di Adil Mauro su Valigia Blu
“Nella tua città c’è un lager”. È la denuncia degli attivisti che si battono da anni per la chiusura dei CPR (Centri di Permanenza per i Rimpatri), veri e propri buchi neri nei quali finiscono, e a volte perdono anche la vita, i cittadini stranieri sprovvisti di regolare titolo di soggiorno.
Con una capienza complessiva di 1.100 posti sono dieci i centri attualmente operativi a Milano, Torino, Gradisca d’Isonzo, Roma-Ponte Galeria, Palazzo San Gervasio, Macomer, Brindisi-Restinco, Bari-Palese, Trapani-Milo e Caltanissetta-Pian del Lago.
Si tratta di strutture che in oltre vent’anni hanno prodotto una lunga scia di disperazione, violenze e morti. Istituiti nel 1998 dal governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi con la legge sull’immigrazione Turco-Napolitano, i centri furono inizialmente chiamati CPTA (Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza), poi CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) e infine rinominati CPR con la legge Minniti-Orlando del 2017.
All’inizio le persone potevano essere trattenute per un periodo massimo di 30 giorni, diventati 60 con le modifiche apportate dalla legge Bossi-Fini del 2002. Nell’estate del 2011 il quarto e ultimo governo Berlusconi inasprì ulteriormente le misure restrittive, portando il tempo limite di trattenimento nei CIE a 18 mesi. Dopo una riduzione a 3 mesi stabilita dalla legge europea 2013-bis, il periodo è stato poi nuovamente esteso fino a 180 giorni, con l’entrata in vigore del decreto sicurezza nel 2018. Il decreto 130/2020 voluto dall’attuale ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha riportato il periodo di detenzione a 90 giorni, con la possibilità di estenderlo fino a un massimo di 120.
Nel 2011 una circolare dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni vietò alla stampa l’accesso ai centri per immigrati “al fine di non intralciare le attività loro rivolte”. Un provvedimento superato solo formalmente con la direttiva dello stesso anno firmata dalla ministra Anna Maria Cancellieri. La campagna LasciateCIEntrare ricorda che “ancora oggi la sospensione del divieto non rappresenta de facto la garanzia della libertà di informazione. Capire e raccontare cosa accade in questi luoghi è estremamente difficile a causa della discrezionalità con la quale le richieste di accesso vengono gestite e trattate”.
Gli ultimi casi collegati a queste strutture riguardano Wissem Ben Abdel Latif, 26enne tunisino trattenuto nel centro di Ponte Galeria e morto all’ospedale San Camillo di Roma dopo essere stato sottoposto a contenzione meccanica, e il connazionale 44enne Anani Ezzeddine suicidatosi nel CPR di Gradisca d’Isonzo.
Restano ancora da chiarire le cause che hanno portato alla morte di Abdel Latif. La Procura di Roma ha aperto un’indagine contro ignoti per omicidio colposo. I familiari ancora si chiedono cosa sia successo. Sapevano che a fine settembre era arrivato in Italia, era stato all’hotspot di Lampedusa “dove aveva dormito a terra circondato da una rete perché il centro era stracolmo” e poi trattenuto su una nave per espletare la quarantena senza aver accesso alla richiesta di protezione internazionale. Tutto questo non aveva fiaccato lo spirito di Abdel Latif, come riferisce la sorella Rania.
Una volta trasferito al CPR le cose però cambiano. Abel Latif non capisce perché era finito in cella senza aver commesso alcun reato, ricostruisce Annalisa Camilli su L’Essenziale. A ottobre gira un video all’interno della struttura in cui dice di essere pronto a proseguire lo sciopero della fame per impedire il rimpatrio. Nei giorni successivi, Abdel Latif sembra manifestare una forma di disagio psichico durante i colloqui con la psicologa del CPR al punto da richiedere una visita specialistica da parte dello psichiatra, che gli prescrive una terapia farmacologica. Dopo una nuova visita, lo psichiatra dispone il ricovero in un ambiente ospedaliero.
Come ricostruisce il Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio, Stefano Anastasia, in entrambi gli ospedali Abdel Latif viene trattenuto in stato di contenzione (al San Camillo per 63 ore): “Sappiamo che questa degenza, che sembra essere maturata come una scelta volontaria di assistenza medica, si è protratta per cinque giorni in contenzione. Questa è una cosa che va verificata. La stretta necessità di questa contenzione, che non è un atto medico ma di cautela per la sicurezza degli ambienti e della persona, va monitorata e limitata all’indispensabile”.
Secondo quanto riportato dai media, alcune persone trattenute nel CPR hanno parlato anche di possibili maltrattamenti ma spiega sempre Anastasia, “nessuno di noi ha ricevuto denunce di maltrattamenti su Ben Wassem Abdel Latif, prima che dal CPR di Ponte Galeria arrivasse volontariamente ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura dell’ospedale San Camillo”. Stando alla documentazione attualmente a disposizione, prosegue il Garante, “questi maltrattamenti non sono emersi nell’accesso al Pronto soccorso del Grassi dove, se ci fossero stati, sarebbero stati registrati quanto meno per medicina difensiva. Dall’autopsia vedremo se ci sono altre cose che ad oggi non sono emerse”.
Una morte evitabile secondo quanto dichiarato dall’avvocato Francesco Romeo. “Il 24 novembre, mentre Abdel Latif era ricoverato e legato in stato di contenzione presso l’ospedale Grassi di Ostia, il giudice di pace di Siracusa, su ricorso del legale del giovane tunisino, sospendeva l’esecutività del decreto di respingimento e del provvedimento di trattenimento presso il CPR di Ponte Galeria”.
Uno dei primi a dare la notizia della morte di Abdel Latif è stato Majdi Karbai, deputato della sinistra tunisina eletto in Italia nella circoscrizione esteri. A Valigia Blu racconta di «segnalazioni e testimonianze di connazionali che si trovano dentro i CPR o che sono già stati rimpatriati. Tutti descrivono un sistema di stigmatizzazione dove è impossibile ricevere informazioni sulla propria situazione. Ormai la Tunisia è considerato a torto un paese sicuro e quindi non ti viene data nessuna possibilità di accedere alla domanda di asilo o di protezione internazionale».
La Tunisia rientra, infatti, tra i 13 Stati presenti nell’elenco di paesi nei quali si presume sia garantito il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, stilato dall’Italia il 7 ottobre 2019 in attuazione della direttiva europea numero 32 del 2013. “Una classificazione che ha prodotto effetti eclatanti”, spiega Martina Costa membro di Avocats Sans Frontières. “Non solo i tunisini sono pre-valutati ma addirittura non viene fatta un’informativa legale adeguata. Vengono etichettati come coloro che ‘abusano’ del diritto di chiedere l’asilo. La Tunisia, però, oggi non è un paese sicuro”. Questo sistema, tra l’altro, non ferma i flussi. In Tunisia le persone che vengono respinte sono pronte per ripartire dopo essere state trattenute poche ore nei commissariati di polizia.
“Abdel Latif era solo un numero dentro le carte degli accordi tra Italia e Tunisia e dentro i cassetti ammuffiti e maleodoranti dell’Unione Europea”, denuncia LasciateCIEntrare.
Per Karbai «non si può parlare di accordi, perché gli accordi vengono discussi anche in Parlamento». In effetti il primo “accordo” bilaterale Italia-Tunisia sottoscritto il 6 agosto 1998 dal ministro degli Esteri Lamberto Dini e dall’ambasciatore tunisino a Roma fu una nota verbale in cui il governo nordafricano si impegnava a mettere in atto misure efficaci di controllo delle coste in cambio di quote di ingresso annuali per cittadini tunisini.
Negli anni successivi ci sono state altre intese, alcune mai rese pubbliche come quella del 2009, fino all’ultimo accordo “fantasma” del 2020 smentito dall’Italia e confermato dal ministero dell’interno tunisino: 11 milioni di euro per un radar, la manutenzione delle motovedette, programmi di formazione per le guardie di frontiera e un sistema informativo di controllo del mare.
Un altro aspetto problematico è l’accesso ai centri, segnala Karbai. «L’anno scorso ho provato a contattare la prefettura di Milano per entrare e mi è stato detto di no. Sabato 4 dicembre quando sono andato a Roma per ascoltare i ragazzi che erano lì insieme a Wissem non mi hanno fatto entrare».
Ai Centri possono accedere, in qualunque momento, senza alcuna autorizzazione e previa tempestiva segnalazione alla Prefettura, membri del governo, parlamentari ed europarlamentari che hanno la facoltà di farsi accompagnare da un proprio assistente. Altre figure con libertà di accesso sono il delegato in Italia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) o suoi rappresentanti autorizzati e i Garanti dei diritti dei detenuti. Associazioni, giornalisti e personale della rappresentanza diplomatica o consolare del Paese d’origine del recluso possono entrare solo se autorizzati dalla prefettura.
Nel rapporto sulle visite effettuate nei CPR dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale una delle raccomandazioni è che “venga aumentata la permeabilità e l’osmosi dei centri rispetto ai territori, con la partecipazione anche di espressioni della società civile, per la realizzazione di attività anche di tipo formativo rivolte alle persone trattenute, per un significativo impiego del tempo trascorso in privazione della libertà personale”.
Tra gli aspetti critici di carattere gestionale il Garante evidenzia infatti che “l’impermeabilità del CPR verso l’esterno, a lungo andare, gioca un ruolo negativo rispetto alla vita stessa delle strutture e di chi le abita. L’auspicabile apertura a osservatori esterni non istituzionali – università, media e associazioni – sebbene percepita come ‘fonte di pericolo’, aumenterebbe il grado di visibilità esterna delle strutture e della loro gestione, abbassando al contempo la divaricazione tra posizioni spesso di tipo ideologico e antagonista”.
Ancora più grave è la presenza di minorenni nei CPR. «Mai come nell’ultimo anno e mezzo, dopo l’accordo con la Tunisia, abbiamo visto un tale transito di minori stranieri non accompagnati nei centri, non solo a Ponte Galeria ma a Milano, Torino, Bari e Brindisi. In alcuni casi non dichiaravano la minore età perché non veniva loro chiesta. Chiaramente quando hanno avuto modo di comunicarla ci sono state tutte le verifiche di rito, ma di fatto hanno trascorso giorni, o solo qualche ora, in un luogo illegittimo», dice Yasmine Accardo di LasciateCIEntrare.
Al drammatico conteggio dei decessi legati a questi luoghi di detenzione vanno aggiunti i numerosi episodi di atti di autolesionismo compiuti dalle persone recluse: solo a Torino nei mesi di ottobre e novembre 115 casi, definiti dal segretario provinciale del sindacato di polizia Siulp Eugenio Bravo come “simulazioni di tentati suicidi”.
Dalla lettura del rapporto della Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD) emerge in maniera evidente quanto queste realtà possano essere redditizie. Un modello di business che ricorda il mercato delle prigioni private negli Stati Uniti. Secondo le stime di CILD, “nell’ultimo triennio sono stati spesi 44 milioni di euro per sostenere una gestione privata della detenzione amministrativa che (…) non garantisce i diritti fondamentali dei trattenuti. Una media giornaliera di spesa pari a 40.150 euro per detenere mediamente meno di 400 persone al giorno (dalle 192 persone presenti al 22 maggio 2020 alle 455 presenti al 20 novembre 2020) per poi constatare che soltanto nel 50% dei casi si realizza lo scopo della detenzione senza reato. La detenzione amministrativa è, infatti, una ‘filiera molto remunerativa‘ e la gestione privatizzata dei Centri (finanche per i servizi relativi alla salute) è uno dei nodi più controversi”.
È necessario tenere sempre a mente che questi luoghi rappresentano un tassello in un più ampio dispositivo di controllo e criminalizzazione delle persone migranti che va dai lager libici finanziati dall’Italia ai campi profughi lungo la rotta balcanica (dalla Grecia alla Bosnia e alla Croazia), passando per hotspot, “navi quarantena” e respingimenti illegittimi.
Strutture che, secondo Davide Cadeddu, autore di “Cie e complicità delle associazioni umanitarie” (Sensibili alle foglie, 2013), non sono riformabili per la loro stessa natura:
“Ciò che rende il CIE tale è la sua natura biopolitica. In questo dispositivo il potere si esercita sulla persona trattenuta non in quanto autore di un reato, ma in quanto essere vivente, vita biologica, nuda vita. Per cui, anche se in questi campi di internamento fossero garantiti standard decenti rispetto alla tutela dell’incolumità personale, all’igiene del luogo, alla qualità del cibo, all’assistenza sociale (attraverso la presenza di interpreti, psicologi, avvocati, mediatori linguistici) o alla realizzazione di attività di socializzazione, la natura di questi luoghi comunque non cambierebbe, rimarrebbero quello che sono e continuerebbero ad assolvere sempre alla stessa identica funzione all’interno della società”.
Il CPR, come denuncia il rapporto “Delle pene senza delitti”, stilato dopo l’ispezione effettuata dal senatore Gregorio De Falco e dalla senatrice Simona Nocerino all’interno del centro di via Corelli a Milano, insieme agli attivisti e alle attiviste della rete Mai più lager – NO ai CPR, è “una struttura carceraria per persone innocenti, ma con ancora meno diritti di quelli garantiti ai reclusi del sistema penitenziario, dove per giunta si capita (è il verbo corretto) senza che venga celebrato alcun processo”.
Tra i diritti negati alle persone detenute ci sono quelli alla salute e alla comunicazione. Lo spiega a Valigia Blu l’avvocato Maurizio Veglio, coordinatore del libro nero sul CPR di Torino realizzato dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI): «Dentro il CPR di corso Brunelleschi non è presente l’ASL, ma personale stipendiato dall’ente gestore i cui introiti dipendono dal numero di presenze. Se il medico è colui che decide la compatibilità della persona evidentemente si trova in una posizione di potenziale conflitto di interessi. Dal gennaio del 2020 i trattenuti vengono privati del cellulare e possono utilizzare solo un telefono fisso che non è abilitato a ricevere dall’esterno. Le chiamate sono possibili solo con una tessera prepagata del valore di 5 euro che viene distribuita ogni due giorni, in alternativa alle sigarette. Quindi la scelta è tra fumare oppure poter utilizzare 5 euro di telefonate in uscita dal centro. Il numero degli apparecchi fissi è addirittura inferiore a quello previsto dal regolamento ministeriale del 2014 e di fatto non ci sono altri canali comunicativi».
L’impossibilità di comunicare con i parenti o con le persone care ha una ricaduta pesante sul benessere psicofisico di chi è costretto a vivere in una condizione di completo abbandono, con giornate identiche che si ripetono ciclicamente.
Un problema, quello della comunicazione, che riguarda anche il diritto di contattare figure istituzionali come segnala a Valigia Blu Stefano Anastasia, il Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio. «Chi è trattenuto ha la facoltà ora riconosciuta per legge di rivolgere reclami ai garanti, ma non può comunicare direttamente con loro. Il responsabile del centro ha messo un avviso dicendo che chi vuole parlare con il garante può fare richiesta e lui lo contatterà. Non metto in dubbio la sua buona fede, ma non è questo il modo con cui le persone trattenute devono entrare in contatto col garante».
Per questo motivo Anastasia ha chiesto alla prefettura di riattivare uno sportello del Garante presso Ponte Galeria. «Tanti anni fa questa attività esisteva sulla base di un protocollo sottoscritto dalla Regione, il Garante e la prefettura. Il protocollo è scaduto prima che arrivassi, ma negli ultimi anni tutti i solleciti alla prefettura non hanno prodotto alcun risultato. Nelle carceri del Lazio al più tardi ogni 15 giorni c’è una delegazione di ufficio che incontra i detenuti che vogliono parlare con il Garante per segnalare un problema. Perché questa cosa non si possa fare anche a Ponte Galeria credo sia totalmente incomprensibile».
Nel centro romano si trova una sezione femminile, al momento vuota. Durante il primo lockdown del marzo 2020, quando all’interno della struttura c’erano 40 donne, è stato impedito l’accesso ai gruppi di assistenza legale che aiutano le detenute – spesso vittime di tratta – a veder riconosciuti i loro diritti e non essere rimpatriate, un epilogo fin troppo frequente.
Veglio invece è entrato nel centro torinese per la prima volta nel 2003 e dopo tutti questi anni «il dato più rilevante è il fatto che non sia cambiato nulla. Indipendentemente dalle condizioni di vita, dalla durata massima del trattenimento e da altri fattori, il tasso di rimpatri delle persone recluse è sempre rimasto intorno al 50%. Senza contare la sofferenza giurisdizionale di un diritto che applica la sua sanzione più grave – la privazione della libertà personale – in assenza di un reato e della sua contestazione. Qui si tratta di una violazione di tipo amministrativo, oltretutto convalidata da un’autorità giudiziaria, la magistratura onoraria, che in nessun altro caso ha il potere di intervenire sulla libertà personale degli individui».
A livello europeo sono due le direttive che regolano il rimpatrio dei migranti irregolari: la 2008/15/CE che attribuisce agli stati membri il potere di detenere persone presenti irregolarmente sul loro territorio e la 2013/33/UE che riconosce ai richiedenti asilo la libertà di movimento sul territorio nazionale, ma consente anche la possibilità di detenerli per accertarne l’identità.
La regolamentazione è affidata alle singole nazioni ma, sottolinea Veglio, “una seria ridiscussione e comprensione delle storture e degli orrori collegati alle vicende di detenzione amministrativa al momento non è ancora in corso. Ci sono gesti di resistenza, ma è una battaglia tutta in salita perché purtroppo l’opinione pubblica sembra assuefatta e riuscire a ridestarla da questo sonno collettivo è un’impresa davvero impegnativa”.
LasciateCIEntrare, almeno all’inizio, ha potuto contare sul sostegno del mondo dell’informazione. «Fino al 2014 entravamo in delegazioni cospicue di 7-8 persone, producevamo rapporti, interrogazioni parlamentari, denunce di casi molto gravi», ricorda Accardo. “Adesso è diventato impossibile”.
I media ormai parlano dei CPR solo quando una persona perde la vita. Come accaduto in questi mesi con Moussa Balde a Torino e con la morte di Abdel Latif. E in precedenza con altre vittime: Harry, ventenne nigeriano con problemi psichiatrici impiccatosi nella struttura di Brindisi; Hossain Faisal, cittadino bengalese di 32 anni morto nei locali dell’Ospedaletto del CPR di Torino; Aymen Mekni, cittadino tunisino di 34 anni stroncato da un malore a Caltanissetta; Vakhtang Enukidze, cittadino georgiano deceduto a Gradisca d’Isonzo; Orgest Turia, cittadino albanese di 28 anni ucciso sempre in Friuli-Venezia Giulia da un’overdose di metadone.
Luoghi che andrebbero invece raccontati nella loro quotidianità per capirne il loro funzionamento, la loro organizzazione e cosa accade al loro interno nella specificità delle diverse realtà. «È un sistema molto violento di cui si parla troppo poco», afferma Accardo. «Noi non accogliamo, sostanzialmente deteniamo persone in condizioni allucinanti ed è grave che debba arrivare il morto per poter parlare di quello che avviene ogni giorno. Ogni giorno ci sono trasferimenti violenti, ogni giorno c’è una disattenzione alla singola persona. Una comunicazione di tipo scandalistico, che non produce cambiamenti in termini politici, è un’informazione residuale che non dà un quadro generale di quello che sta davvero accadendo».
Di Angela Caponnetto su Articolo 21
67.040, quasi il doppio rispetto ai 34.134 del 2020 e quasi sette volte di più rispetto agli 11.471 del 2019. Questi sono i numeri delle persone sbarcate in un’ Italia popolata da 59 milioni 258.000 abitanti . Un paese che tra il 2014 e il 2017 – il periodo dei grandi flussi migratori – ha visto approdare in media 150.000 persone all’anno. Questi sono primi e ultimi numeri che verranno elencati in questo articolo perché dietro alla matematica dei numeri ci sono vite umane con le proprie storie, sogni e speranze. Vite che il Covid-19 ha quasi del tutto oscurato, complici i media concentrati sulla pandemia ancora in corso. Lasciando spazio al mero conteggio degli sbarchi che fanno notizia solo se nei nostri porti approdano navi umanitarie mentre restano marginali gli approdi autonomi: nonostante le ong abbiano soccorso una minima parte delle persone migranti che invece sono arrivate da sole, rischiando per lo più di morire annegati o di stenti durante il viaggio. Purtroppo mi devo contraddire perché devo inserire un altro numero in questo elenco: quello delle vittime tra le persone migranti che nel 2021 sono 1.600 tra morti e dispersi solo nel Mediterraneo. Uomini, donne e purtroppo sempre più bambini i cui corpi vengono recuperati nelle spiagge libiche come nelle scogliere di Lampedusa chi nel silenzio generale soccorre in ogni stagione e senza sosta.
Totalmente obnubilati dal virus, quasi timorosi di parlare dei drammi altrui in un’epoca in cui il dramma della pandemia ha sconvolto le vite di tutti, la maggior parte dei media ha trattato le notizie sui flussi con distacco e poca attenzione. Lasciando spazio alla (per fortuna sempre meno credibile) retorica dell’ “invasore”.
Così, eccetto la vicenda dei profughi afghani in fuga dai talebani e la crisi al confine tra Polonia-Bielorussia, il resto dei flussi migratori è stato citato per lo più in termini di numeri e non di storie. Chi fa questo mestiere sa che raccontare le storie fa la Storia. Come mi fa ricordare una foto che mi è capitata in questi giorni tra le mani: scattata nel 2002 sul molo di Catania dal grande inviato Pino Scaccia. Una foto che mi ritrae mente prendo appunti su un notes durante uno sbarco di mille migranti da una carretta del mare. Vent’anni fa, governo Berlusconi bis, ministro dell’Interno Claudio Scajola. In mille soccorsi dai nostri militari. Erano curdi in fuga dal conflitto con i turchi. Allora come ora, c’era chi gridava all’invasione e c’era chi addirittura chiedeva di affondare quella carretta carica di vite umane: famiglie, uomini donne e tanti bambini. Vent’anni dopo si parla ancora della stessa fantomatica invasione e si continua a non raccontare le storie e le origini di queste partenze e approdi, come invece ci esorta a fare Papa Francesco.
Non solo non si raccontano più le storie di chi lascia la propria terra ma si è smesso di cercare di capire cosa spinge a movimenti più consistenti da un anno all’atro. Cosi, se suscitano interesse le solite rotte dalla Libia Centrale e dalla Tunisia verso la solita Lampedusa, scivolano tra le notizie di secondo piano gli arrivi dalla rotta turca, egiziana e dalla Libia orientale che nel 2021 hanno portato oltre 11.000 persone migranti nei porti calabresi e altre migliaia in quelli pugliesi. Eppure è questa la vera novità nei flussi migratori dell’anno appena conclusosi: i viaggi sempre più numerosi dalla Turchia e da un’area di confine tra Egitto e Cirenaica con centinaia di persone ammassate su vecchi pescherecci con motore in avaria sempre più spesso sganciati da navi madre in area sar di competenza italiana all’altezza del Mare Jonio. Soccorsi difficili, faticosi e pericolosi. La sintesi del lavoro fatto da chi soccorre a mare come a terra è nelle parole di un ispettore di polizia intervenuto in un salvataggio di un veliero che si incaglia su una spiaggia a Crotone: in mezzo ad una tempesta rischiando di ribaltarsi. A bordo ci sono tanti bambini che i genitori lanciano tra le braccia degli uomini in divisa: “La cosa più bella è stata sentire le loro braccia attorno al collo: avevano fiducia in noi” racconta con voce rotta dall’emozione il poliziotto. Un’emozione che si prova solo essendo parte di questa storia e che va raccontata per fare la Storia. C’è un motivo per cui queste persone si sono messe in mare più dell’anno prima e dell’anno prima ancora. C’è un motivo per cui hanno rischiato la loro vita per raggiungere un porto sicuro dal quale poi cercare forse di arrivare in un altro luogo dove trovare pace.
Per questo noi giornalisti dobbiamo continuare ad esserci, a documentare e a raccontare le storie mettendo insieme i tasselli di un puzzle che potrà essere completato solo con una corretta informazione. Anche perché solo attraverso una corretta informazione noi operatori dei media potremo contribuire a dare una spinta per trovare le giuste soluzioni ai movimenti migratori. Soluzioni che non possono essere muri veri o virtuali, né vacua propaganda anti immigrazione: servono politiche di peace keeping per i paesi ancora in conflitto, controllo del terrorismo nei paesi afflitti da gruppi estremisti che terrorizzano la popolazione interna, politiche di sviluppo per i paesi più poveri controllando che i fondi per i progetti non finiscano in mano a leader corrotti e, nell’immediato, corridoi umanitari per i più vulnerabili.
Questo mi ha insegnato un grande reporter come Pino Scaccia che, alla vigilia del 2022 mi ritorna con una trasferta fatta insieme vent’anni prima. Suole consumate, penna e taccuino, la Storia va vissuta prima di essere raccontata.
Immagine in evidenza di Articolo 21
di Gianfranco Schiavone su Altreconomia
Prima sono venuti i respingimenti alle frontiere esterne dell’Unione europea: illegali, impuniti e violenti per terra come per mare. Poi ci sono stati i respingimenti a catena alle frontiere interne, chiamati riammissioni per mascherarne la natura. Infine per ampia parte di coloro che, a prezzo di inaudite sofferenze, riescono a entrare in Europa, la domanda di asilo viene esaminata, alla frontiera e non, in modo fulmineo. Le procedure sono sommarie e l’unica finalità è provare a negare ogni protezione così che il rimpatrio coattivo, attuato senza un effettivo diritto di difesa, divenga la soluzione finale di un percorso già scritto dall’inizio.
Questo gorgo oscuro nel quale siamo finiti riguarda da tempo tutta l’Europa anche se è più visibile in alcuni Paesi nei quali l’ordinamento democratico è particolarmente fragile. Nella Polonia di fine 2021 la situazione è arrivata all’estremo e lo stesso Stato di diritto è collassato; in primis per i rifugiati ma in realtà per chiunque giacché nessun cittadino è più al sicuro nel Paese.
La Polonia è riuscita a realizzare tutte le violazioni possibili del diritto d’asilo: è stato di fatto sospeso alle sue frontiere, come nel territorio, respingendo apertamente e con ogni mezzo violento i rifugiati verso la Bielorussia dove sono arrivati a seguito dell’uso criminale che viene fatto di loro dal regime di Aljaksandr Lukašėnka. In tal modo la Polonia ha annullato il divieto assoluto di non respingimento sancito dall’Art. 33 della Convenzione di Ginevra e dall’Art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Si è resa responsabile della morte di almeno 20 persone (ma il numero è probabilmente sottostimato) tra cui alcuni bambini che sono stati lasciati morire di stenti e freddo sulla linea del confine pur conoscendone esattamente la grave condizione. La difesa di scelte così estreme invoca una sorta di “guerra ibrida” che il regime bielorusso starebbe conducendo usando i rifugiati come armi e la conseguente necessità di dovere difendere, a tutti i costi, il confine dell’Europa.
Invocare l’esistenza della nuova “guerra” in atto ha permesso al governo polacco di dichiarare lo stato di emergenza in tutta l’area di confine, impedire l’accesso ai giornalisti, criminalizzare chi difende la legalità e porta soccorso alle persone a rischio di vita nella foresta giungendo, in un’escalation che al momento della stesura di questa riflessione non sembra avere fine, persino a impedire le visite dei parlamentari europei affinché nessuno possa vedere quello che sta realmente avvenendo. Su tutto ciò la Commissione europea tace, complice di fatto dello stravolgimento di quella legalità che è chiamata a difendere.
A chi, magari con travaglio interiore, ritiene che tale situazione possa essere tollerata in ragione della sua eccezionalità non oppongo una valutazione politica o etica bensì una giuridica. La Convenzione sui diritti dell’uomo del 1955, consapevole che scenari di guerra e di pericolo sarebbero stati in futuro purtroppo sempre possibili, aveva previsto la possibilità di derogare, in modo limitato e temporaneo, al rispetto di alcuni dei diritti sanciti dalla Convenzione stessa chiarendo però che “nessuna deroga” (Art. 15) può mai essere ammessa, neppure in stato di guerra, al divieto di respingimento verso luoghi dove c’è rischio di tortura o di trattamenti inumani e degradanti. La Polonia e l’Europa non sono in guerra perché qualche migliaio di disperati disarmati si trovano al nostro confine e chiedono asilo. Affermarlo è osceno. Infine se fossimo in guerra nulla cambierebbe rispetto a ciò che non possiamo mai fare. Abbiamo superato, persino in assenza di alcuna ragione, il limite invalicabile dell’identità che ci siamo dati e lo dobbiamo sapere, senza finzioni.
Foto in evidenza di Kancelaria Premiera, via flickr, su Altreconomia
Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Makbyel aveva appena 17 giorni quando è stato salvato in mare, a fine dicembre, dalla Ocean Viking, la nave umanitaria di Sos Méditerranée. Appena nato, metà della sua breve vita l’ha passata su un barchino in mare con altre 113 persone in attesa di un soccorso. Per questo, una volta al sicuro sul ponte della nave, la madre ha deciso di dargli come secondo nome “Sos”. Makbyel Sos e gli altri naufraghi hanno saputo che avrebbero sbarcato in un porto sicuro, a Trapani, la notte di Natale. Nelle stesse ore nel Mar Egeo si consumavano due terribili naufragi: il bilancio provvisorio è di 27 vittime e 25 dispersi. Scomparsi in fondo al mare e nel silenzio generale nell’anno in cui l’immigrazione non è più il tema caldo, al centro del dibattito pubblico e politico. Così neanche le vittime del mare hanno dignità di notizia. Ma i numeri sono tutt’altro che irrisori e parlano di almeno 1600 morti nel 2021, sulla rotta più pericolosa al mondo, quella del Mediterraneo.
Complice la pandemia da coronavirus che ha monopolizzato il mondo dell’ informazione, secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Carta di Roma “Notizie ai margini”, nel 2021 sono 660 gli articoli in prima pagina dedicati al tema, il 21 per cento in meno rispetto al 2020, anno in cui già si registrava già una flessione dell’attenzione nell’agenda dei media. Il mese con maggiori notizie dedicate è stato agosto con la presa del potere da parte dei talebani in Afghanistan e la ripresa degli sbarchi verso l’Italia, che a fine 2021 si attestano a quota 64mila. “Le notizie che in questi anni hanno catalizzato l’attenzione, ispirato campagne elettorali, condizionato le politiche europee, nutrito l‘odio di molti, portato la paura nelle nostre case, nel 2021 sono rimaste prevalentemente lì, in quello spazio un po’ indefinito a due passi dall’indifferenza. Eppure quelle notizie ci sarebbero ancora ma invece restano ai margini e suona davvero strano” – sottolinea Valerio Cataldi, presidente di Carta di Roma.
In questo contesto di marginalità sono passati sotto silenzio anche alcuni attacchi al diritto d’asilo all’interno degli Stati europei per gestire i flussi alle frontiere. Il caso più raccontato mediaticamente è stato quello della crisi diplomatica al confine tra Polonia e Bielorussia. Il governo Lukashenko, dopo aver fatto arrivare in aereo migliaia di profughi (per lo più curdi e afgani) li ha spinti verso il confine polacco. Per settimane i due stati hanno dato vita a un vero e proprio braccio di ferro sulla pelle delle persone. Intanto ai profughi era impedito di chiedere protezione nei paesi europei. La commissione Ue per risolvere la situazione ha elaborato una proposta straordinaria di sei mesi che prevede la sospensione di alcune regole su asilo per i tre paesi di confine: Polonia, Lettonia e Lituania. La proposta prevede una semplificazione dei rimpatri e un limite di tempo più lungo per registrare le domande di asilo (da dieci giorni a 4 settimane). Non solo, ma la proposta apre anche alla possibilità di trattenere temporaneamente i richiedenti asilo. Una deroga ai principi che regolano il diritto d’asilo che è stata ampiamente criticata dai giuristi italiani e internazionali. Ma non è l’unica violazione.
Secondo il report “Human dignity lost at the EU’s borders”, elaborato dal Danish refugees Council e alcune agenzie partner (comprese in Italia Asgi e Diaconia Valdese) per tutto il 2021 le regole internazionali sulla protezione sono state sistematicamente violate in diverse aree dell’Ue. In particolare, da gennaio 2021, le organizzazioni hanno incontrato 11.901 persone che hanno denunciato respingimenti alle frontiere interne e esterne dell’Unione Europea. Il 32% dei respingimenti riguarda persone provenienti dall’Afghanistan, molte delle quali hanno visto negato il diritto di chiedere asilo (oltre il 60%). Le temperature invernali hanno contribuito al deterioramento delle condizioni umanitarie : oltre a veder negato il diritto d’asilo, le persone non hanno accesso a un riparo per la notte, vestiti caldi, cibo a sufficienza.
Tra i principi rimessi in discussione nel corso del 2021 anche quelli previsti dal trattato di Schengen. Alcuni paesi del nord Europa (tra cui Francia e Germania) hanno chiesto di poter reintrodurre i controlli alle frontiere interne dell’Unione europea per contrastare i cosiddetti “movimenti secondari” (gli spostamenti dei migranti da uno stato all’altro dell’Unione). La Commissione Ue, anche in questo caso ha approvato una proposta che lo prevede in alcuni casi eccezionali. Il Paese membro dovrà “giustificare la proporzionalità e necessità della sua azione tenendo in considerazione l’impatto sulla libertà di circolazione” delle persone.
Intanto guardando all’andamento della mobilità internazionale i numeri dicono che seppure siano in aumento le persone in fuga nel mondo, in Europa diminuiscono sia gli arrivi irregolari (-12 per cento) che i richiedenti asilo (crollati di ben un terzo). Il dato è contenuto nel Rapporto asilo 2021 della Fondazione Migrantes. “La pandemia di Covid-19 ha reso ancora più gravoso qualsiasi motivo, qualsiasi spinta a lasciare la propria casa, la propria terra. Dai conflitti alle persecuzioni, alla fame, all’accesso alle cure mediche fino alla possibilità di frequentare una scuola, il Covid-19 ha inasprito il divario fra una parte di mondo che vive in pace, si sta curando, tutelando e sopravvivendo e un’altra che soccombe, schiacciata da una disparità crudele – si legge nel testo -. Ma almeno in tutto il 2020, l’Italia e l’Europa hanno rappresentato un’eccezione in controtendenza rispetto alla situazione globale: mentre nel mondo il numero delle persone in fuga continuava ad aumentare, fino a una stima di 82,4 milioni, nel nostro continente si sono registrati meno arrivi “irregolari” di rifugiati e migranti e meno richiedenti asilo”.
In particolare, in Italia (dati Istat) a inizio 2021, con poco più di 5 milioni di residenti, la popolazione straniera dopo vent’anni di crescita ininterrotta si è ridimensionata e non riesce più a compensare “l’inesorabile inverno demografico italiano” come lo definisce il Rapporto italiani nel mondo 2021 della Fondazione Migrantes. Ormai il saldo tra entrate e uscite dal nostro paese è negativo: sono più i cittadini italiani che decidono di andare all’estero a vivere e lavorare che i migranti che arrivano nel nostro paese per stabilirsi. “L’Italia – spiega Fondazione Migrantes – è oggi uno Stato in cui la popolazione autoctona tramonta inesorabilmente e la popolazione immigrata, complice la crisi economica, la pandemia, i divari territoriali e l’impossibilità di entrare legalmente, non cresce più”. Tuttavia c’è un’Italia che cresce ed è “quella che risiede strutturalmente all’estero”. Nell’ultimo anno l’aumento della popolazione iscritta all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (Aire) è stato del 3% (il 6,9% dal 2019, il 13,6% negli ultimi cinque anni e ben l’82% dal 2006, anno della prima edizione del rapporto).
Foto in evidenza di Suzanne de Carrasco / Sea-Watch
Di Luca Rondi su Altreconomia
I respingimenti illegali al confine stanno diventando sempre di più un “normale” strumento di gestione del fenomeno migratorio nell’Unione europea. Lo dimostrano i dati contenuti nel nuovo rapporto pubblicato a metà dicembre 2021 dal Protecting rights at borders (Prab) con riferimento alla Bosnia ed Erzegovina: nonostante siano state appena 10.593 le persone in transito nel Paese tra gennaio e novembre 2021 – in diminuzione rispetto alle 29.488 del 2019 -, nello stesso periodo il numero di pushback registrati al confine con la Croazia nel 2021 sono stati 8.812. Ovvero il 74% degli 11.901 totali. “Stanno diventando accettabili e in una certa misura queste pratiche ricevono approvazione da parti degli Stati membri dell’Unione europea” si legge nel documento frutto del lavoro di nove organizzazioni (tra queste, Danish Refugee Council, Asgi, Diaconia Valdese, Hungarian Helsinki Committee, Humanitarian Center for Integration and Tolerance, Macedonian Young Lawyers Association, Greek Council for Refugees) che tutelano i diritti umani in sei diversi Paesi e che hanno fornito i dati aggiornati registrati tra luglio e novembre 2021.
Nel periodo dell’analisi sono 6.336 i migranti e richiedenti asilo che dichiarano di aver subito un respingimento illegittimo. La punta dell’iceberg secondo i curatori del report. La maggior parte, come detto, al confine tra Croazia e Bosnia ed Erzegovina (4.905) e dalla Serbia che con mille casi registrati lungo i suoi confini conferma il cambiamento delle rotte che le persone in transito seguono nei Balcani.
Avvalorano questa lettura anche le statistiche fornite da Frontex, l’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee. Un dato su tutti è significativo. Nel 2015 in Albania venivano registrati meno di 2mila ingressi irregolari, nel 2021 questi sono diventati 12mila. Secondo la polizia albanese, il Paese ha visto un aumento del numero di persone che attraversa il Kosovo nella speranza di raggiungere la Serbia e da lì l’Unione europea attraverso due possibilità: la Romania o l’Ungheria. Secondo le testimonianze raccolte dal Prab, il 90% degli ingressi sul territorio romeno avviene a piedi lungo il confine con i villaggi Majdan e Rabe. “Una volta identificati dalla polizia, gli intervistati riferiscono molto spesso di essere stati picchiati, minacciati, di essersi visti negare l’accesso all’asilo e di essere stati espulsi verso la Serbia” si legge nel report, in cui vengono non a caso segnalati 592 casi di pushback illegittimi al confine serbo-romeno. Allo stesso modo, in Ungheria, dove la maggioranza fa ingresso nel Paese a piedi e viene espulsa verso il territorio serbo in numeri considerevoli: le statistiche ufficiali della polizia ungherese parlano di 11.392 respingimenti nel mese di settembre, circa 10mila in ottobre e 9mila in novembre.
Per quanto riguarda le persone coinvolte nei respingimenti, il Prab sottolinea l’elevato numero di persone vulnerabili che subiscono le pratiche illegittime – il 18% dei casi registrati riguarda famiglie con minori – e anche il coinvolgimento di chi avrebbe diritto ad ottenere l’asilo. La seconda nazionalità più coinvolta nelle pratiche di respingimento – dopo quella pakistana (2.220 casi) – è quella afghana (2.027): la violenza sui confini non ha risparmiato neanche le persone in fuga da Kabul che cercano protezione in Europa. Tra agosto e novembre 2021 un totale di 1.696 afghani dichiarano di aver subito un respingimento dalla Croazia alla Bosnia-Erzegovina, comprese 61 persone che hanno subito un respingimento a catena dalla Slovenia, attraverso la Croazia alla Bosnia-Erzegovina. Un numero che include 65 minori stranieri non accompagnati (Msna) e 154 famiglie con 163 bambini. “Le promesse di assistere coloro che affrontano una terribile situazione umanitaria in Afghanistan dovrebbero andare di pari passo di pari passo con la fornitura di un effettivo accesso alla protezione per coloro che sono bloccati alle porte dell’Ue – si legge nel report -. Indipendentemente dal fatto che le persone provenienti dall’Afghanistan siano entrate nei Paesi dell’Unione europea irregolarmente, l’accesso alle procedure di asilo individuale e alla protezione deve essere garantito”.
La situazione descritta dimostra come la Croazia sia ancora lontana dal garantire una gestione dei confini rispettosa dei diritti fondamentali delle persone che vi transitano. Per fermare l’ingresso del Paese nell’area Schenghen non è bastata però né la condanna della Corte di giustizia dell’Unione europea nei confronti del ministero dell’Interno croato per la morte della piccola Madina, né la recente pubblicazione del report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura che smaschera le sistematiche violenze lungo i confini croati. Il 9 dicembre 2021 il Consiglio europeo ha dichiarato che il governo di Zagabria “soddisfa le condizioni necessarie per la piena acquisizione dell’acquis di Schenghen”. In attesa del parere, non vincolante, del Parlamento europeo e degli altri Stati membri rispetto a tale decisione preoccupano non solo le denunce ma anche l’efficacia del meccanismo di monitoraggio dei diritti umani alle frontiere previsto dalle autorità croate. La pubblicazione del primo rapporto di questo organo – fortemente criticato per composizione e modalità operative (ne avevamo parlato qui) – ha positivamente stupito le associazioni impegnate sul campo evidenziando che la polizia effettua respingimenti, impedisce alle persone di fare domanda d’asilo e sottolineando che l’onere della prova in relazione all’ammissibilità delle persone sul territorio spetta allo Stato. Ma in breve tempo la versione pubblicata è stata modificata evitando qualsiasi riferimento a violazioni sistematiche dei diritti fondamentali. “I cambiamenti di linguaggio del rapporto aggiornato sono eccezionalmente problematici – si legge nel report del Prab -. Non solo l’indipendenza del rapporto e del meccanismo viene messa in discussione, ma serve sottolineare come meccanismi inadeguati possano essere usati per mascherare le violazioni dei diritti umani”.
Il Prab cita anche l’Italia con riferimento alle frontiere interne. Su Ventimiglia si segnala una mancanza di assistenza di base e una risposta umanitaria “estremamente carente”. Nel report si segnalano inoltre “rischi specifici per la sicurezza e il benessere mentale tra i migranti vulnerabili come minori, donne che viaggiano da sole e donne con bambini che sono state trattenute insieme a uomini soli, aumentando i rischi di violenza di genere”. Sul confine italo-francese settentrionale, invece, si segnalano soprattutto persone provenienti da Afghanistan, Pakistan e Iran che denunciano casi di detenzione arbitraria per diverse ore da parte delle autorità francesi così come maltrattamenti fisici e verbali. “Inoltre, la modifica dei trasporti pubblici ha lasciato le persone in movimento bloccate a Oulx per diversi giorni nel Rifugio Fraternità Massi, causando sovraffollamento, mancanza di spazio e tensioni”.
Resta alta l’attenzione anche sulla frontiera orientale italo-slovena. Le riammissioni informali attive restano formalmente sospese ma sopravvivono i pattugliamenti misti al confine di cui abbiamo parlato anche su Altreconomia. Non solo. Il Prabsegnala 10 persone respinte a catena verso la Bosnia ed Erzegovina attraverso la Croazia e la Slovenia. Un caso riportato anche dal Border violence monitoring network (Bvmn) – una rete di Ong che mensilmente aggiorna il numero di respingimenti di migranti e richiedenti asilo lungo i confini europei – nel report di novembre che riporta la testimonianza di un gruppo di cittadini pakistani che il 5 novembre 2021 sarebbe stato prima trattenuto nelle vicinanze di Trieste e poi respinto a catena fino a Bihać. Una situazione da monitorare anche in considerazione della dichiarata volontà del prefetto di Trieste di riprendere le pratiche delle riammissioni.
“L’esistenza di casi, non più rari, in cui persone con uno status legale come gli interpreti o altri vengono respinte – conclude il Prab – riflette ulteriormente la normalizzazione dei respingimenti come strumento di gestione delle frontiere. Mentre queste pratiche devono semplicemente smettere di esistere, l’installazione di un efficace e indipendente meccanismo di monitoraggio, che non sia una foglia di fico, può essere uno strumento per ritenere i colpevoli responsabili e garantire accesso alla giustizia alle vittime”.
Foto in evidenza di Diaconia Valdese, tratto dal report Prab
Su Nigrizia
Avin aveva 38 anni e un figlio in grembo, morto da venti giorni, quando è deceduta per setticemia. All’arrivo in ospedale la sua temperatura corporea misurava 27 gradi. Troppo freddo, troppa fame, troppa sete in quel bosco in cui si nascondeva, insieme al marito Murad e ai suoi altri cinque figli, dai primi di novembre. Partiti dal Kurdistan iracheno, i sette ambivano semplicemente a una vita migliore. Per questo si erano messi in viaggio, cercando di varcare l’ennesima frontiera.
Avin è solo l’ennesima morte avvenuta in quel confine bielorusso, dove è difficile stimare il numero delle persone che transitano e sostano. Secondo il governo polacco, queste ultime sarebbero 5mila. Ma come si può dirlo con certezza? Da mesi, in quel tratto di confine che separa la Bielorussia dalla Polonia, non è consentito l’accesso a nessuno che non abbia il lasciapassare della polizia di frontiera. Divieto assoluto per chiunque, soprattutto per giornalisti, personale delle ong, dell’Unhcr, associazioni di aiuto umanitario. Persino a cinque europarlamentari è stato negato il passaggio qualche giorno fa.
In questo confine, secondo Grupa Granica – una sigla che mette insieme 14 associazioni polacche che si occupano di migranti e svolgono azione di monitoraggio e denuncia lungo la frontiera –, quando finirà l’inverno, si scioglierà la neve e verranno rimosse le restrizioni all’accesso, si scopriranno tanti cadaveri.
Intanto però, nessuno deve essere testimone di quel che davvero accade tra quei boschi. Nessuno deve portare aiuto e conforto dove, da agosto, centinaia e centinaia di profughi iracheni, afghani, siriani, yemeniti, somali transitano. Alcuni già richiusi nei centri di detenzione gestiti dalla polizia di frontiera, altri, tantissimi, in movimento in mezzo alle foreste tra Bielorussia e Polonia, ma anche Lituania e Lettonia.
E proprio tra i boschi polacchi, dal 10 dicembre, si aprirà la caccia al cinghiale. La notizia dell’autorizzazione da parte del governo, arrivata qualche giorno fa, ha destato le proteste di varie associazioni della società civile e umanitarie: una decisione irresponsabile e inumana, troppo il rischio per chi si muove nello stesso sottobosco, cercando di sfuggire ai controlli della polizia. Sono 14mila gli agenti che pattugliano quel lato del confine polacco.
E tra chi pattuglia c’è anche chi si blinda, respinge e rimpatria. La Polonia ha già iniziato a costruire la recinzione che dovrebbe separarla dalla Bielorussia: il muro di filo spinato, lungo 180 chilometri e alto 5,5 metri, dovrebbe essere finito entro metà 2022. Prima dunque di quello lituano, per cui sono stati stanziati 152 milioni di euro. Il muro della Lituania, che va a integrare il mucchio di filo spinato che già esiste, sarà dotato di attrezzature sofisticate di videosorveglianza, sarà lungo 500 chilometri e concluso entro settembre del prossimo anno.
E mentre si erigono barriere, per venire incontro a questi paesi, la commissione europea ha proposto, i primi di dicembre, misure eccezionali e temporanee che consentono a Polonia, Lettonia e Lituania di rimpatriare con maggiore flessibilità chi entra irregolarmente dal confine bielorusso. Procedure rapide che, riconosciute dalle istituzioni europee, finiscono, secondo Amnesty International, per normalizzare la disumanizzazione dei rimpatri.
Foto in evidenza di Nigrizia
Su Open Migration
Quando l’8 agosto 1991 la nave Vlora apparve nel porto di Bari col suo enorme carico umano, l’Italia poteva dirsi un paese che conosceva poco il fenomeno dell’immigrazione.
Anche se già dalla prima metà degli anni ‘70 il saldo migratorio – la differenza tra partenze di emigranti e rientri o arrivi di nuovi immigrati – inizierà prima a calare e poi a diventare positivo (i 170.000 permessi di soggiorno validi nel 1973 raddoppiano nel 1982 e tra il 1988 e il 1990 superano stabilmente i 600 mila) politica, media e comunità scientifica raccontavano ancora un paese di emigranti e questa era la percezione generale.
L’arrivo della Vlora a Bari farà da detonatore a una nuova percezione che sostituirà la precedente, e seppure rappresenterà un caso limite pronto a pervadere l’immaginario collettivo fino ai nostri giorni, dal punto di vista storico non rappresenta neppure il primo caso di arrivo in massa di migranti nel nostro paese.
L’e-book di Open Migrantion A trent’anni dallo sbarco della Vlora. Breve viaggio nell’Italia che si è scoperta Paese di immigrazione vuole raccontare con occhio ormai storico quell’evento e quelli che seguirono. Un lavoro che raccoglie oltre 20 approfondimenti dalle due sponde dell’Adriatico, che vuole raccontare anche tutti i modelli, gli schemi e le risposte inaugurate allora e riproposti ancora oggi, a distanza di 3 decenni. Una lettura per raccontare l’Italia di allora e quella di oggi che, per usare le parole del curatore Tommaso Fusco, dovrebbe “soprattutto renderci impossibile parlare ancora di emergenza” quando affrontiamo il tema migrazione.
Per leggere l’e-book di Open Migration clicca qui.
Di Pierre Haski su France Inter, traduzione di Andrea Sparacino su Internazionale
La morte di 27 migranti nella Manica ha creato un trauma: l’ennesimo, saremmo tentati di dire senza cinismo. La settimana scorsa 75 migranti avevano perso la vita nel Mediterraneo dopo essere partiti dalla Libia a bordo di un barcone sovraffollato, portando a 1.300 il numero di morti dall’inizio dell’anno. Il tutto nell’indifferenza più assoluta. Due settimane fa, alla frontiera tra Polonia e Bielorussia, altri migranti, strumentalizzati dal dittatore di Minsk, sono stati sballottati da una parte all’altra del confine, e alcuni sono morti in quella terra di nessuno congelata.
L’unica conclusione che si possa trarre da queste tragedie che si ripetono in quasi tutte le frontiere esterne dell’Europa è che noi, abitanti della potente e ricca Europa (Regno Unito compreso, per una volta) non abbiamo ancora una risposta al problema. Eppure è da anni che questo dramma coinvolge l’Europa, dai naufragi di Lampedusa ai campi profughi simili a prigioni di Samos, in Grecia, dalle alte barriere dell’enclave spagnola di Ceuta all’indegna giungla francese di Calais.
I motivi di questa impasse non mancano: timore di un ritorno dei venti populisti, differenze di vedute tra i vari paesi europei, egoismi nazionali o semplicemente paura dell’”altro”.
Il caso particolare degli afgani evidenzia tutte le nostre contraddizioni. In occasione della caduta di Kabul in mano ai taliban, con immagini apocalittiche che arrivavano dall’aeroporto, tutti erano d’accordo sulla necessità di aiutare il maggior numero di persone a partire. La mobilitazione delle amministrazioni comunali, delle associazioni e dei singoli cittadini ha permesso di accogliere dignitosamente migliaia di afgani che erano riusciti a salire a bordo di un aereo. Ma molte afgane e afgani appartenenti ad altri ceti sociali, arrivati con altri mezzi, non hanno ricevuto lo stesso trattamento.
Per qualche giorno, ma solo per qualche giorno, lo slancio per aiutare i profughi afgani ci ha ricordato la fine degli anni settanta, quando la Francia accolse 120mila boat people dal Vietnam in fuga dalla vittoria comunista dopo una mobilitazione da parte degli intellettuali di ogni orientamento, da destra a sinistra, compresi i fratelli-nemici della filosofia francese Raymond Aron e Jean-Paul Sartre. Uno scenario simile oggi è impensabile, perché il momento è segnato da un dibattito deleterio sul tema e dai muri, reali e mentali.
L’argomento sarà uno dei più difficili per la presidenza francese dell’Unione europea, nel primo semestre del 2022, con la riforma delle politiche europee sull’immigrazione e l’asilo. La Commissione europea ha avanzato alcune proposte, ma il dialogo è paralizzato dalle divisioni tra gli stati, e non solo a est del continente. La Danimarca, pur guidata dai socialdemocratici, presenta per esempio una delle politiche migratorie più restrittive del continente.
Qualche giorno fa uno degli osservatori più acuti di questo dibattito, il politologo bulgaro Ivan Krastev, sottolineava che i politici europei “si sentono incapaci di aiutare chi vuole più democrazia nel proprio paese e temono l’arrivo dei migranti”.
Con una punta d’ironia amara, Krastev ha aggiunto che “Bruxelles ha paura delle stesse cose che determinano la sua forza di attrazione. Una volta l’Europa si faceva forte dell’idea che molte persone nel mondo volessero vivere come i suoi cittadini. Oggi questa idea la spaventa”. È un paradosso su cui meditare, in attesa che arrivi la prossima tragedia.
Immagine in evidenza di Kiran Ridley/Getty Images su Internazionale
Di Anna Spena su Vita
Era l’alba dello scorso 23 febbraio quando la polizia ha fatto irruzione nell’abitazione privata di Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir, sede dell’associazione Linea d’OmbraODV. Il motivo della perquisizione? La ricerca di prove per un’imputazione di favoreggiamento del soggiorno di migranti clandestini.Trieste è la città italiana dove fisicamente finisce la Rotta Balcanica. Lorena, 68 anni, psicoterapeuta, e suo marito Gian Andrea, 85 anni, professore di filosofia in pensione sono due attivisti che hanno messo in piedi un piccolo presidio medico all’esterno della Stazione di Trieste per offrire prima assistenza ai migranti che passano il confine con la Croazia ma che sul corpo portano i segni delle torture. Sono lì, “dove bisogna stare”, dicono, tutti i pomeriggi ad accogliere i ragazzi, con il “carrettino verde” della cura dove Lorena tiene le garze, i cerotti, il disinfettante, qualche medicina di base. Il carrettino è il simbolo del suo lavoro e degli altri volontari di Linea d’Ombra che sulle panchine di Piazza della Libertà, così come negli squat bosniaci, le strutture abbandonate dove vivono i migranti, medicano i piedi dei ragazzi.
Lo scorso febbraio Gian Andrea è entrato nel registro degli indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, l’hanno associato a un passeur, un “traghettatore” di uomini. Poi l’indagine a coinvolto anche Lorena Fornasir. Dopo nove mesi finalmente l’archiviazione delle accuse.
“In data 22-23 novembre 2021 il pubblico ministero e il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Bologna hanno convenuto di archiviare l’accusa fatta nei nostri confronti “non emergendo elementi che consentano la sostenibilità dibattimentale dell’accusa”, scrivono. “Questa archiviazione dimostra con chiarezza l’intenzione politica dell’indagine che ha portato alla nostra denuncia”, scrivono in una nota. “L’indagine, iniziata nel 2019, nasce per iniziativa del P. M. di Trieste, che vuole cogliere un legame intrinseco fra la cosiddetta cellula triestina di passeur o smuggler, noi due e, indirettamente, anche Linea d’Ombra.
Inizialmente l’indagine riguardava solo Gian Andrea. In un secondo tempo, coinvolge anche Lorena. Questo fatto ne produce lo spostamento presso il tribunale di Bologna dato che Lorena, giudice onorario presso il tribunale dei minori di Trieste, rientra nei ranghi della magistratura per la quale è competente appunto il tribunale bolognese.
Il procedimento giunge quindi nelle mani di un magistrato non interessato a un’intenzione politica punitiva nei confronti di chi agisce solidalmente con i migranti, il quale non ha difficolta a ravvisare il carattere artificioso della presunzione di collegamento fra Gian Andrea, Lorena e la cosiddetta cellula triestina e, ancor più, lo scopo di lucro. Chiede quindi l’archiviazione che il giudice per le indagini preliminari conferma.Il succo di questa vicenda sta appunto nel rendere ancora una volta evidente il carattere politico delle denunce nei confronti degli attivisti solidali con i migranti: così è caduta la denuncia contro Mediterranea e prima ancora quella contro Carola Rackete. Crediamo che cadrà anche quella di Andrea Costa di Baobab di Roma. Diverso è caso di Mimmo Lucano perché si tratta di un esempio pericoloso in quanto avrebbe potuto diffondersi presso altri piccoli comuni spopolati come esempio di rinascita sociale”.
Su Altreconomia
Gli Stati membri dell’Unione europea, in collaborazione con Frontex, vogliono rimpatriare almeno 850 cittadini afghani all’anno a partire dall’aprile 2022. Secondo un nuovo bando pubblicato dall’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee, l’Afghanistan rientra infatti tra le “priorità” nella realizzazione di percorsi di reinsediamento e integrazione dei cosiddetti “irregolari” che faranno rientro nel Paese d’origine nel periodo compreso tra il 2022 e il 2026. La presa del potere dei Talebani dell’agosto 2021 sembra così non incidere sulla pianificazione delle istituzioni europee nella gestione del fenomeno migratorio.
L’appalto riguarda le attività congiunte dell’Agenzia con gli Stati membri per fornire assistenza post-arrivo alle persone rimpatriate e prevede un cofinanziamento pari a 14,3 milioni di euro solo per il 2022, con un budget complessivo di oltre 80 milioni di euro da utilizzare entro il 2026. I partner selezionati lavoreranno così per un periodo di quattro anni, con possibilità di proroga di due. L’obiettivo specifico del progetto è quello di garantire “un’assistenza di alta qualità post-arrivo per tre giorni” e un supporto nella “reintegrazione post-rientro a lungo termine per un periodo pari fino a 12 mesi”. Nel bando si legge che la classifica dei Paesi coinvolti è stata sviluppata in collaborazione con gli Stati membri: “Rappresenta i Paesi di rimpatrio classificati in ordine di priorità, sulla base dell’analisi del numero di persone rimpatriate rispetto alla stima dei Paesi d’origine ammissibili e richiesti dagli Stati stessi”.
Il bando è stato pubblicato il 5 novembre 2021 sul sito dell’Agenzia e la definitiva presa del potere dei Talebani in estate non è stata presa in considerazione: l’Afghanistan è al terzo posto, dietro Iraq e Russia. Per ogni Paese è indicata una stima “del numero di persone che avrebbero diritto a ricevere assistenza per la reintegrazione dopo il ritorno, all’anno”. In altri termini, 850 afghani all’anno – così dicono i documenti di gara – dall’aprile 2022 al dicembre 2026 dovrebbero essere supportati nel loro percorso di reinsediamento. Entro metà febbraio 2022 i partecipanti al bando dovranno presentare le proposte specifiche per ogni Paese. Tra i criteri di selezione c’è la disponibilità in capo all’organizzazione di un ufficio nella capitale o nelle principali città dello Stato interessato, una rete di collaborazioni efficace, la possibilità di fare colloqui in presenza e online con le persone supportate, l’accesso a internet. Oltre alla descrizione del processo di reintegrazione si chiede di spiegare “il processo di valutazione della necessità di assistenza specializzata per le persone vulnerabili, compresi, ma non solo, i minori non accompagnati, le donne sole, le vittime della tratta, gli anziani”. Non escludendo così il rimpatrio anche di queste persone.
Non è dato sapere quando sia stata stilata la classifica ma sono rilevanti almeno due profili. Il 10 agosto 2021, pochi giorni prima della presa di Kabul, i ministri degli Esteri di Grecia, Belgio, Danimarca, Austria, Paesi Bassi e Germania hanno inviato una lettera ai commissari dell’Unione europea Mararitis Schinas e Ylva Johansson sottolineando “l’importanza di rimpatriare chi non ha reali esigenze di protezione” nonostante la delicata situazione nel Paese alla luce del ritiro delle truppe internazionali. L’obiettivo era chiaro: non far sì che la ritirata delle truppe internazionali fosse ritenuta automaticamente un motivo per fermare i rimpatri. L’inserimento nel bando dell’Afghanistan è rilevante soprattutto per il medio periodo: sembra difficile che da aprile 2022 si possano organizzare voli charter verso Kabul ma l’esigenza è di non bloccare “automaticamente” le procedure di rimpatrio per i prossimi quattro anni.
Il finanziamento prevede un importo pari a 2mila euro per ogni “pacchetto” a lungo termine post-rimpatrio concesso a colui che sceglie la via del rientro volontario, mille euro per chi viene rimpatriato forzatamente. Per ogni famigliare a carico, a prescindere dalla modalità, vengono aggiunti altri mille euro. Queste somme possono essere utilizzate per il supporto finanziario, l’affitto dell’abitazione e le spese connesse (oltre che l’invio a specifici servizi in caso, ad esempio, di vittime di tratta), l’assistenza sanitaria, l’inserimento scolastico. Oltre questa cifra, sono previsti 615 euro a persona per il supporto per il post-arrivo che coprono le necessità urgenti sanitarie, di sistemazione in alloggi, di trasporto sul territorio. L’analisi degli altri Paesi indicati nel bando sembra dare chiare linee sulla politica di rimpatrio europea: circa 1.400 per l’Iraq, 800 per la Russia, 600 per il Pakistan, 150 Somalia e 250 in El Salvador. Numeri contenuti, invece, quelli riguardanti le persone rimpatriate maggiormente dalle autorità italiane: 75 in Egitto, 50 in Albania e appena 25 in Tunisia. Dal 17 dicembre 2021 sarà possibile conoscere il nome dei partecipanti e, soprattutto, da metà febbraio 2022 l’eventuale strategia per il reinsediamento di cittadine e cittadini afghani nell’inferno di Kabul.
Foto in evidenza di Altreconomia
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