Di Antonella Sinopoli su Voci Globali
Deportazioni. Dove l’umanità vale niente. Dove l’uomo vale denaro. 160 milioni di dollari sarà la cifra pagata per quel carico di merce che arriverà a breve in Rwanda spedita dalla Gran Bretagna. Migranti, rifugiati anzi, provenienti per la maggior parte da Sudan, Eritrea, Afghanistan, Iran e Iraq.
Non propriamente Paesi in cui andare a fare una vacanza o in cui vorresti vivere. Paesi dove sono in corso conflitti, a volte decennali, dove il pericolo di morire (di violenza, mancanza di lavoro, stenti) è reale, dove le crisi umanitarie fanno moltiplicare gli allarmi e le richieste di donazioni da parte degli organismi internazionali, la FAO, l’UNHCR per esempio. Bracci operativi di un sistema che si vorrebbe umanitario che però non ha nessuna forza di far smettere quanto accade. Che sta a guardare.
Come è accaduto per Mohamed Mahmoud Abdel Aziz. Proveniva dal Darfur, non proprio un bel posto dove crescere. Il fatto è che Mohamed non crescerà, non diventerà un uomo adulto. Meglio perderla la vita, meglio appendersi con una corda al collo, che continuare a farsi martoriare, picchiare, insultare, dimenticare.
Come era stato dimenticato da chi, appunto, avrebbe dovuto prendere in carico il suo caso e portarlo via da quel centro di detenzione – Ain Zara a Tripoli – dove lui e moltissimi altri conducevano una vita di abusi. E quanto puoi resistere… Quanto può resistere, non tanto il tuo corpo giovane, certo privato, ma quanto può resistere uno spirito piegato. E con quella delusione nel cuore di chi ha visto solo male.
Ma, the show must go on. Uno show, sì, crudele e ripetuto. Anzi, qualche modifica, qualche peggioramento qua e là. Chi sono le donne e gli uomini che verranno “trasferiti” in terra africana? A dire il vero importa poco. Sono clandestini, questo è quanto. Che si son presi la briga di attraversare la Manica – e già per arrivare fin lì quanti mesi, a volte anni, quante privazioni, quante violenze, quanti altri visti morire – per arrivare in un Paese civile, dove le leggi funzionano e anche i diritti umani sono una garanzia. Sbagliato. Essere arrivati fin lì non è garanzia di una vita diversa, finalmente.
Un migrante – quelli provenienti dai Sud del Mondo – un rifugiato, non è mai al sicuro in quest’Occidente malato e sbagliato. Come osano queste persone sperare che i diritti siano uguali per tutti, che mettere in salvo la pelle e la famiglia sia un’azione normale (anzi forse eroica), che un mondo diverso da qualche parte deve pur esserci.
Sarà in Rwanda questa vita diversa, assicura il ministero degli Interni britannico che anzi si è premurato di far sapere che questi “deportati” potranno rifarsi una nuova vita in sicurezza nel Paese dove stanno per essere spediti (i primi trasferimenti cominceranno il 14 giugno). Una delle (tante) cose assurde delle politiche europee sui migranti è che si continua ad insistere nel chiamarli “irregolari”.
Ma quanti di loro, per esempio, hanno già famiglie all’estero e potrebbero raggiungerle se solo avessero accesso ai visti che invece restano preclusi a chi ha passaporti che non valgono niente. Passaporti che sono carta straccia perché non ti assicurano il diritto di viaggiare, di emigrare. Le restrizioni e gli abusi istituzionali nascono a monte, con una parte del mondo che decide le sorti di tutti.
Altra cosa ridicola sono le dichiarazioni, false nei fatti, che tali trasferimenti (deportazioni) siano necessari per fornire un deterrente al traffico e ai trafficanti di esseri umani. Forse un deterrente sarebbe garantire davvero stessi diritti a tutti nelle stesse condizioni.
E cosa dicono dall’Africa? Quali voci si alzano per urlare, o almeno commentare, quanto sta accadendo? Silenzio, perlopiù. Ma non tutti. Come Mondli Makhania, direttore di City Press che si domanda dove sia l’Unione Africana in questo momento e parla di razzismo neanche ben mascherato insito nell’accordo tra Rwanda e Gran Bretagna. Mentre l’esperto dei diritti umani, Abdul Tejn Cole dalle pagine di Africa is a Country parla di “devil deal” e ricorda i brutti esempi forniti dal presidente Paul Kagame riguardo al rispetto e applicazione dei diritti umani.
Ma torniamo a Mohamed Aziz e a quell’immagine di lui che oscilla da una trave. Pare ci sia rimasto 24 ore prima di essere tirato giù. Sui social i ligi amministratori il cui compito è verificare che non vengano pubblicate foto di violenza o che possano turbare gli utenti si sono affrettati a rimuovere quell’immagine.
Non sarà così per quella che ritrae Valerie, la giovane ucraina fotografata con il suo bell’abito rosso, quello con cui avrebbe dovuto partecipare alla cerimonia di diploma. E invece quella cerimonia non si terrà perché la sua scuola è andata distrutta dai bombardamenti russi. È una foto bella quella che ritrae Valerie, bella nonostante (e forse a causa) della sua tragicità.
Quella di Mohamed, fatta da un telefonino, è invece brutta, orribile. Mohamed un vestito bello non lo ha mai avuto, solo stracci. A scuola non ci è andato probabilmente (era impegnato a sopravvivere e a viaggiare verso la salvezza – no, verso la morte). Nessuno gli ha mandato aiuti in abiti, coperte, latte, beni di prima necessità.
Non ha zie (come quella di Valerie che ha diffuso la foto sui social) che si preoccuperanno per lui. O meglio, chissà quando e se sapranno mai che il loro nipote, figlio, fratello, amico è morto in quel modo. Non ha avuto l’occasione di fuggire dal nuovo orrore in cui era scivolato. La realtà – cruda ed evidente – è che anche nelle guerre (sempre atroci e insopportabili) c’è chi conserva il diritto alla pietà, alla solidarietà, alle azioni di singoli cittadini, organizzazioni e Governi che cercano di alleviare le conseguenze della guerra, le conseguenze del divenire un rifugiato.
C’è chi conserva questi diritti. E c’è chi questi diritti non li ha mai avuti.
Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Si chiamava Blessing Matthew e aveva solo 21 anni. Era partita dalla Nigeria con l’idea di arrivare in Europa e diventare un medico, prendersi cura delle persone, aiutare i più fragili. Ma il suo sogno si è interrotto nella primavera di quattro anni fa sulle Alpi francesi: il corpo della ragazza è stato trovato il 9 maggio del 2018 riverso nel fiume Durance, nella valle di Briançon. È morta nel tentativo di attraversare la frontiera e raggiungere la Francia nella speranza di un futuro migliore. Sul caso di Blessing Matthew è stata aperta un’indagine, che si è conclusa senza che siano state accertate le circostanze del decesso né le eventuali responsabilità. Ma chi viaggiava con la ragazza chiama in causa la polizia e la militarizzazione della frontiera. Per questo oggi la famiglia di Blessing, insieme all’associazione Tous Migrants, che opera al confine tra Italia e Francia per la tutela dei diritti dei migranti, chiede verità e giustizia. In particolare, gli attivisti hanno rintracciato il suo compagno di viaggio, Hervé S., mai ascoltato prima. Le sua testimonianze e le ricostruzioni sono contenute in un’inchiesta, che viene resa nota oggi sul sito Borders Forensics, diretto da Lorenzo Pezzani e Charles Heller. All’inchiesta hanno lavorato un gruppo di ricercatori e ricercatrici che hanno condiviso i risultati con l’associazione Tous Migrants, l’avvocato Vincent Brengarth e la sorella di Blessing, Christiana Obie. Ora chiedono la riapertura del caso giudiziario alla luce dei nuovi elementi raccolti.
Blessing Matthew è stata vista l’ultima volta il 7 maggio quando la gendarmeria ha cercato di arrestare lei ed Hervé S., a La Vachette, a 15 chilometri dal confine franco-italiano. “A noi migranti danno la caccia come agli animali” sottolinea Hervé, che ora è uno dei testimoni chiave: “Quando ci siamo incontrati mi ha dato l’impressione di una ragazza felice. Non era preoccupata. Eravamo tutti convinti di arrivare in Francia” afferma. Poi però l’incontro con la gendarmeria sulle Alpi ha fatto precipitare gli eventi: “Blessing ha iniziato a correre, un militare la inseguiva gridando: “Stop, stop!”. Lei gridava: “Lasciami, lasciami, lasciami”. E poi, Blessing è caduta… caduta nell’acqua”. A questo punto, secondo le ricostruzioni, nessuno ha prestato soccorso alla ragazza che è stata poi ritrovata morta, nelle griglie della diga del fiume, a 15 km da dove è caduta. Anche su questa omissione di soccorso gli attivisti chiedono di fare chiarezza.
Quello di Blessing Matthew non è un caso isolato. Sono almeno 87 le persone identificate come vittime dal 2015 a oggi nel tentativo di attraversare le Alpi, 47 solo sulla frontiera franco-italiana, spiega Cristina Del Biaggio, ricercatrice presso il laboratorio Pacte e l’Université Grenoble Alpes: “La morte di Blessing ha toccato molto la comunità, perché prima del decesso le persone hanno protestato per quello che stava succedendo: la militarizzazione di quella frontiera era un chiaro pericolo”. Sotto la lente degli attivisti non ci sono, infatti, le responsabilità dei singoli ma l’intero sistema dei controlli di frontiera eseguiti dalle forze dell’ordine e dalle guardie di confine. In particolare, aggiunge la ricercatrice, nei giorni in cui Blessing è morta il clima nei villaggi frontalieri era teso per l’arrivo di Generazione identitaria, l’associazione di estrema destra che aveva organizzato una manifestazione. “Il ministro degli Interni francese aveva deciso di rafforzare la presenza con uno squadrone di gendarmi – afferma Del Biaggio – Sono loro che hanno cercato di arrestare Blessing e i suoi compagni di viaggio, passato il confine a Clavière. Quello che abbiamo fatto noi è cercare di ricostruire gli eventi con un testimone oculare, Hervé, che non è mai stato sentito durante l’inchiesta giudiziaria. Questo nuovo elemento ci consente di chiedere la riapertura del caso”. L’inchiesta degli attivisti è corredata da mappe cartografiche e ricostruzioni in 3D che consentono di ricostruire passo passo quanto accaduto la mattina del 7 maggio. E che mettono in discussione anche la versione fornita dai gendarmi intervenuti.
La morte di Blessing è oggi ancora un ricordo vivo nella comunità alpina. La ragazza era partita nel 2016 dalla Nigeria per arrivare in Italia, dove viveva già la sorella maggiore, Christiana. A compiere il viaggio insieme a lei la sorella Happy, che però dopo la traversata del Mediterraneo è stata arrestata dalla Guardia Costiera e riportata prima in Libia, poi in Nigeria. Durante il suo soggiorno in Italia, Blessing è stata ospitata in un centro di accoglienza per richiedenti asilo a Torino, fino all’inizio di maggio 2018, quando ha deciso di partire per la Francia. La sera del 6 maggio Blessing chiamò per l’ultima volta la sorella Happy, da poco sbarcata di nuovo in Italia, per informarla che intendeva attraversare il confine a piedi, non avendo ancora documenti né lavoro in Italia. “Sappiamo che prima di morire Blessing ha gridato aiuto, ma nessuno l’ha aiutata – afferma oggi la sorella -. È stata lasciata morire, per questo continueremo a batterci per avere giustizia”.
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Di Alessandra Ziniti su la Repubblica
Aprile è stato il mese del sorpasso sul 2021, ma più che i numeri (9.597 arrivi dall’inizio dell’anno, ancora assolutamente gestibili) sono le nazionalità dei migranti sbarcati a far scattare il campanello d’allarme. Gli egiziani su tutti (per l’improvviso schizzare in alto del costo della vita nel Paese maggior importatore di grano dalla Russia e dall’Ucraina) e poi, tra i primi dieci Paesi di provenienza, Afghanistan, Eritrea, Guinea, Sudan, Nigeria, Congo allo stremo dopo la quarta stagione di siccità intervallata da alluvioni, l’innalzamento delle temperature oltre la media del resto del mondo e le conseguenti carestie che stanno affamando decine di milioni di persone.
L’Unhcr riaccende l’attenzione sulla relazione tra le emergenze climatiche e le migrazioni forzate. <<La maggior parte delle persone a cui assicuriamo sostegno proviene dai Paesi più esposti all’emergenza climatica, esposte a catastrofi correlate ai cambiamenti climatici, alluvioni, siccità, desertificazioni, eventi che distruggono mezzi di sussistenza e alimentano conflitti costringendo alla fuga>>, dice Filippo Grandi. Nel Sahel, la temperatura media è aumentata di 1,5 gradi rispetto al resto del pianeta con conseguenze devastanti, solo nel Corno d’Africa – secondo le ultime stime di Oim e Save the Children – dopo quattro anni senza piogge, sono 15-16 milioni le persone che hanno già un estremo bisogno di aiuti alimentari. <<Una situazione disperata – dice Save the children – che fa temere che si ripeta quanto avvenuto nel 2011 quando la carestia causò la morte di 260.000 persone: metà erano bambini sotto i 5 anni>>.
Situazioni estreme che – ipotizzando gli analisti di settore – potrebbero spingere nuovi flussi migratori verso l’Europa. E l’Italia, Paese di primo approdo dall’Africa, potrebbe trovarsi stretta in una triplice morsa e dover affrontare un lavoro impegnativo sull’accoglienza: ai profughi ucraini in arrivo via terra da Nord (più di 101.000, 70.000 dei quali hanno già chiesto asilo), si aggiungono quelli in partenza da Nord Africa (Libia e Tunisia) ma anche quelli che sbarcano sulle coste ioniche provenienti dalla Turchia e dalla Grecia. Una rotta, quest’ultima, che si prevede in costante aumento per la grande fuga degli afghani, e non solo quelli riusciti a riparare nei Paesi confinanti dopo la vittoria dei talebani. <<L’Afghanistan – spiega Save the Children – sta affrontando la sua peggiore crisi alimentare. La metà della popolazione, 23 milioni di persone tra cui 14 milioni di bambini, fa i conti con la fame e sopravvive a pane e acqua. Il costo della vita è raddopiato>>.
Nel Corno d’Africa, Somalia, Etiopia, Kenya, Eritrea, dove il 90 per cento della farina e del grano vengono importati da Russia e Ucraina, è già carestia. E i trafficanti di uomini hanno vita facile a rallestrare le loro prede villaggio per villaggio. Le carovane battono le piste che dall’Africa occidentale portano su verso il Marocco puntando poi alla rotta spagnola attraverso le Canarie (ieri l’ultimo naufragio con 24 dispersi) o si spingono verso la Libia, dove i migranti passano di mano e restano per mesi in cerca di lavoro o nei campi di detenzione, sottoposti a ogni tipo di violenza e ricatto.
Decine di migliaia di persone in fuga che potrebbero essere destinate all’illegalità visto che in Italia e in Europa ai migranti climatici in quanto tali non viene riconosciuto lo status di rifugiato. <<E’ davvero difficile sapere quanti sono i migranti che arrivano perché fuggono da clima e carestie – dice Flavio Di Giacomo, portavoce di Oim Italia – ma almeno quelli che passano dalla Libia subiscono tutti tali atrocità in violazione dei più elementari diritti umani che arrivano hanno diritto per questo alla protezione internazionale>>.
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Di Maurizio Ambrosini su Avvenire
Mentre i rifugiati in fuga dall’Ucraina sono stimati ormai in circa cinque milioni, di cui circa 100mila in Italia, la brutta storia dell’accoglienza differenziata aggiunge nuovi anelli a una catena sempre più stretta. Dopo il Regno Unito, anche la Danimarca ha annunciato di voler sottoscrivere un accordo con il Ruanda per decentrare laggiù i propri obblighi di protezione dei rifugiati, deportandoli a migliaia di chilometri dal suo territorio. Ma non si tratta di una novità, bensì dell’inasprimento di un progressivo distacco del nobile Paese scandinavo dalla propria tradizione di impegno umanitario. Suona invece come un campanello d’allarme, per la sua rilevanza istituzionale e il suo significato politico, la notizia dell’accordo che l’Unione Europea sta negoziando con il Senegal per dispiegare nel Paese dell’Africa Occidentale l’apparato di Frontex, la discussa Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. Lo ha riferito ‘Nigrizia’, la rivista dei missionari comboniani nel suo numero di questo aprile 2022.
Se l’accordo andrà in porto, sarà la prima volta di una missione di Frontex fuori dall’Europa, lontano dai confini della Ue e sul territorio di uno Stato sovrano africano, con truppe armate che vestono uniformi della Ue, dispiegano mezzi militari e dispongono di (costose) attrezzature di sorveglianza con i colori dell’Unione. Gli scopi sono quelli delle altre ormai numerose iniziative di «esternalizzazione delle frontiere» della Ue verso i Paesi di transito e talvolta di origine dei migranti e dei richiedenti asilo. Con una retorica sempre più stantia e sempre meno convincente, Bruxelles si trincera dietro gli obiettivi di lottare contro il traffico di esseri umani e di salvare le vite di chi dal Senegal sale a bordo di fragili imbarcazioni in direzione delle Isole Canarie, 1.500 km più a Nord: 19mila persone nel 2021. Le forze aeronavali di Frontex verrebbero pertanto inviate a presidiare la costa senegalese e il confine con la Mauritania. Come se i rischiosi viaggi della speranza non fossero l’effetto della mancanza di mezzi legali per raggiungere l’Europa, e tra i viaggiatori non si contassero persone che una volta giunte nel nostro continente avrebbero titolo per ottenere l’asilo. Frontex è diventata in pochi anni la più ricca e potente agenzia della Ue, con un bilancio rapidamente cresciuto, fino a raggiungere i 757 milioni di euro nel 2022. Forte già oggi di 2mila effettivi, dovrebbe arrivare a quota 10mila entro il 2027. Questo nonostante l’agenzia sia oggetto dal 2019 di accuse per violazione dei diritti fondamentali dei migranti, nel 2020 sia stata posta sotto inchiesta dall’Olaf, l’Ufficio europeo per la lotta anti-frode, nel 2021 sia stata stigmatizzata da un rapporto molto critico della Corte dei Conti europea.
L’obiettivo politico di sigillare le frontiere nei confronti dell’immigrazione indesiderata, compresa quella umanitaria, a Bruxelles pesa più delle crescenti riserve sui metodi adottati da Frontex e sulle modalità d’impiego dei suoi ingenti fondi. L’annuncio della proposta di accordo Ue-Senegal da parte dell’eurocommissaria Johansson ha già suscitato le proteste delle organizzazioni della società civile africana ed europea.
In un documento presentato a febbraio a Bruxelles hanno richiamato il fatto che l’accordo mette in discussione la sovranità nazionale del Senegal, compromette la libertà di mobilità dei cittadini africani, solleva il problema dello squilibrio di potere tra un Paese in via di sviluppo e una potente istituzione interstatale del Nord del mondo come la Ue. Nel tempo delle porte aperte ai rifugiati ucraini, la disuguaglianza nel trattamento che ricevono i rifugiati di altre guerre, altre crisi umanitarie e altre persecuzioni, appare stridente come forse mai in passato. L’impeto di generosità a cui assistiamo è prezioso, ma deve fare breccia anche in altre direzioni, e non fermarsi ai confini d’Europa.
Su Fondazione ISMU
Dopo la significativa riduzione del numero di richiedenti asilo, iniziata tra il 2017 e il 2018, e l’ulteriore contrazione delle domande di protezione avvenuta del 2020 nel periodo della pandemia Covid-19, Fondazione ISMU segnala che nel 2021 le richieste di protezione sono tornate a crescere. Infatti oltre 56mila migranti hanno fatto domanda di asilo nel nostro paese durante il 2021, più del doppio rispetto al 2020 quando le domande pervenute erano state 27mila.
Nel 2021 sono aumentati soprattutto i richiedenti asilo afghani e i minori. Tra i richiedenti asilo del 2021 spicca il dato relativo ai minorenni, che costituiscono un quinto di tutti i richiedenti, di cui 3.257 non accompagnati e 8.312 al seguito di adulti. La crisi afghana dell’agosto 2021 in particolare ha determinato un flusso importante di migranti in cerca di protezione: sono stati oltre 6mila i cittadini afghani che hanno fatto domanda di asilo in Italia l’anno scorso, mentre furono “solo” 600 del 2020. Nel complesso dei paesi UE gli afghani hanno presentato circa 97.800 domande di asilo, il doppio rispetto al 2020.
Nel nostro paese spiccano durante il 2021, oltre alle provenienze asiatiche ormai consolidate quali quelle da Pakistan (7.513) e Bangladesh (7.134), anche le domande presentate da cittadini tunisini, al terzo posto in graduatoria (7.102 richiedenti asilo).
Sul fronte degli esiti in prima battuta va segnalato come il numero di domande esaminate ha risentito dell’andamento delle richieste: le domande esaminate nel corso del 2020 sono state 42mila e quasi 53mila nel 2021, numeri ben diversi rispetto agli anni 2016-2019 quando le commissioni territoriali hanno esaminato in media 90mila domande all’anno.
Nel corso dell’ultimo biennio è diminuito il numero di esiti negativi (56% nel 2021 contro 75% del 2020), mentre nel 2021 è cresciuta la quota di coloro che hanno ricevuto lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria (oltre 16mila persone) ed è aumentata significativamente la risposta positiva delle Commissioni per la concessione di protezione speciale (6mila persone, pari al 12% di tutti gli esiti).
A determinare gli esiti positivi con massima protezione sono soprattutto le domande presentate da cittadini afghani, che nel 2021 hanno ricevuto nel 97% dei casi lo status di rifugiato o quantomeno la protezione sussidiaria, e da cittadini somali (95%). Gli esiti negativi alle domande esaminate nel 2021 sono invece determinati soprattutto dai dinieghi riguardanti cittadini provenienti da: Tunisia (92%), Bangladesh (85%) e Marocco (83%).
Se nel 2021 la crisi afghana ha determinato un flusso importante di richiedenti asilo anche nel nostro paese, nel 2022 si sta assistendo alla crisi dei profughi ucraini in fuga dalla guerra iniziata con l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe. I dati relativi alle richieste di protezione di cittadini ucraini non sono ancora disponibili, ma soprattutto la grave crisi umanitaria sta determinando uno scenario in continua evoluzione con l’adozione di provvedimenti straordinari a livello europeo e nazionale per far fonte all’emergenza. Uno tra tutti il provvedimento che consente di concedere la protezione temporanea per la prima volta in Europa: il 4 marzo il Consiglio europeo ha adottato all’unanimità una decisione di esecuzione che permette una protezione temporanea a seguito dell’afflusso massiccio di persone in fuga dall’Ucraina a causa della guerra. La protezione temporanea è un meccanismo di emergenza applicabile in casi di afflussi massicci di persone e teso a fornire protezione immediata, senza che sia necessario esaminare la sussistenza dei presupposti per lo status di rifugiato o protezione sussidiaria (previo accertamento della sussistenza dei presupposti e l’assenza di condizioni ostative indicati nel DPCM 29 marzo 2022). In Italia sono aperte le richieste di permesso di soggiorno per protezione temporanea per gli sfollati provenienti dall’Ucraina (per informazioni dettagliate consultare il sito https://integrazionemigranti.gov.it/it-it/Ricerca-news/Dettaglio-news/id/2373/Protezione-temporanea-emergenza-Ucraina-domande-in-Questura)
Flussi dall’Ucraina nei primi mesi del 2022. Nei prossimi giorni e mesi si capirà quale sarà il flusso verso l’Italia alla luce anche dell’introduzione della protezione temporanea, tenendo conto comunque che la maggior parte dei profughi per il momento si è spostata nei paesi limitrofi, con la speranza di poter tornare presto nelle proprie case, ma la situazione potrebbe cambiare in funzione dell’andamento del conflitto e della sua durata. I dati UNHCR, infatti, mostrano come i profughi ucraini siano attualmente soprattutto: in Polonia (2,5 milioni), in Romania (645mila), nella Repubblica Moldova e in Ungheria (400mila in entrambi in paesi). Per maggiori informazioni clicca qui.
Occorre, tuttavia, considerare che i cittadini ucraini sono esentati dall’obbligo di visto e possono circolare liberamente nell’area Schengen per 90 giorni. e, quindi, potrebbero spostarsi in altri Stati membri UE nelle prossime settimane.
Secondo gli ultimi dati del Ministero dell’Interno, nel 2022 le persone in fuga dal conflitto in Ucraina arrivate in Italia alla data di oggi 13 aprile sono complessivamente 91.137: 47.112 donne, 10.229 uomini e 33.796 minori (aggiornamenti disponibili su: https://www.interno.gov.it/it).
Su Centro Astalli
È stato presentato il Rapporto annuale 2022 del Centro Astalli: uno strumento per capire attraverso dati e statistiche quali sono le principali nazionalità dei 17mila rifugiati e richiedenti asilo assistiti nelle diverse sedi territoriali, di cui 10mila a Roma; quali le difficoltà che incontrano nel percorso per il riconoscimento della protezione e per l’accesso all’accoglienza o a percorsi di integrazione.
Un’edizione rinnovata in occasione dei 40 anni di attività del Centro Astalli con contenuti ampliati e riorganizzati in una veste grafica nuova. Attraverso i tre verbi che costituiscono la mission del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, Accompagnare, Servire, Difendere i diritti dei rifugiati, raccontiamo la strada fatta. Tramite testimonianze e approfondimenti si cerca di far emergere i nodi sulle migrazioni forzate in Italia: vulnerabilità, cura e inclusione sociale.
Ad aprire l’evento, che si è svolto nella Sala Squarzina del Teatro Argentina a Roma, la testimonianza di Duclair, rifugiato del Camerun, e di Olha, fuggita dalla guerra in Ucraina.
A seguire p. Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, introdotto da Marino Sinibaldi, Presidente del Centro per il Libro e la Lettura del MIC, ha presentato i dati che emergono dal rapporto, che ben raccontano una realtà che, grazie agli oltre 600 volontari che operano nelle sue 8 sedi territoriali (Roma, Bologna, Catania, Grumo Nevano, Palermo, Trento, Vicenza e Padova), si adegua e si adatta ai mutamenti sociali e legislativi di un Paese che fa fatica a dare la dovuta assistenza a chi, in fuga da guerre e persecuzioni, cerca di giungere in Italia.
Gli interventi di S.Em. Cardinal Jean-Claude Hollerich, Presidente della Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione Europea, e Marina Sereni, Vice Ministra del MAECI, hanno sottolineato l’urgenza di avviare processi di pace in Ucraina e in tante altre parti del mondo dove guerre e dittature mettono in fuga miloni di migranti forzati e alimentano la piaga del traffico degli esseri umani.
All’interno della pubblicazione, le foto di Francesco Malavolta che vogliono dare testimonianza di quanti in fuga da guerre e persecuzioni rimangono bloccati alle frontiere europee. L’evento è stata anche l’occasione per visitare la mostra fotografica “Volti al futuro” realizzata da Malvolta per i 40 anni di attività del Centro Astalli.
Il Rapporto annuale 2022 è disponibile qui.
La sintesi del Rapporto annuale 2022 è disponibile qui.
L’intervento di p. Camillo Ripamonti è disponibile qui.
Il video intervento di S.Em. Cardinal Jean-Claude Hollerich è disponibile qui.
Il video della presentazione del Rapporto è disponibile qui.
Di Eleana Elefante su Altreconomia
Mentre è in corso il nuovo flusso migratorio proveniente dall’Ucraina, invasa e martoriata dalle forze armate russe, continuano a registrarsi morti e dispersi nel Mediterraneo centrale. Dal 24 febbraio al 31 marzo 2022, i cittadini ucraini accolti in Italia sono stati 75.155: in maggioranza donne (38.735) e minori (29.222), mentre gli uomini sono 7.158. A confronto, in tutto il 2021, dalla rotta del Mediterraneo centrale sono giunte poco più di 67mila persone. Donne, uomini e bambini per le quali la sensibilità pubblica e istituzionale ha però invocato quel richiamo all’invasione che, nei fatti, ha generato una discriminazione tra profughi di “serie A” e di “serie B”.
Tra gennaio e marzo 2022 sono state 6.670 le persone che sono riuscite a raggiungere le coste italiane dopo aver attraversato il Mediterraneo centrale. Fra loro 842 minori non accompagnati (erano stati 10.053 in tutto il 2021). A marzo gli arrivi sono stati 1.296 contro i 2.395 del marzo 2021. I Paesi di origine maggiormente coinvolte in questo flusso sono Egitto, con 1.621 persone, Bangladesh (1.276 persone), Tunisia (918 persone), Afghanistan (469 persone). Molti coloro che dopo la partenza dalla Libia sono stati intercettati in mare e riportati sulle spiagge del Paese nordafricano: oltre 3.094 persone, secondo i dati forniti dall’Organizzazione mondiale per le migrazioni. I corpi restituiti dal mare sono 56 e 243 persone risultano scomparse. Nel 2021, su questa rotta, sono state respinte in Libia 32.425 persone; 662 sono i corpi ritrovati e 891 le persone scomparse.
Circa 359 persone sono già morte quest’anno sulla rotta del Mediterraneo centrale: solo nel mese di marzo si sono registrati almeno quattro naufragi evitabili. Il primo marzo, la Guardia costiera tunisina ha recuperato 15 corpi, tra cui quello di un bambino, mentre 35 persone restano ancora disperse. Erano partiti da Sabratha, città a Ovest di Tripoli, il 27 febbraio a bordo di una barca in vetroresina che si è capovolta poche ore dopo a causa delle cattive condizioni del mare. Il 12 marzo un’altra imbarcazione con 25 persone a bordo si è capovolta a poca distanza dalla costa libica nei presso di Tobruk (nella Libia orientale). Le autorità hanno soccorso sei persone e recuperato sette corpi mentre altre 12 persone risultano ancora disperse. Il 18 marzo almeno 17 persone partite dalla Tunisia sono annegate in silenzio: erano per lo più cittadini siriani. La Guardia costiera tunisina ha ritrovato prima 12 corpi al largo della costa di Nabeul (città nel Nord del Paese) e altri cinque il giorno dopo. Il 23 marzo una barca partita dal Sfax, in Tunisia, si è rovesciata: sono solo tre i sopravvissuti e i sei i corpi recuperati dalle autorità locali.
Il mese di aprile si è aperto con un ulteriore, imponente, naufragio. Nella notte tra l’1 e il 2 aprile al largo della Libia, in acque internazionali, è naufragata infatti una barca con a bordo almeno 90 persone. L’Ong Alarm Phone aveva diramato diverse richieste di soccorso alle autorità italiane e maltesi, tutte disattese, già nei quattro giorni precedenti il drammatico epilogo. Sono solo quattro i sopravvissuti soccorsi dalla petroliera commerciale “Alegria 1” che li ha però riportati in Libia. Medici Senza Frontiere ha denunciato questo ennesimo pushback dichiarando che la petroliera ha ignorato sia le ripetute offerte di assistenza medica, sia l’invito a non riportare i sopravvissuti in un Paese dove, quasi certamente, dovranno affrontare detenzioni, abusi e maltrattamenti. In attesa di ricevere la conferma sul numero esatto delle perdite, quest’ultimo rappresenta il più grave naufragio avvenuto da inizio anno davanti alle coste della Libia.
Nonostante l’assenza istituzionale, i salvataggi in mare continuano. Il 5 marzo gli operatori della nave Geo Barents di Medici Senza Frontiere hanno salvato 80 persone a bordo di un gommone alla deriva. Tra loro tante donne e sei bambini di età inferiore ai quattro anni. Nella notte del 6 marzo gli stessi hanno salvato altre 31 persone terrorizzate dall’oscurità e dalle condizioni meteo-marine talmente avverse da aver rovesciato il barchino su cui viaggiavano: 111 vite messe in salvo in meno di 24 ore, tra cui 52 minori (il più piccolo di soli quattro mesi e ben 45 non accompagnati) oltre a dieci donne tra cui due incinte.
Molte delle persone ritrovate avevano lacerazioni sulla pelle da ustione da carburante misto all’acqua salata. Il 14 marzo, dopo varie richieste disattese, la nave umanitaria è stata autorizzata ad attraccare nel porto di Augusta (SR) per effettuare lo sbarco dei 111 naufraghi. Il 24 marzo gli operatori della Ocean Viking di SOS Méditerranée hanno soccorso 30 persone da un gommone in avaria in acque internazionali, al largo della Libia. Il 26, in un’operazione di soccorso durata oltre cinque ore per via delle condizioni avverse, hanno salvato altre 128 persone. Purtroppo tra loro anche due corpi senza vita. Ne verrà recuperato solo uno. Le 157 persone salvate sono sbarcate ad Augusta. Il 27 marzo 32 persone a largo di Bengasi (nell’Est del Paese) su una barca in avaria hanno lanciato diverse richieste di aiuto ad Alarm Phone che ha allertato le autorità. Sono state salvate il giorno dopo dalla portacontainer “Karina”. Il comandante ucraino, Vasyl Maksymenko, insieme al suo equipaggio non ha esitato a intervenire in soccorso dei naufraghi. Il 29 marzo la Sea Watch 4 ha offerto supporto alla nave mercantile per effettuare il trasbordo dei 32 naufraghi sulla propria nave umanitaria. Il giorno dopo altre 113 persone sono state messe in salvo dalla Geo Barents di Medici Senza Frontiere. Alcuni dei naufraghi, esausti dopo ore in mare, erano caduti in acqua. A fine mese Alarm Phone ha lanciato una richiesta di soccorso per 145 persone su un gommone sovraffollato con il motore in avaria al largo della Libia. A bordo presenti molte donne e bambini.
Si tratta di una breve rassegna di persone e storie ignorate e respinte alle frontiere. In nome di chi scompare senza più un nome, senza più un volto, aiutare non dovrebbe più essere un’iniziativa discrezionale ma un diritto alla vita e alla dignità riconosciuto universalmente a tutti coloro che fuggono dalle stesse guerre, dagli stessi conflitti, dalle stesse violenze. Che arrivino dall’Ucraina o dalla Libia.
Sono oltre 76 mila i profughi ucraini arrivati in Italia dal 24 febbraio scorso (data di inizio dell’offensiva russa nel paese) a oggi. La maggior parte è composta da donne e bambini ospitati per ora presso familiari e amici. Per il flusso straordinario delle persone in fuga dalle zone di conflitto il coordinamento della gestione dell’accoglienza è stata affidata alla protezione civile, che ieri (29 marzo) ha emesso un’ordinanza (n.881) per fissare alcuni criteri base in termini di spesa e di assistenza. Sempre nella giornata di ieri (29 marzo) il presidente del Consiglio Mario Draghi ha firmato il dpcm sulla protezione temporanea che recepisce la decisione del Consiglio Ue del 4 marzo scorso.
I beneficiari della protezione temporanea prevista dalla direttiva 55/2001 sono gli sfollati dall’Ucraina a partire dal 24 febbraio 2022. In questa categoria rientrano non solo i residenti in Ucraina, ma anche cittadini di Paesi terzi che beneficiavano di protezione internazionale e i familiari. Il permesso di soggiorno ha validità di un anno e può essere prorogato di sei mesi più sei, per un massimo di un anno. Consente l’accesso all’assistenza erogata dal servizio sanitario nazionale, al mercato del lavoro e allo studio. Il provvedimento prevede anche specifiche misure assistenziali e consente ai cittadini ucraini già presenti in Italia di chiedere il ricongiungimento con i propri familiari ancora presenti in Ucraina. Per quanto riguarda l’accoglienza l’ordinanza 881 prevede contributi sia ai singoli che alle organizzazioni del terzo settore. In particolare per le persone che hanno trovato autonomamente un posto è previsto un contributo una tantum di 300 euro per tre mesi. A questi si aggiungono 150 euro per ogni minore presente in famiglia. Alle regioni e alle province autonome, invece, vengono riconosciuti 1500 euro circa per ciascun profugo. Il governo si impegna inoltre ad allargare di 15mila i posti attualmente in accoglienza.
“Dopo oltre un mese di guerra la montagna ha partorito topolino: abbiamo atteso tre settimane senza ragione, il dpcm di ieri non cambia nulla rispetto alle decisioni prese in sede europea. L’Italia poteva fare qualcosa di più e invece il governo ha scelto di appiattirsi sulle posizioni dei paesi di Visegrad”, è il commento duro di Filippo Miraglia, responsabile Immigrazione di Arci nazionale. Le critiche sono rivolte alla scelte di includere tra i beneficiari solo gli ucraini, i lungosoggiornanti in Ucraina e i titolari di protezione internazionale, lasciando fuori chi aveva un permesso di breve periodo per studio o lavoro. “La decisione presa in sede europea consente ai governi di lasciarsi una aperta porta e di decidere autonomamente, l’Italia ha deciso di attenersi su posizioni più restrittive, questo implica che le persone dovranno fare domanda d’asilo, intasando il sistema”.Critiche arrivano anche sulla gestione dell’accoglienza. Secondo OpenPolis l’Italia si è fatta trovare impreparata anche stavolta, nonostante le riforme fatte negli anni per una gestione adeguata. “Ad oggi il 65% delle persone presenti nei centri di accoglienza sono ospitate nei Cas – scrivono in una nota -. Non stupisce quindi che il governo, in questa difficile situazione, abbia deciso di attivare la protezione civile, attraverso meccanismi emergenziali, piuttosto che affidarsi al sistema previsto dalle norme vigenti. In questo modo tuttavia si va delineando, almeno provvisoriamente, una nuova struttura emergenziale per la gestione dei rifugiati, del tutto sovrapposta, anche se in buona parte intersecata, a quella prevista dalla normativa vigente”.
Foto in evidenza di Daniele Napolitano su Redattore Sociale
Di Paolo Lambruschi su Avvenire
Profughi rom ucraini discriminati in Polonia. Faticano ad essere accolti, più spesso non riescono a uscire dai centri perché nessuno li vuole. In ogni caso è meglio che tacciano la propria origine e non rivelino dove si trovano per evitare aggressioni. La denuncia viene dagli attivisti della minoranza in Polonia che stanno affrontando un’emergenza nell’emergenza.
«Il nostro Paese – spiega Ela Mirga, artista polacca – sta offrendo una grande prova di generosità in questa tragedia accogliendo oltre due milioni di profughi. Ogni giorno ai valichi di confine arrivano circa 100 profughi ucraini rom ed è un problema. In Ucraina prima dell’invasione russa ne vivevano circa 400mila. Molti sono privi di documenti e spesso non sanno dove andare: sono stati costretti ad accamparsi e presi di mira da bande neonaziste nei giorni scorsi. Ma il problema è che molti sono bloccati dentro i centri».
Prova a chiarire la situazione Joanna Talewicz-Kwiatkowska, antropologa culturale polacca, docente all’istituto di studi interculturali all’università Jagellona di Cracovia e collaboratrice del museo di Auschwitz. Attivista di diverse organizzazioni polacche per i diritti civili che tutelano i rom ed essa stessa membro della comunità, dallo scoppio della guerra gira per Varsavia, Cracovia e altri centri minori dove sono arrivati molti profughi ucraini rom. Che attualmente, pur nella difficoltà di tenere una contabilità, sono circa duemila.
«La situazione era già tesa in Ucraina – ricorda – infatti nel 2018 ci sono stati pogrom e omicidi. Queste tensioni si sono spostate oltre confine quando è iniziata la guerra. In molti Paesi dell’Europa orientale i rom sono vittime di aggressioni a causa di stereotipi razziali, di xenofobia e odio in rete. Nei centri di accoglienza polacchi, quando gli altri ospiti li vedono, le tensioni scattano immediatamente. Le accuse sono le solite, il più delle volte senza prove: rubano, rivendono all’esterno gli aiuti, ne ricevono troppi. Dove sono? Per ragioni di sicurezza non posso dirlo perché rischiano di venire aggrediti. Stanno in luoghi riconvertiti all’accoglienza come teatri, scuole, musei».
Quanto alle accuse, la ricercatrice smentisce seccamente. «Non è vero che ricevano troppi aiuti perché stanno arrivando famiglie numerose con persone anziane e malate. Il problema principale spesso è la mancanza di documenti, ma come per molti altri profughi. Nei primi giorni del conflitto è arrivata la prima ondata di ucraini benestanti con documenti e con mezzi propri. Questo è successo anche per i rom, non siamo diversi dagli altri. E nessuno infatti se n’è accorto. Poi sono arrivate le persone più povere o quelle che sono state giorno sotto le bombe negli scantinati con i bambini a Kiev o a Kharkiv e poi sono fuggite in treno. Alcune di queste persone sono anche rom, anche loro hanno sofferto le conseguenze della guerra e sono fuggite senza documenti o senza soldi. Oppure appartengono alle classi sociali più vulnerabili. E sono cominciate le discriminazioni. Sono tutti ladri? Alcuni lo sono. Ma tra i profughi ci sono anche i delinquenti e i mafiosi ucraini e nessuno dice nulla».
Oltre alle tensioni interne ai centri, la docente rileva difficoltà nel farli accogliere. «Ci sono stati diversi casi. Sono dovuta intervenire con le autorità per far entrare in un centro di Varsavia un’anziana malata di Parkinson, e una famiglia con dodici bambini e due sole donne che le accompagnavano mentre i mariti erano rimasti in Ucraina. Erano accampati. E poi molti non riescono a uscire dai centri di accoglienza perché per loro non c’è posto. La Polonia sta facendo qualcosa di straordinario nell’accoglienza dei profughi ucraini. Ma i rom non li vuole nessuno e sono costretti a restare nei centri».
Cosa chiede? «Lancio due appelli. Il primo è alle comunità rom dei Paesi dell’Unione Europea. Aiutiamoci. Finora abbiamo organizzato trasferimenti in autobus solo verso Svezia e Germania. Il secondo è alle autorità polacche perché lancino una campagna contro l’antitziganismo, il razzismo, la xenofobia e le parole di odio. In questo clima ho paura anche per me e per la mia famiglia».
Su Il Post
Da anni si dice che una delle più grandi conseguenze del cambiamento climatico sarà l’aumento delle migrazioni umane, perché molti territori diventeranno inospitali a causa dell’aumento delle temperature medie, della maggiore aridità o dell’innalzamento del livello del mare. Si dice anche che queste migrazioni, in parte già in atto, avranno a loro volta conseguenze economiche (nei paesi di partenza e in quelli di arrivo) e potranno causare instabilità politiche ed eventualmente conflitti sociali.
Concretamente è difficile immaginare cosa succederà e quali siano gli scenari possibili in base alla misura del riscaldamento globale, anche perché le migrazioni, come altri fenomeni umani, sono influenzate da molteplici fattori. Tuttavia l’ultimo grande rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) dell’ONU, pubblicato il 28 febbraio scorso, ha provato a fare qualche previsione: rispetto al precedente grande rapporto dell’IPCC, risalente al 2014, contiene molte più analisi sull’impatto sociale del cambiamento climatico.
Il rapporto segnala che la maggior parte delle migrazioni climatiche avverrà all’interno dei confini dei singoli paesi, con dinamiche interne che saranno prevalenti rispetto a quelle internazionali. Del resto, è così già oggi.
I motivi principali che hanno a che vedere con il clima, per cui le persone scelgono di spostarsi da una zona a un’altra di uno stesso paese, sono gli effetti delle tempeste tropicali e delle alluvioni; nell’Africa sub-sahariana, oltre che in alcune parti dell’Asia meridionale e del Sudamerica, invece, le persone si spostano a causa della siccità.
A livello globale non esistono dati completi e affidabili sulle motivazioni delle persone che migrano volontariamente per ragioni legate ai cambiamenti climatici (in generale vengono fatte poche indagini sui motivi per cui ci si sposta per vivere altrove), ma per la comunità scientifica, secondo le valutazioni dell’IPCC, le migrazioni internazionali sono minoritarie rispetto a quelle nazionali. Nella maggior parte dei casi avvengono tra paesi contigui, tra cui esistono accordi riguardo alle condizioni di lavoro delle persone migranti, oppure con forti legami culturali. La scelta di migrare è infatti l’ultima a essere presa in considerazione, e quando ci si decide si preferisce farlo senza allontanarsi troppo.
Ci sono più dati sulle migrazioni forzate dovute a singoli disastri naturali, in molti casi aggravati o resi più frequenti dal cambiamento climatico: sono i dati che dal 2008 sono raccolti dall’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC), un’organizzazione non governativa internazionale che raccoglie dati e studia le migrazioni interne ai paesi.
Secondo l’IDMC le grandi tempeste e le grandi alluvioni sono gli eventi meteorologici che causano maggiori migrazioni nel mondo: si stima che in media ogni anno più di 20 milioni di persone si spostino per questo motivo, con grosse differenze di anno in anno a seconda della frequenza e della gravità di eventi disastrosi in aree molto popolate.
In generale, dice il rapporto, «attraverso le migrazioni forzate da eventi meteorologici estremi e modifiche al clima, il cambiamento climatico ha generato e perpetuato forme di vulnerabilità». E anche ipotizzando che si riesca a contenere il più possibile l’innalzamento delle temperature medie globali è molto probabile che continui a farlo.
Al momento, dice il rapporto, non è possibile prevedere quante persone saranno coinvolte nelle migrazioni climatiche nei prossimi decenni, e quali paesi saranno maggiormente interessati dagli spostamenti, sia perché le migrazioni sono influenzate da molteplici fattori, tra cui lo sviluppo economico, sia perché tutto dipende da quanto aumenteranno le temperature medie.
Tra gli altri, l’IPCC ha citato due studi di Kanta Kumari Rigaud, un’esperta di ambiente, clima e migrazioni della Banca Mondiale, che ha cercato di stimare l’ampiezza delle migrazioni climatiche future tenendo conto delle previsioni sulla crescita della popolazione nelle diverse parti del mondo, di variabili come la quantità di pioggia e la produttività agricola e dei diversi modelli sul cambiamento climatico.
Secondo una stima, entro il 2050 tra i 31 e i 72 milioni di persone si sposteranno nei paesi dell’Africa sub-sahariana, dell’Asia meridionale e dell’America Latina a causa della scarsità d’acqua, dell’innalzamento del livello del mare e delle carestie, anche nel caso di una forte riduzione delle emissioni di gas serra, la causa del cambiamento climatico. «In Africa potrebbe avvenire la migrazione climatica su più larga scala all’interno dei diversi paesi», ha spiegato Rigaud a Vox, che ha dedicato un articolo dettagliato a questo tema.
L’articolo sottolinea che negli ultimi anni la consapevolezza che il cambiamento climatico avrà un effetto sulle migrazioni umane ha fatto sì che nei dibattiti su questi temi passasse il sottotesto che «un mondo più caldo spingerà orde di persone dai paesi più poveri a quelli più ricchi, minacciando la sicurezza e l’economia di questi ultimi». Secondo l’analisi di Vox, quest’interpretazione ha causato l’uso di toni allarmistici sui giornali e favorisce la xenofobia, ed è scorretta dato che si prevede che la maggior parte delle migrazioni climatiche avverrà appunto all’interno dei singoli paesi.
I paesi in questione avranno bisogno di specifiche strategie di adattamento per far fronte allo spostamento della propria popolazione. Negli stati insulari dell’Oceano Pacifico, minacciati dall’innalzamento del livello del mare, esistono già: alle Fiji il governo sta ricollocando più nell’entroterra le comunità che vivono sulle coste; a Vanuatu si tiene conto del cambiamento climatico e delle migrazioni in ogni ambito di decisione politica, compresa l’istruzione.
Dato che in genere i paesi maggiormente esposti alle migrazioni interne sono quelli che storicamente hanno avuto minori responsabilità nel causare il cambiamento climatico, queste problematiche avranno un peso sempre maggiore nei negoziati internazionali sul contrasto al riscaldamento globale, che però finora non hanno raggiunto particolari risultati: all’ultima conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, la COP26 di Glasgow, è stato confermato lo stanziamento di un fondo da 500 miliardi di dollari da versare in 5 anni da parte dei paesi più ricchi per quelli più poveri, ma una promessa analoga era stata formulata già dieci anni prima.
Di fatto l’ultimo rapporto dell’IPCC avvalora dal punto di vista scientifico la sensatezza di questi aiuti, che nel gergo dei negoziati climatici sono noti come compensazioni ai «loss and damage», le perdite e i danni causati dal cambiamento climatico ai paesi che meno ne sono responsabili.
Il rapporto ribadisce inoltre, sempre con maggiori prove, cose che a grandi linee già si sapevano, in alcuni casi riscontrando una maggiore gravità rispetto a stime precedenti: i danni legati al cambiamento climatico si stanno facendo vedere più velocemente di quanto preventivato e si stima che il 40 per cento della popolazione mondiale sia «altamente vulnerabile» ai suoi effetti; le tecnologie per la rimozione dell’anidride carbonica dall’atmosfera da sole non risolveranno il problema, anzi rischiano di spingerci a emetterne di più; c’è sempre meno tempo per intervenire contro i cambiamenti in atto e secondo l’IPCC devono essere assunte misure drastiche entro questo decennio.
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