakistan dove siamo stati costretti a fuggire per non finire nelle mani dei Talebani. Ho temuto soprattutto per la tenuta psicofisica di mia sorella, per i miei genitori che vivono a Kabul, preoccupati che non ce l’avremmo fatta. Ora dico grazie all’Italia e ai tanti che hanno contribuito alla nostra salvezza”.
Jawad, 25 anni e Yasmin, 23, ora sono in salvo a Milano e trascorsa la quarantena anti-Covid, obbligatoria per chi è in arrivo da Paesi di fascia E come il Pakistan, inizieranno la loro nuova vita in Italia. Afghanistan e Pakistan, il destino di fratello e sorella si è legato indissolubilmente ai due Paesi, tra fughe e nascondigli, visti prenotati e permessi ottenuti attraverso il pagamento del ‘pizzo’ che manda avanti la vita a quelle latitudini. Il tutto mentre in Italia gli avvocati dell’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, e una libera professionista milanese, Elena Orlandini che li sta ospitando, si facevano in quattro per salvare la vita a Jawad e Yasmin.
A gennaio, quando tutto sembrava risolto, un inghippo a livello giuridico sembrava potesse far saltare il piano: “È stata durissima ma adesso la gioia per questo risultato è immensa. La causa a Tribunale di Roma non è ancora conclusa, ma ciò che contava era portare i due ragazzi in Italia”. A parlare è Nazzarena Zorzella, esperta legale di Asgi e alla base del successo giudiziario di cui avevamo raccontato gli intoppi a inizio anno: “Oltre ad aver salvato Jawad e Yasmin e dato loro la chance di un futuro migliore, c’è l’aspetto determinante del modo in cui siamo riusciti a portarli in Italia – aggiunge l’avvocato Zorzella -. Non attraverso i ‘corridoi’ o con dei visti particolari, studio, turismo e così via, ma con un visto umanitario individuale. Abbiamo dimostrato che queste persone erano a rischio incolumità e qui in Italia potranno godere di un supporto per il loro inserimento e l’integrazione. Ciò rappresenta un precedente importante che potrebbe modificare i destini di tanti migranti che si trovano in pericolo in varie parti del mondo facendo valere i loro diritti. È una grande vittoria e una gioia non indifferente”.
In effetti all’inizio di gennaio il Tribunale di Roma aveva emesso un’ordinanza che dava il via libera all’accoglienza dei due afghani con un visto umanitario, ma l’Avvocatura dello Stato si era opposta, bloccando l’iter e rendendo loro la vita un infermo senza fine. Jawad e Yasmin si stavano nascondendo in Pakistan e aspettavano solo il via libera per salire su un aereo e lasciarsi alle spalle la paura: “Avevamo fatto richiesta del visto pakistano, ma le cose da quelle parti non sempre funzionano – aggiunge Jawad che poi riassume la follia degli ultimi mesi del 2021 -. Non potevamo girare per Islamabad, se la polizia ci avesse fermato avremmo rischiato di essere deportati in Afghanistan e tutto sarebbe saltato. A settembre siamo stati contatti da Elena Orlandini e poi dagli avvocati di Asgi per avviare il percorso che ci imponeva di scappare dal paese e andare in Pakistan. Per farlo siamo dovuti scendere a sud e attraversare il confine al valico di Spin Boldak: era l’8 dicembre scorso. Da Quetta invece di riprendere verso nord, lungo il confine reso pericoloso da decine di check-point, siamo andati a Karachi (la città portuale più popolosa del Pakistan, ndr.) e poi ci siamo rimessi in viaggio verso la capitale Islamabad. Lì abbiamo atteso il nostro destino”.
Sono state settimane di tensione, fino a quando dall’Italia, anche attraverso la sua ambasciata a Islamabad, e dall’Asgi è arrivato il via libera. Mancava un ultimo documento e un’ultima prova per fratello e sorella: dovevano rientrare in Afghanistan per vedersi apposto un francobollo sul loro visto. L’unica alternativa era attraverso il pericolosissimo passo Torkham lungo la Grand Trunk road che collega la provincia afghana di Nangarhar (area dov’è diffusa la presenza dell’Isk, Islamic State of Khorasan,l’Isis in Afghanistan) e quella pakistana del Khyber Pakhtunkhwa: “Il 16 febbraio scorso – è il ricordo fresco del 25enne giornalista -, pare una vita ma in realtà è appena una settimana fa, una volta entrati sul fronte afghano della frontiera abbiamo ottenuto quel documento, ci siamo rimessi in fila in mezzo a centinaia di persone e sperato che i Talebani non ci fermassero. In fondo basta pagare, tutto ha un costo. Negli ultimi cinque mesi solo per i permessi e i transiti ho dovuto sborsare 2mila dollari. La corruzione dilaga sempre più, i Talebani sono troppo stupidi per capire chi va dove e perché, mentre il Pakistan sta succhiando il sangue degli afghani in fuga dall’Emirato. Per noi contava solo superare quell’ostacolo e ce l’abbiamo fatta”. Jawad e sua sorella sono in Italia da poche decine di ore e già hanno iniziato a fare pratica con la lingua, le abitudini e la cultura, mangiato pasta e goduto il piacere di un gelato. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza la determinante ostinazione di Elena Orlandini, libera professionista con interessi nel settore del turismo.
Una cittadina che si è presa a cuore le sorti di persone che neppure conosceva e l’inizio di questa storia ha dell’incredibile: “In quei giorni infernali di agosto seguivo l’evoluzione della crisi afghana attraverso i reportage del network di Khyber Khan che raccontava in tempo reale cosa stava accadendo a Kabul. Vidi in diretta la troupe giornalistica aggredita dai Talebani a colpi d’arma da fuoco (quell’episodio Jawad lo raccontò al Fatto.it, ndr.). Immagini scioccanti – spiega la Orlandini -. Mi sono apparsi come degli eroi perché raccontavano sul posto il dramma di un popolo, incuranti del pericolo. In quel preciso momento ho capito che dovevo fare qualcosa anche se non sapevo da dove partire e come muovermi. All’inizio ho preso tutto quasi alla leggera, poi le cose sono andate avanti e l’ansia è andata crescendo man mano che entravo in simbiosi con i ragazzi. Non potevo più tirarmi indietro, deluderli, anche se il compito sembrava improbo. A farmi coraggio attorno a me le tante persone che hanno collaborato, da Asgi ovviamente che ha seguito la causa, a Pangea che ha aiutato i ragazzi in Pakistan. L’ultimo mese è stato terribile, scandito da notti insonni e l’ansia del fallimento. Ora sono con me, li aiuterò a ripartire in questa seconda vita e una volta ottenuto lo status di rifugiato chiederemo il ricongiungimento familiare”.
Foto in evidenza su Il Fatto Quotidiano
Di Maurizio Ambrosini su Avvenire
Sono passati trent’anni dall’approvazione dell’attuale legge sulla cittadinanza, la legge 91 del 5 febbraio 1992. Già allora l’Italia si era scoperta multietnica, soprattutto per effetto dell’ampio dibattito attorno alla legge Martelli del 1990 e alla sanatoria correlata. Eppure, la reazione del sistema politico, pressoché unanime, fu quella di guardare al passato, riconoscendo una serie di diritti a figli e nipoti degli antichi emigranti italiani, guardando con favore ai concittadini della Ue (che, pure, della cittadinanza italiana non avevano bisogno), ma raddoppiando il tempo richiesto per diventare cittadini agli immigrati provenienti da Paesi extracomunitari: da cinque a dieci anni.
Nemmeno il fascismo aveva preso una misura del genere, essendo la legge precedente (quella dei cinque anni) in vigore dal lontano 1912. Il fatto che nella maggior parte dei Paesi dell’Europa Occidentale (Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Svezia…) oltre che negli Usa, vigesse la soglia dei cinque anni non scalfì l’improvvisa sete di italianità ancestrale dei nostri legislatori, trascinati all’epoca dalle argomentazioni parlamentare missino Mirko Tremaglia.
Iniziarono tempi duri anche per i figli degli stranieri residenti: la legge riconosceva loro la cittadinanza solo al compimento della maggiore età, a patto che – nati qui – fossero sempre vissuti in Italia. Sei mesi passati, anche in tenera età, coi nonni nel paese di origine della famiglia o, più grandi, all’estero per un qualsiasi motivo bastavano a sbarrare la strada.
Da allora molti flussi di persone sono passati attraverso frontiere, sanatorie, dinamiche familiari. La popolazione immigrata, stagnante nei numeri da circa dieci anni, si è attestata poco sopra i cinque milioni di persone, in prevalenza donne. È composta oggi prevalentemente di famiglie ricongiunte, in cui vivono circa un milione di minorenni. In altri Paesi europei, come Germania, Spagna, Grecia, nel frattempo le norme sono state riformate in senso più favorevole agli immigrati, sebbene con cautela.
Lo Ius soli automatico, alla nascita, per tutti, non esiste più in nessun Paese europeo, ma le norme complessivamente vanno incontro al desiderio d’integrazione delle nuove generazioni. In Spagna per chi nasce sul territorio è sufficiente un anno di residenza. In Germania si applica lo Ius soli a condizione che almeno uno dei genitori sia residente da almeno otto anni e in possesso di un permesso a tempo indeterminato. In Grecia è stata introdotta una forma di Ius culturae: cittadinanza a chi ha frequentato almeno sei anni di scuola.
Solo l’Italia è rimasta ferma al palo, prigioniera di un dibattito insieme ideologico e dominato dalla paura di un’«invasione» mai avvenuta. Deteniamo ora il poco invidiabile primato di Paese più restrittivo dell’Europa occidentale sulla materia. Anche ai legislatori idealmente più aperti a una ragionevole riforma – quella, a suo tempo, definita dello Ius culturae con elementi di Ius soli temperato – manca il coraggio di affrontare un dibattito pubblico in cui temono di essere sovrastati dalle urla di chi griderebbe al «tradimento» di un’identità italiana basata sul sangue (e rivolta sostanzialmente al passato).
Anzitutto, nonostante norme tanto sfavorevoli, un volume di cinque milioni di residenti stranieri, ormai insediati da anni, produce naturalmente ogni anno un numero consistente di candidati eleggibili per la naturalizzazione. Gli ostacoli non mancano (ricordiamo che il Ministero dell’Interno mantiene un potere discrezionale sulla materia, e può bastare molto poco per vedersi rigettare l’istanza) e i tempi sono lunghi.
Molti si scoraggiano, ma un bel numero di domande di cittadinanza ogni anno vanno in porto: 132.736 nel 2020, pari al 26,4 per 1.000 stranieri residenti. In secondo luogo, un numero considerevole di neo-cittadini si serve del nuovo passaporto italiano (ed europeo) per compiere una nuova emigrazione. Si prende la via di Paesi più promettenti: 228.000 nel decennio 2010-2019, su un totale di 898.000 (Dossier immigrazione 2021). Paradossalmente, chi vorrebbe veder diminuire il numero degli immigrati dovrebbe facilitare la loro naturalizzazione. In terzo luogo, come osservano Salvatore Strozza, Cinzia Conti ed Enrico Tucci su ‘Neodemos’, non è affatto detto che tutti gli stranieri residenti facciano la fila per diventare italiani appena se ne dischiuda l’opportunità.
Vivono in Italia oltre 1,1 milioni di stranieri con un’anzianità di presenza di oltre 15 anni che non hanno acquisito la cittadinanza. Ed è giusto che sia così: diventare cittadini dovrebbe essere una scelta, non una condizione per accedere a qualche diritto in più. Da questo punto di vista, il fatto che l’impiego pubblico continui a essere precluso agli stranieri, persino ai medici e infermieri in tempi di Covid, ha l’effetto paradossale di spingere verso la cittadinanza chi magari preferirebbe farne a meno.
Resta il paradosso di ragazzi a cui si chiede di studiare lingua, letteratura, storia, geografia e Costituzione italiane, per centinaia di ore all’anno, ma a cui si chiudono le porte della piena appartenenza nazionale, come minimo fino ai 18 anni. Ragazzi che poi scoprono l’inconveniente di essere ‘stranieri’ a casa loro quando vorrebbero andare in gita all’estero con i compagni, oppure praticare uno sport agonistico, e soprattutto quando si affacciano al mercato del lavoro, dove un numero innaturale di datori richiede la cittadinanza come requisito per l’assunzione.
Siamo in un anno pre-elettorale e gli slogan e le cattive approssimazioni minacciano ancora una volta di prevalere sulla realtà e sulla ragione. Abbiamo ancora molta strada da percorrere per diventare un Paese capace di consentire una vita normale a chi lo abita e lo vorrebbe riconoscere come sua patria. E per valorizzare tutto intero il suo patrimonio umano.
Immagine in evidenza su pixabay
Di Simone Alliva su L’Espresso
Il mese è quello di maggio 2021, primi segni di “ritorno alla normalità”. Fine dei lockdown e locali che riaprono. Zaihra, ragazza trans di 21 anni, aspetta una sua amica in piazza Currò, centro di ritrovo per i giovani catanesi. Un ragazzo la fissa mentre lei parla al telefono. Poi le si avvicina e le sferra un pugno in faccia. Sviene e nessuno interviene. Occhio gonfio e mascella rotta.
Nel mese di ottobre a Roma il quartiere di San Lorenzo ritorna a pulsare tra bar e discoteche, Jamilton, romano di 26 anni con origini brasiliane esce da un locale verso le 2 di notte, saluta gli amici e si avvia verso la macchina. Prima gli insulti: «Guarda se sto negro de merda m’ha rubato er cellulare, mo lo pisto». Poi un branco di quattro uomini lo circondano, gli spaccano una bottiglia in testa e lo massacrano intonando in coro: «Brutto negro».
Omotransfobia, razzismo, abilismo, antisemitismo le voci che si uniscono per denunciare il clima di violenza montante vengono raccolte dall’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio). Da 913 episodi di discriminazione del 2020, si è passati a 1.379. Con un dettaglio non da poco conto: i dati visionati e pubblicati in anteprima da L’Espresso registrano un balzo di aggressioni fisiche rispetto all’anno precedente.
Con le “riaperture” si preferiscono calci e pugni all’offesa: l’odio virtuale scende dal 34% al 17%, mentre salgono le aggressioni fisiche: nel 2020 erano il 65 per cento (soprattutto tra le mura domestiche), nel fanno un balzo e toccano l’82 per cento.
La discriminazione abbandona il virtuale e torna a sommergere la vita reale delle persone, nelle loro relazioni familiari e di vicinato, nei luoghi che frequentano o dai quali vengono allontanati o preclusi. Figli buttati fuori casa per via del proprio orientamento sessuale o identità di genere, cittadini insultati e picchiati per strada per il colore della pelle. E ancora manifesti, striscioni, cartelli, scritte sui muri che illuminano la guerra invisibile alle minoranze.
La piramide dell’odio tracciata dall’UNAR mette al primo posto le persone aggredite per motivi etnico-razziali: il 2021 ha registrato 709 casi rispetto ai 545 del 2020. Di queste 499 vittime sono straniere. Seguono poi le persone aggredite per il “colore della pelle” (137), a cui vengono rivolti insulti che ricalcano un copione rigido e caro al vocabolario razzista: «negro di merda», «marocchino di merda», «clandestino», «vattene», «ritorna da dove sei venuto». Parole manifesto del sentimento di odio e pregiudizio di inferiorità basato sulla “razza”.
Sono invece 241 i casi denunciati di discriminazioni per “Religione o convinzioni personali”, rispetto ai 183 del 2020. In Italia è l’antisemitismo a crescere a dismisura. Si contano 170 casi rispetto agli 89 del 2020. Una recrudescenza del pregiudizio antisemita, oggi come in passato, che si esprime in forme cospiratorie, additando nelle persone di religione ebraica qualsiasi colpa. Già il rapporto della Wzo, l’Organizzazione sionista mondiale, e dell’Agenzia ebraica per Israele, aveva sottolineato come il 2021 fosse stato l’anno più antisemita dell’ultimo decennio.
Per l’Italia la conferma della tendenza arriva dall’UNAR. L’anno iniziato con insulti e minacce alla senatrice a vita Liliana Segre è proseguito con la diffusione di teorie complottiste sulla pandemia e vaccini dalle pagine social. Si è arrivati alle manifestazioni no-vax, con cartelli antisemiti. Ci sono poi le testimonianze delle aggressioni fisiche che sembrano far fare marcia indietro nel tempo: in una importante città dell’Italia centrale, nel tardo pomeriggio, un ragazzo con indosso la kippah viene colpito da dietro con un pugno e poi uno sputo. Mentre in una scuola primaria due studenti, venuti a conoscenza delle origini ebraiche di un compagno, lo sottopongono ad una serie di molestie: facendogli il saluto fascista, tentando di disegnargli svastiche sul corpo ed aggredendolo fisicamente con calci e pugni.
Non vengono risparmiate dall’odio le persone Lgbt che, come fanno notare dall’Ufficio Antidiscriminazione della Presidenza del Consiglio: scontano un’ondata di visibilità prodotta dal dibattito pubblico consumatosi nel 2021 sul ddl Zan, dentro e fuori dal Parlamento. Fake-news, stereotipi di genere e pregiudizi che si sono tradotti, nel tessuto sociale, in una vera e propria conflittualità, fatta di discriminazioni e violenze. Si registra un caso di omotransfobia ogni due giorni. Dai 93 episodi denunciati nel 2020, si è passati ai 238. Persone trans inseguite e aggredite per strada, ragazzi e ragazze costrette a terapie riparative, macchine distrutte e aggressioni fisiche a coppie colpevoli di tenersi per mano o scambiarsi un bacio pubblicamente.
È stato anche l’anno dell’abilismo, parola che rinchiude dentro tutte quelle violenze fisiche, alla proprietà e verbali perpetrate ai danni delle persone con disabilità. Il 2020 aveva registrato una flessione delle aggressioni pari a 49 casi, con il “ritorno alla normalità” i casi di abilismo toccano la punta di 141 aggressioni. Sono dati parziali, sottolineano dall’Unar, poiché fanno riferimento solo a casi denunciati oppure segnalati dalla stampa. Lo scenario, dunque, potrebbe essere peggiore.
«I dati ci dicono che l’anno trascorso sconta la rabbia accumulata e la paura dell’anno precedente. Con le maggiori aperture c’è stata una ripresa della circolazione delle persone e un aumento delle aggressioni fisiche» spiega Triantafillos Loukarelis, direttore Ufficio nazionale anti-discriminazione razziale. «Come Unar abbiamo due difficoltà: siamo poco conosciuti e poi c’è una rassegnazione, quasi una sfiducia verso le istituzioni: serpeggia la convinzione che qualsiasi denuncia sarà inefficace oppure addirittura controproducente».
Il metodo dell’UNAR sui casi di discriminazione è preciso: una volta ricevuta la segnalazione del caso, si attiva un lavoro di verifica ed eventualmente di supporto della vittima. Non tutte le segnalazioni, dunque, vengono registrate. «Molte persone nell’ultimo ci hanno contattato perché si sentivano discriminati in quanto non vaccinati. Semplicemente temevano gli effetti dei vaccini – spiega Loukarelis – Spesso sono persone che hanno paura perché non hanno le giuste informazioni. C’è questa idea che i no-vax siano solo radicali ma non è così. Così li abbiamo indirizzati verso i servizi regionali che potevano dare tutte le informazioni necessarie per comprendere».
Fornire informazioni, supporto e orientamento è il compito dell’ufficio che nell’ultimo anno si è fatto carico di qualsiasi tipo di denuncia: «I nostri operatori specializzati si prendono carico delle segnalazioni. Spesso si può agire anche sulla base di moral suasion parlando con le istituzioni locali, ad esempio. Quando ci sono questioni che possono aver, per così dire, un riflesso giudiziario, abbiamo pronto una squadra legale pronta a trasmettere un parere».
L’Unar ci prova, in sinergia con le associazioni che lottano contro l’odio. Intanto dal Parlamento arrivano nuove rassicurazioni per una ripresa del testo di legge contro l’omotransfobia, la misoginia e l’abilismo. Potrebbero ripresentare un testo ad aprile sia Alessandro Zan del Partito Democratico alla Camera, sia Alessandra Maiorino del M5s al Senato. Fuori dai palazzi però ritorna la paura, alcuni temono più di prima e tacciono, altri dicono basta e trovano la forza di denunciare cercando sostegno. In attesa di uno scatto della politica, i cittadini fanno da sé mentre la lacerazione sociale cresce.
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